Articolo di Emerico Giachery
(autore di Voci del tempo ritrovato, che ha da poco ricevuto il Premio “Val di
Comino”, 35a edizione)
Quanto monotona sarebbe la faccia della terra senza la montagna…
Immanuel Kant
L’autentica, la profonda scoperta della Montagna per me avvenne tardi. Per trascuratezza o pigrizia, o perché assorbito da altri impegni e interessi, non diedi ascolto alle reiterate esortazioni («Ma quando ti decidi a venire in montagna?») dell’amico Federico Tosti. Guida alpina e poeta romanesco della Montagna, da lui misticamente venerata e sempre scritta e pensata con l’iniziale maiuscola, Federico (da me rievocato nel recente volume Abitare poeticamente la Terra), ormai ultracentenario, e sempre riconoscente verso il dono della vita, alcuni anni or sono si avviò all’ultima ascesa verso sperabili altezze non terrestri.
Le arrampicate da ragazzino coi genitori da Rocca di Papa al Monte Cavo in occasioni domenicali non posso considerarli significativi precedenti o presagi di amor di montagna.
Di un soggiorno infantile in Carnia non ricordo molto di più che interminabili passeggiate a piedi con la famiglia a Pontebba, a Malborghetto. Ore trascorse a giocare a rubamazzo, a scopa o a Shanghai (un gioco cinese o giapponese di moda in quegli anni che richiedeva mano abile e leggera). Poco rassicuranti guizzi di vipere tra rocce. Soprattutto ricordo l’involontaria seduzione da me esercitata su una mucca, che sfilava con altre colleghe davanti la porta di una disadorna locanda dove sostavo a guardare, e che mi seguì nel corridoio e nel refettorio, costringendomi a saltare dalla finestra. In cucina non potevo rifugiarmi, perché la mia cuginetta Herta, spaventata non meno di me, vi si era sprangata a chiave, immaginando una mucca capace di aprire la maniglia di una porta. Fu forse la mia prima conquista. La prima di pochissime, purtroppo, e per di più tutt’altro che desiderata.
In Svizzera, si sa, le mucche non scarseggiano. Non sacre come in India; onorate però talvolta con nastri multicolori e con enormi campani, di cui sembra che le interessate vadano orgogliose. Per non turbare le loro abitudini orarie fu persino ritardata dalle autorità elvetiche l’istituzione dell’ora legale, già adottata dal resto d’Europa. A informazione di molto improbabili etologi a ciò interessati, posso riferire che le mucche della Gruyère rispondevano spesso ai miei maldestri muggiti, instaurando con me brevi dialoghi, mentre quelle del Simmental mi ricambiavano con silenzio d’indifferenza. A mucche francofone riuscivano forse più familiari le inflessioni, più romanze che alemanniche, del mio approssimativo accento bovino.
Basta mucche, ora. Non basta, invece, con la Svizzera, popolata per fortuna anche di allettanti incarnazioni, indigene e forestiere, dell’Eterno Femminino. Non più di specie bovina, stavolta. Ventenne assetato d’amore e perennemente innamorato, ma ahimè impacciato da innata o acquisita timidezza, mi vedevo circondato da jeunes filles en fleur, luce del mondo, in piena sintonia con lo spazio libero e librato di quell’eden montano, propizio a colloqui e baci in ameni e complici séparés boscherecci. In pagine molto, molto lontane, ne fissai e orchestrai un momento magico.
Ma qui intendo parlare dell’incontro con la Montagna come intensa esperienza di vita anche interiore, come scoperta anche di una parte di noi stessi, lievitante nei sottofondi archetipi dell’essere umano. A riflettere sul fatto che “bellezza” e “sublime” non sono nelle pietre e nelle acque, ma in noi, nel nostro modo di “sentire” il mondo, ci aiuta Kant in pagine memorande. La natura non è il sublime in sé e non fa che «trarre alla luce una sublimità che ha sede nell’animo nostro» ed elevare «la forza dell’animo sopra la sua misura ordinaria», spingendola «a ritenere meschine le cose che ci preoccupano». Inviterei anche considerare il sentimento di consonanza che nasce e si sviluppa con la natura circostante come un acquisto liberante dai residui tolemaici e antropocentrici ai quali siamo ancora troppo legati, per sentirci figli e fratelli del cosmo.
