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La scena

Creato il 24 ottobre 2010 da Fabry2010
La scena

Foto di Sergio Toscano

[A gentile richiesta]


La stazione è sempre deserta a quell’ora. Il ragazzo con gli occhiali siede composto sull’unica panchina di ferro, la schiena curva, le guance cave, il torace glabro e bianchiccio sotto la camicia gualcita, ginocchia serrate come a difendere qualcosa. Legge un volume legato in finto cuoio di cui ti sforzi invano di cogliere il titolo: dev’essere un testo impegnativo, un trattato filosofico, un saggio scientifico, perché di tanto in tanto alza le lenti sulla fronte ariosa, strofina con la mano gli occhi arrossati, quasi privi di ciglia, getta uno sguardo miope oltre i binarî sul capostazione impalato a sgranare i minuti in attesa del treno e rimugina qualcosa tra le labbra umide, appena disegnate, vergando linee e postille se un’agnizione lo folgora movendolo a un risolino velato d’ironia; poi pigia la montatura sul naso affilato, rosicchia una pellicina, china la testa e si reimmerge fiducioso fra le righe.

Noti che sfiora col polso una tempia, punta a terra i talloni, stringe la lingua fra i denti, vibra le gambe al ritmo di una musica immaginaria, scoprendo caviglie tanto esili e delicate che potrebbero spezzarsi da un momento all’altro. Ossessioni da poco, piccole liturgie compulsive per favorire la concentrazione. Ma ti appare così scoperto e disarmato che ti vergogni d’aver rubato la sua intimità e ti volti di scatto, quasi avessi un delitto sulla coscienza. Hai sempre pensato che leggere in pubblico sia una sorta di regressione: si è nudi, esposti, indifesi, impossibile controllare le proprie reazioni oltre una data soglia d’impegno; ora capisci che è un atto osceno, non diverso dal far l’amore in una piazza assolata gremita di folla.

Ecco, smette di studiare e osserva le parole come bacilli in un vetrino, libero da inquietudini, ricordi. Forse non ne ha, o sono talmente sereni che non ha bisogno di evocarli. Niente potrebbe intaccare la sua pace lievemente ombrata di malinconia: giureresti che invecchierà così, e che così morirà, congedandosi con un sospiro tra le carezze dei figli e gli urli dei nipoti, in una casa dai soffitti altissimi scuriti dalla fuliggine che sale dai camini sempre accesi.

Ancora non s’è accorto di te. Non può, perché ti sei fermato alle sue spalle, dietro la colonna di basalto che sovrasta la fontana barocca dai cui spruzzi non ti curi di proteggerti malgrado il freddo ti penetri le ossa. Vorresti, ma non riesci a staccare gli occhi da lui, e questo t’inquieta. In fondo è un ragazzo come tanti, niente di speciale: i capelli secchi e scompigliati sanno di refettorî e stanze condivise; la cintura a buon mercato, le tasche dai bordi logori e gli anelli in similoro descrivono chiaramente le sue origini.

Sei attratto dalla lentezza dei movimenti, dalla grazia senza pari che sprigiona la sua persona metafisica, quasi di vetro, timorosa di dar noia al mondo con un gesto soverchiamente deciso, foss’anche un colpo di tosse, un respiro. Ma ti seduce soprattutto il modo armonioso di portare lo sguardo: avido di sapere, sempre in cerca di decoro, di bellezza, d’un motivo di interesse purchessia. E per la verità si accontenta di poco, molto poco: una vecchia scritta gotica sul muro scrostato che mette in guardia da spie e nemici; un uccello zebrato che tira il fiato spiumacciandosi sulla sponda di ferro battuto; il bastardino che punta una farfalla avvitandosi a mezz’aria senza poterla arrivare; l’arco di granito istoriato pronto ad accogliere chissà quali trionfi; la vetrata policroma, da cui sbuca una bambina vestita di mussola chiara a palline turchesi, le trecce corvine raccolte in più ciocche sulle spalle, tra le mani un dispaccio che il capostazione riceve senza batter ciglio, cambiando semplicemente piede d’appoggio.

Ti conosci troppo bene per non sapere che fra poco dominerai la timidezza e un bruciante calore ti trascinerà verso di lui. Ti siederai al suo fianco e inventerai un pretesto qualunque per sentirlo parlare. Già lo vedi stringere le gambe e farti spazio, corrugare la fronte, ravviarsi i capelli sbattendo le palpebre, passarsi la lingua sulle labbra, discorrendo con voce flautata di meccanica celeste, estetica romantica, filosofia morale, o forse patristica, deglutendo nell’ansia di strafare, incapace di sostenere il tuo sguardo, ma fiero di suscitare l’interesse d’un uomo del tuo calibro.

Tu lo metterai a suo agio tenendo le mani sulle ginocchia, cercando di non fissarlo troppo a lungo, usando parole piane, affabili, che non gl’incutano soggezione e lo lascino completamente padrone di sé. Nessuno più di te sa che significa sentirsi abbacinato dalla superiorità altrui fino a perdere la ragione, voler esser vinti, asserviti, piuttosto che invadere il proscenio esponendosi in tutto l’orrore della propria inadeguatezza. È la tua storia. Devi solo aspettare l’occasione propizia: un’allegra comitiva di partenti, una sirena, lo sfrecciare di un convoglio, un rumore qualsiasi che copra quello dei tuoi passi sul selciato insieme all’ignobile condizione di spia in cui, forse per la prima volta in vita tua, ti sei cacciato senza volere.

