C’è un quadro al centro dell’ultimo romanzo di Abraham Yehoshua: è Caritas romana, di Matthias Meyvogel, che ritrae la giovane Pero mentre allatta, in un gesto di estrema pietà, il padre Cimone, condannato a morire di fame. Un tema che ha un precedente letterario nel memorabile finale di Furore di John Steinbeck. Il quadro, o meglio una riproduzione di esso, si trova in una camera d’albergo di Santiago de Compostela, dove l’anziano regista israeliano Yair Moses viene invitato per presenziare a una retrospettiva sui suoi primi film. È l’opera di Meyvogel a far riaffiorare il ricordo di una scena che l’amico sceneggiatore Trigano aveva proposto a Moses come finale di un loro film. Ma il rifiuto dell’attrice protagonista, Ruth, di girare la scena aveva messo fine al sodalizio artistico e al rapporto d’amicizia che legava il regista e lo sceneggiatore. Moses ben presto scopre che dietro all’organizzazione della manifestazione c’è proprio il vecchio amico la cui intenzione era mettere Moses in condizione di fare i conti col proprio passato. Opera sui misteri della creazione, La scena perduta – questo il discutibile titolo scelto da Einaudi per l’edizione italiana, a dispetto dell’originale e più efficace Carità spagnola – è un romanzo in cui Yehoshua, contrariamente alle sue abitudini, mette in scene tutto se stesso, o almeno una gran parte. È infatti facile scorgere nella figura del regista Moses forti somiglianze con lo scrittore israeliano. “È vero, dunque, che in Moses c’è qualcosa di me e di ciò che agisce in me quando creo. È anche vero che due o tre dei film evocati nel romanzo e presentati nella retrospettiva sono echi di miei libri”, ha dichiarato lo stesso Yehoshua in un’intervista rilasciata lo scorso giugno a Elena Loewenthal e pubblicata su La Stampa. Siamo di fronte a un libro complesso, e in parte anomalo nella vasta produzione di Yehoshua. Qualcosa che assomiglia a un bilancio di vita e letteratura. Eppure, a leggere La scena perduta, c’è la percezione di un avvitamento, manca quella caratteristica aria intorno ai personaggi che è tipica dei romanzi migliori di Yehoshua. Quella che è una delle sue virtù maggiori di scrittore, ossia la profondità d’analisi della psiche, la capacità di insinuarsi tra le pieghe dei caratteri dei personaggi, di renderceli così straordinariamente familiari anche attraverso la descrizione dei momenti minori delle loro vite, va un po’ in secondo piano. La volontà, conclamata, era quella di scrivere un’opera dal valore fortemente simbolico. Può piacere o meno. Siamo in ogni caso nel campo della grande letteratura.
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