In Svizzera deflagrò per me l’Epifania della Montagna in tutto il suo irresistibile fascino. Fu soprattutto, tra canori saliscendi di Jodel, nel cuore della gloria alpestre del Berneroberland, incentrato nel mito della Jungfrau: la candida Vergine. Tra i tanti (troppi) sogni e progetti naufragati della mia vita tutto sommato così poco (davvero troppo poco) realizzata, spicca l’ascensione alla vetta della Jungfrau (metri 3571) in uno sperato giorno di propizia visibilità. Naturalmente con un’esperta guida alpina al mio fianco, e partendo da Jungfraujoch. La buona forma fisica di allora, la pratica di lunghe marce e l’entusiasmo avrebbero forse reso possibile la realizzazione di questo sogno un po’spèricolato.
Jungfraujoch, già ben oltre i 3000, l’avevo raggiunta, non certo a piedi, ma per una via che avrebbe suscitato l’indignazione dell’indimenticabile padre di Natalia Ginzburg, così vivo e sbraitante nel suo capolavoro Lessico famigliare. Ossia con una comoda ferrovia a cremagliera, la ferrovia più alta d’Europa. Eravamo una piccola comitiva, e appena arrivati alla stazione terminale ci precipitammo fuori per andare a contemplare l’immenso ghiacciaio ai nostri piedi, le splendide vette dell’Eiger e del Mönch, superbe sorelle della Jungfrau. Tutti uscimmo, eccetto – amena varietà dei gusti umani! – una coppia di mezza età che all’arrivo si sedette a un tavolo, estrasse dal borsello un mazzo di carte, e si mise a giocare a briscola per tutto il tempo della sosta, senza neppure mettere il naso fuori della stazione d’arrivo.
Nel nulla (abominevole nulla!) naufragarono anche progetti minori o minimi, in vista dei quali collezionavo “tavolette” topografiche, scala 1:25.000, dell’Istituto Geografico Militare, acquistabili, allora, in una libreria romana di Via Nazionale. Pregustavo la gioia di raggiungere il Mugello, in particolare il Castagno di Andrea – borgo natio del grande affreschista del Cenacolo fiorentino di Sant’Apollonia – partendo dalla Consuma, sulla Via Casentinese. Oppure di raggiungere Spello da Assisi per sentieri montani irradiati, come tutto su quelle pendici, di santità francescana.
Anche le piccole spedizioni di promeneur solitaire che riuscivo a realizzare, in Svizzera o in Toscana, erano attive avventure di gioia: toccasana, sia pure per tempi limitati, contro l’indomabile tetraggine dello spleen. Ineffabile letizia, quell’ascensione da Vallombrosa, di colle in colle, alla Croce di Pratomagno in una lontanissima Pasqua tutta vento e rondini; o quella memoranda traversata dell’Appenzell sino a San Gallo, quasi a volo in un’estasi di ciliegi in fiore e di giovane primavera che cantava a voce spiegata.
L’ascetica, e direi assoluta, luce montana, la varietà delle visuali e degli orizzonti, il senso di levità interiore che provavo, mi facevano considerare banali gli arenili ostiensi che avevo bazzicato con frequenza nelle estati d’infanzia. Le persone che incontravo fra i monti, spesso propense a raccoglimenti contemplativi, bramose di cimentarsi con ardue conquiste di altezze, mi erano molto più congeniali di quelle sbracate su sedie a sdraio sotto ombrelloni leggiucchiando rotocalchi, tutte protese a conquistarsi un’abbronzatura divenuta quasi obbligatoria (nel medioevo la situazione era opposta e le donne indossavano “solane”, ossia cappelloni di paglia, per impedire al sole di alterare la gotica candidezza dei volti). Non mancava mai, sui lidi tirrenici, qualche imbecille, o “diversamente intelligente”, che mi chiedeva con tono quasi di rimprovero: «Come mai sei ancora così bianco?». Avrei potuto rispondere: «E tu chi credi essere, per quel po’di verniciatura noisette, procurata lasciandoti arrostire dal sole o da lampade abbronzanti ?».