Ma non succede niente. Anche l’aria sembra stagnare tra le foglie grevi e polverose dei platani. Il silenzio permane duro, screziato a tratti dal crocidare di una gazza che plana sulla pensilina per librarsi con un lombrico in becco, attirando lo sguardo insieme vigile e annoiato del capostazione. Decidi di muoverti ugualmente, sebbene i battiti aumentino e t’inrossino le guance come succede ogni volta che ti forzi ad agire, quando un ricciolo di neve sbuca dal taschino della sua giacca e guizza tra le pieghe del collo in cerca di calore. Guardi meglio: è un topo bianco, talmente grasso da ansimare per quello sforzo irrisorio più d’un passero caduto dal nido.

Immerso nella lettura il ragazzo non si scompone: solleva la spalla piegando il capo per accentuare l’amplesso e ricambiare il saluto, lo snicchia dal collo, gli bacia il muso e tenendolo per la coda lo lascia cadere nel taschino replicando al deluso squittìo con un buffo schiocco della bocca a cuore che ti strappa un sorriso.

Ecco finalmente il rumore che aspettavi. Ma è il tuo treno. E anche il suo, perché richiude il libro, pulisce accuratamente le lenti (sorridi ancora pensando a Spinoza: è un filosofo, lo sentivi), alza il bavero e si avvia a passo incerto, temendo di fendere l’aria con troppa irruenza. Non importa, avrai tutto il tempo per studiare il modo più naturale d’avvicinarlo durante il viaggio: tu hai sempre bisogno di tempo, ma poi le parole ti germogliano sulla lingua e sei il primo a sgomentarti della tua gaiezza. È sempre stato così.

Lo segui a distanza, mentre il convoglio frena e le porte si spalancano all’unisono. Ne scendono tre sei nove furie vestite di rosso: mani guantate, pelle crivellata di metallo, voci chiocce, sguaiate, che sembrano contenere l’intera galassia e dovertela vomitare in faccia. Sciàmano rapidi sulla banchina accennando una danza tribale in cui sei certo di ravvisare i caratteri di un crudo rito propiziatorio che non ti suscita la minima apprensione (da quanto non assapori un piacere così sottile?), ma scuote il capostazione dalla fissità che l’ha gelato sinora e lo spinge ad attraversare i binarî. Ha fiutato il pericolo. Si schiarisce la voce per fingersi calmo. Lancia alla piccola uno sguardo inquieto. Riabbottona la divisa. Accelera il passo.

Al ragazzo basta un’occhiata per capire. Unico segno di panico, il tremore della mano che scatta fulminea a proteggere il taschino: un gesto che nessuno, all’infuori di te, potrebbe decifrare, ed è questo privilegio, questa inattesa complicità a stringerti ancor più saldamente a lui. Ora senti di volerne condividere la sorte, qualunque cosa stia per accadere; ma al tempo stesso lo rifiuti, perché sfugge alla tua comprensione, e tu vuoi capire le cose, penetrarle a fondo, esserne parte, a ogni prezzo. Lasci andare lo sguardo alla spessa lastra di piombo che offusca la stazione col suo imminente sfacelo, ai mucchi d’erba che bruciano all’orizzonte alzando colonne di fumo, all’omino che vanga il triangolo d’orto scosceso sotto le case di pietre a secco arrampicate sulla costa rocciosa, all’olivo schiomato che svetta contro il disco scialbo del sole, e ti sorprendi come nulla riesca a turbare la tua calma, nemmeno il pugno di ferro che si abbatte sulla nuca del capostazione gettandolo a terra tramortito in una pozza di sangue, mentre la piccola preme il naso sulla vetrata e segue incredula il berretto rosso trascorrere di mano in mano per finire di sguincio in capo al ragazzo che lo accoglie con un sorriso morbido, conciliante, indicando il libro come a dire sono studente, non faccio male a nessuno, chiunque può confermarlo, chiedete pure.

Ormai è circondato. La paura gli fa tremare il gozzo, sussultare il petto, cadere il libro, ritrarre la mano dal taschino, e il topo ne schizza come zampillo di fonte, precipita in un tonfo, si finge stecchito movendo appena la coda; si rianima, rotola nella chiazza, cerca scampo tra le assi d’una grata. Ma cento dita lo braccano, cento suole incombono sul suo manto lordato di rosso e lo schiacciano, ne sfracellano le interiora, più e più volte, mentre esplode un inno nella chiesa vicina, di cui intravedi la croce di rame ritorto con la scritta luminosa Deus tremendae maiestatis, dae fulminato, fulminato iest.

Le furie si segnano ghignando e s’inginocchiano intorno alla salma unendosi al coro. Il filosofo trae a fatica un lungo respiro, drizza il dorso, spalanca gli occhi. Non perdi un tratto, non perdi un solo tratto della soavità con cui flette il collo sopraffatto dalla consapevolezza, schiude la bocca emettendo un filo di saliva e si dispone al sacrificio come a una fatalità così ineluttabile quanto necessaria.

