Mi vanto, o mi rammarico, di appartenere ad una generazione alla quale i genitori hanno insegnato ad avere grande cura delle proprie cose. Non ho molta memoria della mia prima infanzia, ma ricordo abbastanza bene i miei primi capricci – meglio ancora i primi sganassoni, pronta ricompensa dei capricci – per un giocattolo adocchiato furtivamente su una bancarella; niente di che in realtà, una marionetta o un pallone, ma aveva il torto di avere un prezzo. In realtà non ho mai ben capito se il vero problema fosse il prezzo o se, invece, si trattasse di una semplice questione di principio. Posso immaginare, infatti, che per i miei genitori, bambini sotto i bombardamenti, anche l’acquisto di un giocattolo semplice come un pupazzo di stoffa potesse costituire un lusso.
In compenso, quando sono cresciuto, le cose sono decisamente peggiorate: superata quasi indenne la prima infanzia, entro a pieno titolo nel mondo degli adulti dimezzati, divento cioè studente delle scuole medie inferiori. Quella dell’adulto dimezzato era una condizione tutta particolare, si avevano infatti tutti i doveri degli adulti….ma senza poter usufruire degli stessi diritti. “Credi di poter giocare per tutta la vita? E’ arrivato il momento che ti prenda le tue responsabilità! Non ci sarò sempre io a pensare a te”! Era un leit motiv che aveva il potere di farti sentire in colpa per qualcosa che ancora non avevi fatto. Nell’economia dell’educazione del secolo scorso, questa strategia dava la possibilità ai genitori di portarsi avanti col lavoro, insomma come a dire: “non so se tu adesso hai fatto qualcosa, ma tanto so che prima o poi la farai. E se anche tu non avessi intenzione di far nulla…..fai male! Muoviti! O credi che io abbia intenzione di mantenerti per tutta la vita”?
Oggi guardo con invidia i ragazzi che, impunemente, possono perdere con estrema disinvoltura penne, quaderni, matite, libri, orologi…..cellulari. Ma non c’è da meravigliarsi, in effetti non si tratta di una vera e propria anomalia. Quando la quantità di un bene aumenta in modo considerevole, diminuisce di conseguenza il suo valore.
Il paese Italia, dunque, che possiede più della metà del patrimonio mondiale storico, artistico ed archeologico, può permettersi il lusso di dare a questo patrimonio il valore che merita.
Se ad un monumento che crolla o ad un affresco i cui colori, a causa dell’incuria, si sono sbiaditi in modo irrimediabile, corrisponde un nuovo ritrovamento, magari fortuito, il problema è presto risolto.
D’altra parte è vero o no che nel nostro paese è sufficiente grattare al punto e al momento giusto per far spuntare fuori un tempio greco o romano? No, non è vero, anche questo appartiene al novero delle leggende metropolitane; è però vero che l’Italia, per millenni luogo di sosta e transito di popolazioni e culture, di queste frequentazioni conserva tracce ingenti, un patrimonio inestimabile quanto fragile.
Insomma siamo una sorta di grosso scrigno nel quale, secolo dopo secolo, abbiamo ammassato ogni sorta di ben di Dio. Ogni tanto qualcosa del suo prezioso contenuto (grazie ad una combinazione, un incidente o un’emergenza) viene sottratto all’oblio e allora – voilà – tutti pronti a gridare al miracolo.
Che al di sotto della della chiesa madre di Positano vi fossero i resti di una villa romana del I sec. d. C. lo si sapeva fin dagli anni Venti del 1900, allorché un macellaio, effettuando dei lavori nella parte retrostante la sua bottega – ai piedi della scala della chiesa – si imbatté nei resti della villa. In quel caso il pronto intervento della Sovrintendenza di Napoli impedì che fossero provocati danni alle strutture emerse. Ma in Italia, si sa, siamo riflessivi. Prima di prendere una decisione abbiamo bisogno di tempo.
Gli anni passano e si perde memoria di ciò che il sottosuolo custodisce; ogni tanto magari ci si ricorda di ciò che tanti anni prima fortuitamente era stato portato allo scoperto ma, in mancanza di un altro macellaio volenteroso che porti avanti i lavori, si decide di rimandare a tempi migliori.
Si deve dunque attendere il 2003 – poco più di 80 anni – perché gli scavi riprendano e permettano di riportare alla luce ambienti e affreschi caratteristici di una villa del consueto tipo vesuviano di età giulio-claudia, schiacciata, in seguito all’eruzione del 79 d. C., da una morsa di fango indurito, come le case di Ercolano.
Si racconta che nella primavera del 2007 Fausto Bertinotti, che da Presidente della Camera si era concesso alcuni giorni di relax a Positano, rimanesse incantato di fronte alla incomparabile bellezza di quegli affreschi: “E’ così forte l’impatto di questa scoperta che non avrei dubbi sulla continuazione dell’opera”, chiosava il buon Fausto. Parole forti e piene di saggezza.
Infatti si deve attendere solo la fine del 2014 perché i lavori riprendano con un progetto di scavo – di durata annuale – che si è sviluppato non solo al di sotto della chiesa madre, ma anche nel sottosuolo del centro di Positano, dove la domus si estendeva. A chi apparteneva una proprietà tanto vasta e lussuosa? Varie le ipotesi, ma la più attendibile ed accattivante è che ne fosse proprietario Posides Claudi Caesaris, liberto dell’imperatore Claudio, dal cui nome deriverebbe peraltro il toponimo di Positano (Posides, posidetanus, Positano).
Di questo favorito imperiale ci parla anche il poeta satirico Giovenale, in una delle sue satire, il quale con vividezza di particolari arricchisce il quadro della personalità del liberto e ci descrive un personaggio dominato dalla mania di costruire numerose ville sontuose. Insomma un personaggio che oggi non esiteremmo a definire un parvenu, di cui ancora oggi la nostra società è piena, ma che ha avuto almeno il buon gusto di lasciarci in eredità un piccolo gioiello. D’altra parte di gioielli di questo tipo l’Italia è piena, alcuni già sono stati portati alla luce – e spesso giacciono in una vergognosa incuria – altri, verrebbe da dire per fortuna, possiamo immaginarli.
Ma noi non ce ne preoccupiamo. Siamo inconsapevolmente ricchi e possiamo permetterci il lusso di disprezzare la nostra ricchezza. Ogni tanto ci scuotiamo dal nostro torpore e fingiamo consapevolezza, ma è solo un attimo. Giusto il tempo di puntare il dito, indignati, contro i colpevoli di turno, coloro che (assessori, sindaci e politici più o meno locali) dovrebbero preoccuparsi di garantire la salvaguardia di questi beni; neanche ci sfiora, invece, che questi tesori di arte e cultura appartengono innanzitutto a noi, e noi tutti ne siamo i principali custodi. Intanto torna il sonno profondo che riporta tutto alla “normalità”.
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Gianpaolo D’Elia
fonte foto VesuvioLive