Poco amico delle comitive, delle brigate, al pari del mio alleato Guido Cavalcanti in una novella giustamente famosa (Decameron, giornata VI, novella IX), mi accodavo invece con gioia alle compagnie di apprendisti o esperti “montanari” dediti a spedizioni alpestri. “Uno per tutti, tutti per uno”, come i Moschettieri di Dumas. Tutti fraterni tra noi, sia nella consonanza con la natura epica e silente, sia nella gioia inesprimibile di aver conquistato, col passo calmo e sicuro del montanaro, una vetta, e di spaziare su multiformi orizzonti a perdita d’occhio. Tutti uniti nel cantare i fascinosi cori montanini che tanto amavo ed amo, nel condividere il sobrio cibo cavato dagli zaini. A volte nel raggiungere i vagheggiati “rifugi” dove passare la notte.
Sentivo, in quelle “avventure” condivise, aleggiare un’aura cavalleresca a me tanto cara. Vi sentivo anche, da homo religiosus quale nella mia autonoma e tormentata ricerca di Dio credo di essere, qualcosa di religioso, di sacro, quasi una maggior vicinanza al Divino.
Le parole supreme del Discorso della montagna potrei bene immaginarle annunciate, e dispensate al mondo, da una di quelle cime, mentre non saprei pensarle proferite, per esempio, su una spiaggia estiva del litorale romagnolo o di Palm Beach.
Levatomi innanzi l’alba (con mio sacrificio di adepto della setta dei gufi e non delle allodole), ricordo con emozione, nelle scarpate iniziali della lunga ascesa, gli abeti investiti dal primo obliquo sole diventare tutti luminosi come di cristallo splendente. Un’esclamazione collettiva di stupore salutava quel momento miracoloso. Altra occasione d’incanto, l’ascolto del suono arcano, tra mitico e liturgico, dell’Alpenhorn proveniente da alture lontane e riecheggiante di valle in valle.
La passione per la montagna è una passione eletta, aliena da gretti o volgari interessi, al pari di quella per le diverse scienze, per la ricerca religiosa e filosofica, per la conoscenza del mondo, per la musica, per l’arte, per la vela, per i viaggi in bicicletta, per il giardinaggio, per lo sci libero da assilli competitivi, o per il nuoto praticato non per vincere gare e medaglie, ma soltanto per la gioia disinteressata e quasi mistica di affidarsi all’infinita e luminosa maternità perenne del mare. In definitiva, per «tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato», se vogliamo usare le parole rivolte da San Paolo ai Filippesi.
Non dimentichiamo che esistono anche passioni “oblative”, le più alte e cristiane, che conducono alle molteplici forme di volontariato, oggi per fortuna generosamente praticate da molti giovani e non giovani: sintomo non poco positivo dei nostri tempi, con buona pace dei laudatores temporis acti.
Di solito non si immagina che l’amore per il mare e la montagna, divenuto ormai un diffuso e profondo evento culturale con forte incidenza economica attraverso il turismo, è relativamente recente. Per quanto riguarda l’aspetto marino, alle origini della cultura occidentale troviamo un capolavoro e modello letterario tutto immerso nel mare come l’Odissea. Non mancano nei secoli sprazzi isolati di grande poesia marina. Per esempio l’invocazione di Prometeo, incatenato a una rupe del Caucaso, all’«innumerevole sorriso (anèrithmon gelasma) delle onde marine»; o «l’alto mare aperto» che s’apre al dantesco Ulisse ebbro d’avventura; o l’incantevole «conobbi il tremolar della marina» all’inizio del Purgatorio.
Tuttavia non andrebbe dimenticata l’esemplare ricerca dello storico francese della cultura Alain Corbin, L’invenzione del mare, Venezia 1990 (titolo originale Le territoire du vide, Parigi 1988), che documenta con grande ricchezza di dati anche interdisciplinari come il fascino dell’elemento marino risulti avvertito soltanto a partire dal Settecento, e se ne sviluppi il gusto anche in concomitanza con l’estetica del sublime e col gusto preromantico e romantico.
Per quanto riguarda la montagna, non mancano studi omologhi a quello ora ricordato (e che non è il solo) sull’elemento marino. Per esempio Ascensioni umane. La montagna nella cultura occidentale, a cura di G. Langella, Brescia 2002. Il Dipartimento di Romanistica dell’Ateneo di Verona ha avviato nel 2005 una ricerca dal titolo Letteratura e montagna – Poesia del sublime alpestre tra Sette e Novecento. In realtà, prima del Settecento non era usuale salire su montagne senza uno scopo pratico.