Tu sai che potresti intercedere presso di loro, sai che potresti perorare la sua causa sfoderando la tua leggendaria facondia; o saltare sul treno, che proprio ora riparte obbedendo al fischio d’un impostore, per salvare almeno te stesso. Ma resti a guardare, sicuro che non un lembo di questo strazio, non un grano di questa sorda, provocante animalità possa insudiciarti, turbarti i pensieri, ingorgarti il respiro. Tutto è così prevedibile, consentaneo alla legge di natura; tutto è così placidamente, persuasivamente giusto. Anche lo strappo che lo sguaina dagl’indumenti dozzinali, fa saltare gli occhiali che un piede è lesto a pestare come una blatta, ne snuda il ripugnante pallore maculato d’efelidi e lo fa piegare d’istinto, la schiena livida, sferzata da scosse violente. Anche il fluttuare cadenzato del baccante che ulula avvinghiato alle sue reni roteando il bacino. Anche il silenzio stupito del ragazzo, i denti rotti, il collo tumefatto sotto la camicia stracciata, gli occhi miopi che si posano sui tuoi quasi ti conoscessero da sempre, senza la forza di chiederti aiuto. Perfino la bottiglia di birra che qualcuno vuota in un sorso e fa sparire dentro di lui. Sei tu, invece, a chiederti se questo limbo d’inerzia, questa sublime inermità e assenza d’emozioni potrà durare finché si chiuderanno su di te oscurando il sole, afferreranno il tuo corpo diaccio e stronco per i piedi, lo butteranno sui binarî come la carcassa di un cane, lo crocifiggeranno alle rotaie, gli sfonderanno il cranio a sassate intonando inni, e siederanno in attesa che un treno o qualche uccello di rapina finisca il lavoro, prima che scenda la notte, col suo manto di nebbia, a coprire ogni memoria.

Ti chiedi questo, ti chiedi questo e inorridisci quando un accesso di fresca insensibilità, un assalto d’indomabile tedio forza il tuo spirito a lasciare il corpo dello studente, la bambina contro i vetri, le furie che sfregano le palme insanguinate sulle giubbe narrandosi storie, la pelliccina del topo incollata a una suola, la cervice canina del capostazione su cui una gazza neonata intreccia prilli sgomenti, il libro sulla massicciata, sfogliato dalla brezza; e a fissare la lunga teoria di ragazze che tornano in paese dopo aver còlto viole lungo le prode, così simili alle formiche che rigano la barriera dipinta a gesso su cui, aspettando il tuo turno, hai poggiato una mano. Tendi i muscoli per tenerla ferma. La cingono, la blandiscono, la considerano un elemento del paesaggio, e questo ti piace. Una percorre lemme l’unghia dell’anulare come un beduino il deserto, sporgendosi ogni tanto a scrutare i vicini tetti d’ardesia dov’è forse la tana. La lasci fare abbozzando un sorriso che irrita il baccante dagli occhi cisposi, orlati di blu, mentre un’altra – la più operosa e piccina – spinge il basto, sosta in un barbaglio liquido e giallo, squadra guardinga le compagne, attende che sfilino, lo aggira, s’insinua sotto a fatica, prova a trainarlo. La storia, l’intero universo è racchiuso in quel penoso conato: l’orbita dei pianeti, l’inesausto peregrinare delle meteore e delle umane vicende.

Qualche millimetro e si accascia stremata. Ritenta. Stramazza in un ansare febbrile.

Ti basta un colpo di pollice per guarire il suo inutile travaglio, nient’altro che un colpo di pollice per elargire con la pacata ferocia d’un dio ordine e quiete, comprimendo l’interludio tra prenatale e postumo detto pomposamente vita. Devi averlo letto o scritto in un libro, poi bruciato, non ricordi quale, tanto tempo fa. Da dissettore di testi farsi scalco di corpi. Sopravviversi defalcare sottrarre. Rastremare le parole toccando il limite ultimo del senno e del linguaggio: la tautologia. L’implume è privo di piume, il massimo non è il minimo, se il cardellino è morto, allora è morto. Perché complicare le cose? Non sentire, non sentirsi. Sbaragliare scale rapporti gerarchie, far che tutto coabiti armoniosamente, in pacifica equipollenza: empietà e grazia, profondità dei cieli e zolla di terra, stilla e diluvio, cataclisma e sbuffo di vento. Disfatta del filosofo e agonia della formica. Che ora si sveglia dal torpore catalettico, stira le membra contratte raggricchiandosi tra i nodi del gesso, strascica gli arti spezzati verso la beduina che, còlto il richiamo d’aiuto, corre a disegnarle attorno decine d’anelli concentrici. La circuisce da ogni lato come una carezza, sussurra un commiato; forse la bacia, o richiama i tempi andati, quando mèssi di festuche scintillavano all’uscio della tana, e lei sdigiunava in uno spicchio di sole arrotandosi pigra le zampe.

Nulla che possa lenire il decadimento.

Sembra accesa di materno cordoglio, contagiata a morte dai suoi spasmi, invasa da cristiana pietà. Ma non appena quella si rovescia sul dorso e ghiaccia nell’estremo sussulto, ecco, afferra il basto, si tuffa in una crepa e sfreccia incontro al suo prospero inverno.

Guardi i segni del massacro, e anche la colpa, anche lo stupore scompare quando t’accorgi che tutto è come dovrebbe essere, come tu, nelle pieghe dell’anima, hai sempre vagheggiato che sia: l’impassibilità, il distacco, la calma del nibbio che abbranca la preda a cuore fermo e a cuore fermo macchinalmente la sbrana, con innocenza, tenerezza, ponendo fine al suo orgasmo inessenziale: mai premuto da collera, né sfiorato da odio, da rancore.

La redenzione è nel governo del battito, nel dominio del respiro.

