Sono tornata a casa per qualche giorno. Casa-casa, quella originaria, con mamma, papà e fratello. Si sta bene a casa: odori familiari, abuso del dialetto, caffeina effusa tra le mura ad ogni ora del giorno e della notte, montagne di libri e post-it ovunque. Mi piace. E' disordinata, piena di roba, utile, inutile, curiosa. Non necessariamente in quest'ordine. Non è una casa melensa, di quelle piene di angioletti, oggetti Thun vari ed eventuali (proprio non li sopporto), chincaglierie d'argento o fossili da matrimoni del secolo scorso di parenti di sesto grado. Niente di tutto ciò. O meglio, tutto ciò è relegato in qualche vetrinetta sapientemente nascosta in un anfratto semioscuro. Tanta roba. Accatastata, addossata, affrontata. Niente è al suo posto. Ecco, non riguarda la quantità di oggetti inutili, piuttosto fuori posto. Mi guardo intorno. Un tazzone da caffè pieno di pennarelli se ne sta beato sul pavimento, insieme ad una borraccia e ad una pila di libri: Alzo gli occhi di un metro e, accampati su una poltrona, vedo degli adesivi infantili, di quelli da attaccare alle pareti, un giubbotto che non metto e che provo a buttare da anni ma, non si sa come, me lo ritrovo sempre in giro, un ventaglio gigante, due regali del Natale scorso ancora da consegnare e delle videocassette. Sposto lo sguardo. Panoramica. Tempere, stampini per muffin, ancora libri, una scarpa da sposa, una bandiera della Finlandia, uno scatolone, una vecchia lampada, due salvadanai, un uomo di cartone, una chitarra e un bastone della pioggia. Il tutto in salotto. Credo non piaccia a nessuno a parte me. Il fatto è che mi sento bene nel caos. Non è una questione di pigrizia, quella subentra dopo, è una sensazione di benessere mentale che scaturisce, nella mia testa, solo dove c'è un certo disordine. Non lo so come mai, a volte mi chiedo se il disordine esteriore ne rifletta uno interiore, se non sia lo specchio di una confusione intrinseca. Ho letto diversi alìrticoli al riguardo, e quasi tutti dicevano che il disordine è sintomo di una disorganizzazione mentale, che il disordine non aiuta a chiarirsi le idee, a pensare lucidamente. In una certa misura ci credo, è una riflessione abbastanza logica. Ma nella pratica, mi sento molto più a mio agio nel disordine che nell'ordine. In tutto ciò, sono consapevole delle diverse accezioni insite nella parola; disordine come menefreghismo, sciatteria, agitazione, lite, noncuranza e trasandatezza. Tutti concetti negativi. Ma sono convinta ci sia stato un errore di catalogazione. Attribuire alla vivacità di un ambiente non organizzato tutta la negatività della parola diosrdine è una condanna bella e buona. Si dovrebbe coniare una nuova parola, ad esempio divordine (diverso+ordine), perchè non posso pensare che la parola usata per definire guerre, tumullti, disastri, squilibri fisici e mentali sia la stessa che si usa per definire la casualità creativa di certi ambienti. Che avesse ragione Jung quando diceva "In ogni caos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto"?
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Sono tornata a casa per qualche giorno. Casa-casa, quella originaria, con mamma, papà e fratello. Si sta bene a casa: odori familiari, abuso del dialetto, caffeina effusa tra le mura ad ogni ora del giorno e della notte, montagne di libri e post-it ovunque. Mi piace. E' disordinata, piena di roba, utile, inutile, curiosa. Non necessariamente in quest'ordine. Non è una casa melensa, di quelle piene di angioletti, oggetti Thun vari ed eventuali (proprio non li sopporto), chincaglierie d'argento o fossili da matrimoni del secolo scorso di parenti di sesto grado. Niente di tutto ciò. O meglio, tutto ciò è relegato in qualche vetrinetta sapientemente nascosta in un anfratto semioscuro. Tanta roba. Accatastata, addossata, affrontata. Niente è al suo posto. Ecco, non riguarda la quantità di oggetti inutili, piuttosto fuori posto. Mi guardo intorno. Un tazzone da caffè pieno di pennarelli se ne sta beato sul pavimento, insieme ad una borraccia e ad una pila di libri: Alzo gli occhi di un metro e, accampati su una poltrona, vedo degli adesivi infantili, di quelli da attaccare alle pareti, un giubbotto che non metto e che provo a buttare da anni ma, non si sa come, me lo ritrovo sempre in giro, un ventaglio gigante, due regali del Natale scorso ancora da consegnare e delle videocassette. Sposto lo sguardo. Panoramica. Tempere, stampini per muffin, ancora libri, una scarpa da sposa, una bandiera della Finlandia, uno scatolone, una vecchia lampada, due salvadanai, un uomo di cartone, una chitarra e un bastone della pioggia. Il tutto in salotto. Credo non piaccia a nessuno a parte me. Il fatto è che mi sento bene nel caos. Non è una questione di pigrizia, quella subentra dopo, è una sensazione di benessere mentale che scaturisce, nella mia testa, solo dove c'è un certo disordine. Non lo so come mai, a volte mi chiedo se il disordine esteriore ne rifletta uno interiore, se non sia lo specchio di una confusione intrinseca. Ho letto diversi alìrticoli al riguardo, e quasi tutti dicevano che il disordine è sintomo di una disorganizzazione mentale, che il disordine non aiuta a chiarirsi le idee, a pensare lucidamente. In una certa misura ci credo, è una riflessione abbastanza logica. Ma nella pratica, mi sento molto più a mio agio nel disordine che nell'ordine. In tutto ciò, sono consapevole delle diverse accezioni insite nella parola; disordine come menefreghismo, sciatteria, agitazione, lite, noncuranza e trasandatezza. Tutti concetti negativi. Ma sono convinta ci sia stato un errore di catalogazione. Attribuire alla vivacità di un ambiente non organizzato tutta la negatività della parola diosrdine è una condanna bella e buona. Si dovrebbe coniare una nuova parola, ad esempio divordine (diverso+ordine), perchè non posso pensare che la parola usata per definire guerre, tumullti, disastri, squilibri fisici e mentali sia la stessa che si usa per definire la casualità creativa di certi ambienti. Che avesse ragione Jung quando diceva "In ogni caos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto"?
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