Perciò si dà, con ragione, molta importanza a un precursore particolarmente illustre come Francesco Petrarca, che il 26 aprile del 1336, con il fratello Gherardo che stava per entrare in un ordine religioso, e con altri due compagni, compì l’ascensione della più alta vetta delle Alpi del Delfinato, il Monte Ventoso (Mont Ventoux), 1909 metri sul livello del mare. Un significato di spirituale ascesa è all’origine di questa esperienza, che può comunque considerarsi, per dirla con Vittorio Pacati, «il primo brano letterario che tratti compiutamente e analiticamente un argomento connesso con la montagna». Essa è raccontata nella celebre lettera inviata all’amico frate agostiniano Dionigi de’Roberti da Borgo San Sepolcro, che apre il IV libro delle epistole petrarchesche. Il poeta aveva portato con sé le Confessioni di Sant’Agostino, e lo sguardo gli cadde, ad apertura di libro, sulla frase «gli uomini vanno ad ammirare gli enormi flutti del mare e le altezze dei monti abbandonano se stessi». Ma la contraddizione può risultare soltanto apparente. Quanti scalatori di montagne non cercano, più o meno consapevolmente, se stessi? Del resto Petrarca, che cercava soprattutto se stesso, era anche capace di commuoversi «per lo spirar leggero dell’aere e del vasto e libero spettacolo». A uno spirito non chiuso alla dimensione religiosa, del resto, la bellezza del mondo, il sentimento del sublime, parlano volentieri di Dio.
Ancor più, forse, che all’elemento marino (pensiamo all’impeto burrascoso del preludio del Vascello fantasma di Wagner che poi di tanta energia marina animerà il Tristano),
il sublime si collega all’esperienza della montagna. Per esempio in certi sonetti di Vittorio Alfieri: «Per queste orride selve atre d’abeti Ch’irte fan dell’aspre Alpi il fero dorso…».
Il più alto e ricco momento alpestre della nostra stagione romantica è senza dubbio la lunga narrazione in endecasillabi del diacono Martino, legato del vescovo di Ravenna, che, guidato da Dio, attraversa le Alpi per raggiungere il campo di Carlo. È uno dei punti più alti dell’Adelchi manzoniano: «Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi, / e, in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla / traccia d’uomo apparìa; solo foreste / d’intatti abeti e ignoti fiumi, e valli / senza sentier: tutto tacea, null’altro / che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora / lo scrosciar dei torrenti, o l’improvviso / stridir del falco, o l’aquila… ».
Il pathos storico dell’Adelchi, in cui s’inserisce il passo lirico appena ricordato, ci richiama alla nozione dell’“epico”. E se ripensiamo all’amore della montagna, possiamo avvertirvi quasi un fattore epico. Bene la simbolizza visibilmente, del resto, la stessa presente solennità, a suo modo “epica”, dei monti immobili e silenziosi. Un’inclinazione epica, dunque, propria del resto di molti sport. Per fortuna non è epica guerresca o militaresca: non comporta nemici, né crudeltà, né spargimento di sangue, e nobilita la vita.
In certi casi l’amor di montagna può tingersi di eroismo quasi prometeico, nel suo sfidare l’ostilità delle rocce o dei ghiacci, affrontando ogni sorta di ostacoli, rischi, fatiche, soltanto per affermare l’ardimento dell’uomo. Penso a Emilio Comici, a Ardito Desio, a Compagnoni, a Lacedelli. Penso anche ai tanti ardimentosi sconosciuti. Penso a quelli rimasti esanimi nel silenzio remoto di pietraie, ghiacci, nevi. Come lo scalatore che penzolò per più giorni sulla parete quasi inaccessibile dell’Eiger per la difficoltà di raggiungerlo.
Penso alla generosità dei volontari del Soccorso Alpino che a volte mettono a repentaglio la vita per salvare escursionisti troppo spesso imprudenti.