D’altronde l’hai sempre saputo: non sei forse tu il bambino dall’aria sudicia e padrona che se ne va sicuro fra le macerie del suburbio infocato, fionda in vita e faretra di gomma a tracolla, manco tutto il mondo fosse suo? Spòstati, guarda: serra l’ultimo bottino fra le dita: un chiodo da cantiere ossidato e corroso. Passa accanto a un edificio appollaiato su un terrapieno. La scuola. Divampa d’astio. Scaglia sassi contro i vetri e scappa urlando, mentre il fischio del treno secca la gola a grilli e cicale.Aguzza gli occhi di lince, si tende all’ascolto, balza nel cavo d’un baule sventrato, slitta giù per il dirupo tra fèci di ratto, detriti, resti d’amori rubati. Plana sui binarî e fissa la bocca del tunnel che sta per rigurgitare il convoglio. L’immobilità. Il bagliore della sfida. La nervatura più tesa d’un martello di pianoforte sotto la camicia attillata. Depone il chiodo su una rotaia e si proietta nella cuna un attimo prima che i vagoni sferraglino in un fracasso che gli sbriciola le ossa.

Silenzio. Il chiodo è schizzato alle sue spalle. Fruga nel borro. Lo raccoglie come una reliquia. Terso, tagliente, che spada. Stille dal pollice: spreme succhia assapora, spara sullo sbrego un getto di piscia spumosa che frigge e sùbito svanisce, altri sul micio che lo sfiora. Rutta guardandolo scappare, agguanta il sacchetto, strizza, soppesa, striscia un dito sulla nascente peluria, l’altra volta non c’era, ne pinza un ciuffo, mezz’unghia, per Natale ne faremo parrucche. Lo pettina. Rinfodera. Cresci cresci, passano i pesci.

Fruscii fra le ortiche. Lancia la lama. Il frùstolo di carne verde appiccato alla guglia si torce sotto il suo sguardo perfido, paziente. Afferra la lucertola, stacca la testa con un morso, la sputa, si netta la bocca sul polso, aggancia il trofeo guizzante alla correggia, saltella, s’avventa nel folto del folto canneto. Uh. Tre sciabolate e i giunchi si tramutano in arco, saette. Tira la corda, carica la faretra, guada a gran passi lo scolo di liquami pullulante di rane, s’adagia su un masso, saluta con un cenno scontroso il sordomuto dalle orecchie discoste, l’irta barba a collare, che agita le mani dal sommo d’un rudere e lo invita a guardarlo saltare compitando orazioni insonore fra i labbroni polputi su cui divalla un lungo naso a rampino.

Ecco, apre le braccia, scioglie il collo taurino, staglia nel niente il profilo di corvo. Spicca il volo.Atterra con un balzo ovattato, gli rivolge uno sguardo stupido e vuoto, ne riscuote il plauso battendosi il petto da gorilla, smuove il terriccio a graffî maestri per attutire la prossima caduta, s’arrampica su una cisterna alta da non dire: fosco mastodontico rospo.

L’arciere lo sbircia con iridi di volpe, temperando le frecce. Si ferma, storce la bocca, schiuma di rabbia, sferra potenti calcagnate su una scheggia di latta per reclamare i proprî diritti di spettatore esigente, intransigente. Così fa suo padre se una cosa non va per il giusto verso.

Il saltatore guadagna la vetta, si erge sull’orlo, alza gli occhi al cielo, si accinge a replicare l’impresa. Ma il legno guasto cede e il gran corpo precipita carpiandosi in goffe volute. Le ginocchia si rompono come stecchi. La tempia cozza su un ciottolo pieno di chiocciole, non è vero che portano buono.

Ridi, scivoli giù dalla roccia, raggiungi l’ammasso di muscoli, t’accosti con la flemma d’un rapace.

Le vene pulsano, ma il resto è chiuso in un sonno di sfinge. Bene. Ti guardi alle spalle col sospetto della bestia braccata: non c’è anima viva nella stesa brulla cinta dagli archi bruni del lontano acquedotto.

Giri più volte attorno al fallito snocciolando anatemi fra i dentini seghettati, lasci che l’ira monti libera nei pugni, salti piè pari sul torace, lo scopri, schiacci i capezzoli induriti dal vento, premi le punte sullo sterno strascicandole fino alla gola, esulti alla vista della cute che si strappa sudando perline scarlatte, ti sdrai su lui a crocefisso, tracanni l’odore del grano, lo prendi per i piedi, lo tiri all’ombra d’un castagno. T’abbassi furtivo, afferri l’anulare, lecchi mulinando la lingua, sfili la vera con un sospiro, esplori le tasche in cerca di monete, ma le mani urtano qualcosa di morbido, caldo. Slacci tremando la patta. T’incanti davanti al lacerto di pelle grinzosa sormontato da una cupola umidiccia incrostata di sudicio che manda folate di plastica arsa: un lembo di gallina lessa scannellato come una colonna.

Sarà con quello che papà.

Stai per toccarlo, ma un urlo ti scuote. Ti volti. Nessuno. Altre grida. Sconce, soffocate. Strisci nel granturcheto fino alle zampe del rospo. Ti sporgi a scuriosare sul ciglio della gola, lama fra i denti.

Un avventizio atticciato e rubizzo, brache ammucchiate su scarpe rotte, è incastrato in grembo a una meticcia che frigna attanagliandolo con le cosce nocchiute, passate a fil di rasoio. I nervi di lucido ebano sembrano scoppiare. Lo implora d’ingiuriarla, strizzarla, farne poltiglia. Lui affretta lo stantuffìo, morsica il volto contratto ruminando malconvinti improperî, incunea il medio nell’altra nicchia, tentandola, forzandola, slargandola, quasi a stasare un ingorgo. Lo cava zuppo di fitti grumi tabacco, annusa, lo mostra a lei che si scrolla e gli rende la pariglia con l’indice unghiuto, mischiando i proprî ai suoi fondi muggiti.

Sarà così che di notte.

Scegli il dardo più aguzzo. Incendi la punta. Tendi l’arco sull’idra a due teste. Scocchi. Il fieno s’infiamma. Faldine di fuoco rincorrono i fuggitivi azzannandone le vesti. Ti ritrai soffocando sbadigli e posi gli occhi sazî sul fiacco andirivieni d’un bove all’aratro. Hai già cancellato il pensiero che t’ha mosso. Torni a murarti nella tua gelida fisionomia.

Il silenzio della paura conduce all’eccesso. Quello dello spirito all’oblio.

Adesso vedi meglio. Non l’avresti supposto prima che questa verità ti splendesse alla mente così chiara. Scavalcare l’abisso, aver l’audacia di restituirsi alla natura scoprendo il volto, quello vero, sino ai minimi solchi; accettarlo come una particola e conformarvi ogni rintocco, palpito, senza più indulgenze, infingimenti, false vie.

Non sei stato tu a creare miseria e dolore: sarai tu a distruggerli, col gesto che tutto smemora e monda. Noi siamo la remissione del male. Noi siamo la coscienza del trapasso. Noi siamo l’idea fatta viscere. Prenderemo d’assalto le città, getteremo i miraggi nei fossati, e poi ce ne andremo.

Il tempo frena, implode, ingoia sé e mille altri tempi, tumulati in un gorgo a spirale. Vorresti addormentarti negli interstizî del suo informe fluire e svegliarti al termine di tutto su una costa di granito liscia e tetra nella buccia della notte.

Disfarsi dell’umano che è in te: questo il tuo sogno di sempre. Dovrai coronarlo. Dovremo.

Tempo. Non sai più quanto ne sia trascorso da quando glispruzzi della fontana ti ferivano come trafitture di spillo, e gli occhi del ragazzo danzavano gai fra le righe. Un secolo, o forse un minuto. A che serve saperlo? Non resta che quest’attesa, torpida e soffice più d’un barlume.

Tempo. Tempo. Ripeti le sillabe finché la parola si svuota, si fa timbro, colore, nudo involucro. Tu che gli assegnavi tanto valore, tu che ti adagiavi calmo nella sua mobile onda ti persuadi che passato e futuro sono code speculari dell’attimo, e ogni cosa è ora, qui, presente e viva. Devi solo ruotare la mente, ruotare un poco la mente e tentare di sorprenderla nel suo stordito frusciare.

Segui il corso dei pensieri senza farti inquietare dalle furie che si accalcano a negoziare la tua sorte intorno alla panchina. Un dente d’oro lampeggia in un buio pertugio. Ora ricordi. Il tuo amico della cancellata: fosti tu, quella sera nel capanno in riva al mare, a iniettargli il veleno della letteratura. Due vite edificate su un patto tra fanciulli, sancito da un tuffo in un’acqua di pece. Enfasi e passione. Giurami che non la tradirai, anche se sarai solo dinnanzi alla scrittura, come nell’utero e nella bara. Ogni scelta un rischio, ogni svolta un bivio; mai al riparo dal dubbio, mai immune dal tormento di dover aggiungere senso a senso. Inseguirai la forma con l’ansia dell’assetato e quando crederai d’averla raggiunta cascate limpide e fresche ti ristoreranno, fino al prossimo dilemma. Guàrdati dal crudo senso, nulla è più misero e spoglio: l’essenza del contenuto s’annida nei prismi della sua voce; ma rinuncia al più nobile e squillante degli attributi se temi possa offuscare la sostanza del nome. Làsciati guidare dalla necessità: l’arte è continua trazione. Scansa l’infingardaggine: non c’è limite ai prodigi del cesello: draga la lingua fino a risuscitarne malie nervature iridescenze asfissiate da secoli di pratiche nefaste. Evita l’eccesso, resisti alla tentazione di dir molto con poco: il meno è assai più fecondo della copia; perché celebrare la nascita del cosmo o il martirio del Figlio quando basta il sospiro di un batterio a tessere la pagina e a spalmarla di platino? Non sentirti titano, ma lancia che fora, motore che mena, legislatore, demiurgo. Intercetta la vita mentre è ancora battente. Scrivi ogni parola come fosse l’ultima. Persisti e consisti nella ricerca. Lo giuro.

Il braccio del capostazione ha un guizzo che nessuno nota. Si lamenta, sgrana le pupille velate dal letargo, incrocia quelle della figlia dietro la vetrata, si assicura che sfugga alla vista, le rinserra con uno scatto automatico intrecciando le dita.

Il filosofo non si muove. Un moscerino gli rode un ciglio, e lui non si muove.

Lassù i cumuli d’erba hanno smesso di ardere. L’omino lascia la vanga e appoggia al melo una scaletta di tralci legati. S’inerpica con l’agilità di un gatto selvatico. Scompare tra le foglie. Riemerge carico di frutti e li lancia nel grembiale che sua figlia slarga sotto il tramonto insipido. Nonna invece batteva la rama con una verga di frassino finché subissi di smeraldi crollavano sui vostri capini sbigottiti; e tutti al fiume, in corteo, a sciacquare i pomi lucenti, mentre i grandi braccavano le trote a mani nude nelle fosse dell’argine giocando sott’acqua coi sessi tesi, senza malizia. Gìrati, prendila, senti com’è viva, non farmi male, un’altra, abbàssati, che diranno?