Ho assistito alla nascita della divorante passione per la montagna in un ragazzo che era con me in un’escursione. Ci eravamo avventurati in un piccolo ghiacciaio per raggiungere il Passo Gemmi, che avrebbe dovuto condurci dall’Oberland nel contiguo Vallese, e che era noto a Sherlock Holmes sulle tracce del suo nemico Professor Moriarty nel racconto di Conan Doyle Il problema finale. A un dato momento ci accorgemmo che s’era fatto tardi, non ce l’avremmo fatta a guadagnare la meta, e rientrammo alla base, sfiniti e ben rosolati dall’abbaglio del ghiacciaio. Per il mio compagno, quella modesta esperienza montana si tramutò in folgorante innamoramento e fece emergere una latente vocazione alpinistica. Lo accese un’irrefrenabile brama di cimentarsi con la montagna. Si iscrisse al Club Alpino, divenne rocciatore, scalatore di impervie pareti.
Il mio amore fu molto più misurato e non così esclusivo. Tuttavia ne fui certo arricchito e irrobustito, come avviene in ogni eletto amore. In seguito, la montagna svizzera mi fece scoprire la dimensione invernale, già presente in tanti importanti e affascinanti sogni protesi verso fiordi e città nordiche, che nella realtà non avrei purtroppo mai conosciuto. Ma il Giura iemale, percorso con gli sci di fondo, mi schiuse orizzonti anche interiori: raccoglimento, silenzio, mistero. Se fossi stato musicista avrei composto una Sinfonia dell’inverno alpestre, da affiancare alla Sinfonia delle Alpi di Richard Strauss. Certi sfondi ghiacciati e compatti, certi deserti bianchi, su cui piombava precoce e repentina la notte, ti facevano sentire, con un brivido di quasi affascinante sgomento, come ai confini dal mondo. Mi accadde, proprio come nelle favole, di avvistare il lumicino di una casa ospitale, disposta ad accogliere il viandante col camino acceso e la mensa apparecchiata. Compresi più a fondo che l’inverno, anche nelle sue corrispondenze simboliche, non è negatività: è l’“adagio” pensoso e introverso dell’astrale sinfonia delle stagioni. Proprio come il Largo, meditazione raccolta e casalinga,
che Vivaldi all’inverno dedicò all’inverno, clou dei sin troppo noti Concerti delle Stagioni.
Molti anni fa un appassionato di montagna mi raccontò, felice, d’aver festeggiato l’ottantesimo compleanno su un’alta vetta raggiunta a piedi. A me non sarebbe stato concesso. I miei percorsi (almeno quelli esteriori) di sfiaccolato viandante ottuagenario diventano più brevi ad ogni anno che passa (quelli interiori spero di no). In giorni di fonde stanchezze diventa un pensum l’antica inesprimibile gioia del camminare.
Ma ho il luminoso privilegio di scrivere queste pagine in un piccolo paradiso atesino chiamato Ritten in tedesco e Renon in italiano, che in una non breve serie di anni ho percorso in lungo e in largo e che mi appartiene come io appartengo a lui. Dalla finestra posso contemplare il Latemar, mio vecchio e fedelissimo amico, in tutta la sua bellezza, sempre nuova a ogni variare di luce, e che non somiglia a nessun’altra: a destra le armoniche proporzioni della piramide dell’Eggentalerhorn, e, accanto, la modulata melodia delle creste chiamate Latemartürme e Latemarspitze. Volentieri si cela tra brume e nuvole per poi ripresentarsi in fascino e apoteosi. Al pari dell’Essere, che secondo un noto filosofo, a volte si vela e a volte si manifesta.
Appena esco, incontro gli amici alberi: aristocratici cedri del Libano, cari al Salmista («il giusto crescerà come il cedro del Libano…»), amatissimi ippocastani, tigli, pini silvestri, larici, aceri, sorbi dell’uccellatore con le ridenti bacche, salici accarezzati e ondulati dal vento. Saluto i crocifissi sparsi lungo i sentieri, protetti da tettoie di legno e sempre onorati di fiori freschi dalla tenerezza di una fede gentile e tenace. Partecipo alla continua festa dei più vari e smaglianti colori e riflessi. Sento, insomma, nel profondo, che l’antica, reciproca amicizia tra la montagna e me, fa parte ormai della mia vita e non può perire, ma soltanto rinnovarsi e arricchirsi.
Collalbo/Klobenstein, agosto 2010