L’esserino grasso e isterico dal naso forte e la catena di ferro al collo dilata le orbite sulla tua persona e bramisce con le fauci spalancate: sacramenta, dimena i fianchi tozzi e squadrati scalmanandosi in gesti osceni; ti minaccia per fabbricarsi un pretesto, fomentare la rabbia; ma non intendi le parole, né te ne curi. Tutto quel vigore, grandio, tutta quell’energia dissipata. Chissà se vede mai il proprio corpo livido steso su un tavolo di marmo, seghe poggiarsi al cranio, al ventre, fenderli con lunghi ronzii d’ape in tripudî di pus muchi liquori; mani staccare lembi violacei, affondarvi, racimolare gl’intestini, squadernarli su una lastra da beccaio unta e gelida, in pasto ad altre lame. No, è lontano dal credersi mortale, così inguaribilmente lontano che ti stupefà e commuove: vorresti correre a baciargli il sarcoma simile a un seno di bimba che gli sfregia la gota tigrata di marchi, evocarne il passato, rincuorarti al fuoco delle sue certezze. Ridi, pieghi il collo, alzi una spalla come fanno i cani quando scrutano gl’intenti del padrone pensando al modo migliore di disporsi all’obbedienza. Lui smette di ringhiare, sparte la chioma sulla fronte e pesta il berretto rosso con uno sdegno eccessivo, quasi mimato. Il cucciolo di leopardo che gioca con la lepre sgozzata da sua madre, per temprarsi alla caccia.

L’amazzone dall’occhio bendato serra una fragola tra i denti bianchissimi. Ha qualcosa di cupido e bestiale mentre scrolla dalla suola quel che resta del topo e fa scivolare uno sguardo imperioso sul solino del tuo cappotto, sulle tue scarpe infangate, sul dorso della tua mano sparso di formiche impazzite, disorientate dal cadavere della beduina. La sua mascella oblunga e nervigna non conosce imbarazzi. Per lei non sei niente: ti vuole come si vuole un labbro, un alimento, un rivo di monte che frizza nell’afa estiva. Fra poco la sentirai avvicinarsi, fra poco ti ghermirà con le sue unghie sporche, si sfamerà di te fino a stomacarsi, e ti lascerà sul selciato, accanto al ragazzo, in quest’aria irreale, striata di stormi e d’ululati. Aspiri il tanfo acido della sua cute rovente, macerata sotto le spesse borchie smangiate dalla ruggine; percepisci le rovine della sua mente sconnessa, gonfia di superbia, incapace di unità, meravigliosamente inetta a trascendersi, e per ciò stesso invulnerabile all’onta dell’assurdo che ti logora da quando mandasti il primo vagito.

Ha una macchia scarlatta sul polso: un’equazione a derivata parziale. Deve averla scritta stamane poco prima di scuola nello stambugio negletto e odoroso di febbre che la sorella ha foderato di fantocci e disegni di case sovrastate da soli sporaginosi: lei al centro, più alta delle case, fiori tra i capelli. La solleva, la fa girare suscitandone risa e spavento, la stringe, si fa dire cose, piano, sentono, e allora? le srotola le maniche del pigiama, non dirmi, la fa girare ancora, si taglia la palpebra col fermaglio a forma di piovra mentre suo padre squarta ascetico un pollastro e sua madre – un metro da sarta per collana – armeggia tra cipolle e vangeli, poi la esorta a far presto, deponendo un corbello di fragole nello zaino tempestato di simboli infami. Lei l’afferra, lo infila in un lampo, si fascia l’occhio con una benda da pirata ed esce senza una parola, sbattendo la porta. Il cucciolo di leopardo è là fuori, a cavalcioni sul corrimano sciupato. I suoi metalli squillano in segno di saluto.

Sì, ogni cosa è qui, presente, viva, intorno a te. D’ora in poi non sarai solo.

Il gusto opaco, molle, acerbo della solitudine. Nei pomeriggi di festa ti raschiava il petto, ti torceva come un cappio mentre schivavi gli urli e la cinghia di tuo padre, salivi la scala di sbarre murate col sangue in tumulto e spingevi la botola per issarti in quello scoppio di luce, in quel delirio d’altezza che ti faceva glorioso, immortale. Vedere non visto. Lo sguardo e il suo brivido sinistro, cocente. L’unico punto stabile della tua memoria. Steso sulla balaustrata contavi per ore le cupole delle cattedrali, i coppi delle case, i filari d’abeti pregni di storni ansiosi di sciamare, le auto che si sfioravano e si sfioravano senza mai toccarsi, spuntando dalle gallerie, costeggiando i navigli, affaticandosi sui poggi, sorpassandosi, scartandosi. Ore a leggere i numeri delle targhe e le forme dei cirri, a conversare coi passanti dispersi dalla pioggia, sballottati dal vento, indovinandone nomi, dolori, desiderî. Parlavi di lei, solo di lei, sicuro non fosse al mondo materia più alta, sublime. Non dei capelli lunghi sino ai fianchi, lisci più che seta; non degli occhi grandi in cui navigavi pregando che ogni cosa si trasformasse in lei; non della fronte beffarda, del passo temerario, sempre a un palmo dal suolo, né dell’odore, aspro, come le cose nuove: ma della volta, l’unica, che l’affrontasti saltando dal folto d’un olmo e piantandoti davanti a lei come un corsaro rabbioso.

O sì o no, soffiasti tra le labbra serrate.

Volevi dirle Fresca rosa novella, Sì preso è il meo core Di voi, incarnato amore, Che mòre di pietate E consumar lo fate, In gran foco, d’ardore. Volevi dirle questo e molto ancora, ripetendo i versi che tuo fratello ti recitava per farti dormire, dopo averti baciato le guance, sperando di vederti crescere e prosperare nella bellezza. Veggio negli occhi de la donna mia Un lume pien di spiriti d’amore Che porta uno piacer novo nel core Sì che vi desta d’allegrezza vita. Ma fu come se la lingua si staccasse dalla bocca, la bocca dal corpo, e avvampasti di vergogna al sentirti scandire quegli insulsi fonemi, più miserabili della casacca fuori stagione che ti fasciava fino a strozzarti, più lisi dei sandali di cartone rubati a tuo padre sotto lo sguardo complice di mamma, a repentaglio di verga, non farti vedere, se ti vede corri qui, più veloce del vento, so io cosa fare.

Spesso m’avvien ch’i’ non posso far motto, Sì mi strugge locor doglia e pietanza.

O sì o no. Nient’altro.

Se un fulmine t’avesse incenerito, se l’olmo fosse esploso squarciando la terra sotto i tuoi piedi, se i tetti delle case e delle chiese si fossero scoperchiati e per sempre richiusi sulla tua voce di tacchino scannato.

Si fece cupa in viso e tu sbiancasti. Ma ti prese la mano, la posò sulle susine appena nate e guidò la propria dove tu stesso non osavi inoltrarti. Si strinse. S’aprì. Si strinse ancora. Credesti di morire mille volte. Poi si staccò, varcò l’androne in un volo di falena e corse in braccio a lui: pettoruto, furente, ritto nei mocassini di vernice che abbagliavano ogni notte l’incubo della tua miseria.

Le voci cessano e sale un ciangottio di rane: intesa raggiunta.

Alzano allor da l’alta cima i gridi

In sino al ciel l’assedïate genti,

Con quel romor con che da i tracii nidi

Vanno a stormi le gru ne’ giorni algenti;

Il crocchio si schiude in nove spicchi come un melograno spaccato. Ammiccano, quasi fossero nati dallo stesso utero. Si accordano. Fanno ghirlanda intorno alla preda.

Segui con calma ogni loro movimento, quasi non ti riguardasse. Hai dimenticato d’essere l’oggetto delle loro attenzioni.

Sarebbe un peccato non riprendere gli studî sulla Liberata: il cassetto pullula di schede, la testa è piena di idee, e hai già pensato all’incipit: un periodo interminabile, non meno di trenta righe sobriamente interpunte, più sinuose di un dedalo, ma tese come un arco, da stregare il lettore, avvilupparlo nella perfezione delle volute sintattiche. L’esordio è tutto nella scrittura: decide il tono dell’insieme, ne fissa l’indole, la spina dorsale; superato il primo scoglio è il già fatto a mostrare la via: ogni cosa va dove deve andare, non resta che cavalcare i flutti. Un periodo infinito. Parcamente interpunto. In Solimano che si uccide per mano di Rinaldo lo sfacelo d’una retorica, l’epilogo di un mondo, l’implosione della lingua come voluttà di perdita.

È l’ora.

Il riverbero dell’arroganza. L’inarginabile potere della sopraffazione.

E tra le nubi a più tepidi lidi

Fuggon stridendo inanzi a i freddi venti:

Ch’or la giunta speranza in lor fa pronte

La mano al saettar, la lingua a l’onte.

Presto, il confine è a un passo. Se ti sporgi puoi vederlo solcare la piana. Un dosso, un’erta scoscesa, e nessuno potrà prenderti. Là tutto finisce e comincia.

Sfili l’orologio, il cappotto, la giacca, tendi il braccio pieno di formiche verso la bimba che solo ora stacca dal vetro il naso fatto terreo dalla lunga pressione e si flette sulle gambe tracciando falci di luna sulla lastra annebbiata dal suo fiato affannoso; poi le cancella con un no impetuoso della fronte, persuasa d’annullare ogni abominio. Le manderesti un saluto, le manderesti volentieri un saluto se il plotone non serrasse le fila in assetto di guerra celandola d’un tratto alla vista.

Le scarpe. Le calze. Il gilè.

Sono frastornati, delusi. Ogni tuo gesto accresce il loro turbamento. Non sanno che hai appena deciso di eleggerli a fari.

L’omino e sua figlia staranno seduti su un tronco a mangiare smeraldi. Li annusano vogliosi, più per ritardare il momento che per vanto dell’opera; poi li stropicciano sulle maglie di lana greggia tirando su col naso e li addentano pudichi, concordando senza parole il lavoro di domani. Lui smette di masticare, esplora il cielo tergendosi la fronte da pensatore, numera i nembi, vaglia la densità dell’aria sfregando le dita e simula il presagio di pioggia con un gesto largo, indolente. Lei apre su di lui uno sguardo di bestiolina devota, ragiona un momento tra sé annuendo a stratte, poi cava pane e datteri da un involto di carta grossa, un tempo candida. Cosa non daresti per essere quel gatto pingue, estenuato dall’ozio, acciambellato come un aspide fra le sue gambe, sullo scialle scurito dalla fatica e dalla velma?

La cinghia. I pantaloni. La camicia.

Lo sgrondìo del canale ritma i secondi in una con lo scrìcchio delle suole scucite che avanzano sincrone verso te, boccheggianti pesciolini allo stremo.

Ecco sonar un corno e i can baiare

con gran gridare e rimenar de zuffi

con macaruffi e sbuffi de cavagli.

Non ricordavi più il suo sapore di rame vecchio, agro e tiepido,l eggermente mielato, di quando ti graffiavi correndo sui rovi, e lo succhiavi senza sputarlo perché era peccato, e ti segnavi tre volte per paura che con lui se n’uscisse la vita. Sgorga dal mento, doppia un capezzolo, esita sull’ansa della rotula, ti scola fra i piedi formando un laghetto simile a una rosellina sfrangiata su cui bruca un insetto interdetto e discreto. Ti chini col dito teso per prenderne una goccia ma un’ombra ti preme il fianco, forte, sotto il costato: ti sfonderà l’addome, ti creperà bronchi e polmoni, ti sfracellerà come un cristo, senza che nessuno possa fermarla.

Ma non fa male, non avverti dolore: solo un senso d’ebbra inappartenenza, un desiderio di delega, di totale sottomissione, una rotta dei sentimenti e dei pensieri che scava un vuoto in cui ti disfi dimentico, strozzato da una felicità tumultuosa, da un’onda di piacere più rapinosa di una piena, come quando nuoti: le gambe si staccano da te, il tronco è un ingombro da trainare, e l’acqua una muraglia da rompere, rompere, rompere, finché tutto diventa acqua sciolta nell’acqua.

Potrebbero strapparti i denti, spolparti le mandibole, potrebbero beccarti gli occhi: non sentiresti niente. È tuo, è forse tuo il mignolo che una bocca odorosa di fragola azzanna fin quasi a mozzarlo prima che tocchi terra, mentre il sole stilla gli ultimi chiarori e un volto aquilino sbalzato nella selce s’accosta col rantolo del bracco alla cerca per leccarti il mento e apparecchiarti alla fine?

Ogni cosa è ora.

Se il cardellino è morto.

Perché non smettono di guardare le mie ossa in completo abbandono, più livide e sconce d’un’ulcera suppurata? Perché non vengono a sedersi, qui, vicino a me, senza chiedere niente, come fanno i ragazzi sulle gradinate delle chiese al principio di maggio?

Il leopardo mi tiene a terra calcandomi il gozzo col tallone, cerca di legarmi i polsi dietro la schiena con lacci troppo fragili per non spezzarsi. Bestemmia sua madre, mi maledice, ruglia frustandomi il sesso col flagello di vacca, la stessa che lo nutre ogni mattina.

Io sono il cibo del suo spirito. Pane e datteri della sua mensa. Io sono la gloria dei suoi sensi bui, irriflessi, mediocri.

Mi danzano in gola in petto in pancia, mi turano bocca e narici, pigiano ferri arrugginiti sul mio teschio, non si stancano di colpire questo carcame inoffensivo, attorcigliato ai loro piedi come un aspide stremato dalla devozione, imbrattato di melma e fatica.

Ruotare.

Stordito frusciare.

Anche la carne ha la sua memoria, papà.

Cos’è la nuvola bianca che caccia passeri e furie in un rombo d’ali e tacchi, il coro stonato che scuote il capo della piccola e i nervi di suo padre, mentre il canto di chiesa tace d’un tratto insieme alle gazze?

L’amazzone arranca, disserra le labbra, vacilla fra i biancovestiti, scruta il redivivo che chiude le dita sul berretto lacero, perde il branco, la benda, crolla su me con la palpebra ferita, aderisce a ogni centimetro del mio corpo, fresco di rinnovato vigore, stordito da un’esaltazione sconosciuta. Odora di regole e d’inchiostro, di fragola e vecchia lavanda. I nostri sangui si mescono, quasi fosse amore. Apro le braccia, le richiudo sulla sua schiena madida, rovisto sotto le borchie per piantarle le unghie fra l’aquila e il dragoverde, inarco il bacino, sento il suo pube slabbrarsi come un narciso, tendo gli alluci contro i suoi, la isso, le nostre bocche si premono, mordo una lingua spessa e dura. Ingoio il suo fiato.

Vibra. Ansima. La stringo.

Non un pensiero mi sfiora la mente, è vuota, ma la sua brulica di ricordi gioiosi da cui non vuole staccarsi: sfilano nitidi uno dopo l’altro nei suoi occhi e nei miei, posso entrarvi, udire suoni, voci, respiri. Tira su il pigiama, fa freddo. Resta con me finché non m’addormento, nel letto c’è spazio. Spòstati. E poi che succede? È un segreto. Non lo dico a nessuno. Scegli il disegno e lui punge. Brucia? No, basta girare la testa. Da grande mi farò un drago giallo, da grande voglio essere come te. Sarai più bella.

Si torce. Sento che ha paura e stringo forte, per fugarla.

Un guizzo. Più niente. Si fa me.

Il mozzo dagli occhi pervinca raccoglie le lenti rotte del filosofo e te le porge guardandoti stralunato, il basco a sghimbescio sulla fronte imperlata dall’inattesa vampa del crepuscolo.

Gli tendi mani e formiche.

Questo sarà un inverno mite.


[Da Gualberto Alvino, Là comincia il Messico, Firenze, Polistampa, 2008, cap. VI, andante tranquillo]



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