Lasci che siano gli elementi del racconto a parlare.
È il consiglio di Flannery O’Connor a un tale di nome Ben Griffith, contenuto in una lettera del giugno del 1955. Curioso vero?
Spesso l’idea che abbiamo della scrittura è che si tratti di un blocco inerte di creta, o qualcosa del genere. Di certo una massa informe e senza vita, ma per sua fortuna arriva lo scrittore che con l’aiuto delle Muse (e chi altrimenti?) sistema tutto.
Crea.
Plasma.
Modella.
Eccetera eccetera.
Poco prima Flannery spiega un po’ più diffusamente il suo pensiero.
Quando si presenta una situazione carica di pathos, occorre presentarla e togliersi dai piedi. È un’indicazione molto utile, e la sua forza, e veridicità, risiede proprio nel fatto che sia un’indicazione. Non è descritto il modo di ottenere quello che ci serve. Come sanno quelli che leggono questo scalcagnato blog, e hanno una discreta conoscenza della scrittura, ci sono faccende che devono essere risolte faccia a faccia.
A tu per tu con la pagina.
Nessuno può e deve indicare come agire, perché in quel caso si tratterebbe di prevaricazione. Più ci si infila in questa avventura chiamata scrittura, e più ci si rende conto che la parola pretende un mucchio alto così di qualità. Ma una su tutte la fa da padrona, quella chiamata umiltà.
Non è semplice da comprendere, e immagino occorrano degli anni prima che si riesca a far propria questa verità.
Vale a dire “fare spazio”, lasciare che siano gli elementi a parlare.
Di solito si immagina che tutto debba essere spiegato nei suoi più intimi (e infimi) dettagli, perché altrimenti “non rende bene l’idea”. Ma dieci parole non rendono chiara una situazione, spesso la soffocano con lentezza.
È il risultato di un modo di pensare la scrittura, errato (usiamo questo eufemismo). Non ci si rende affatto conto che occorre “solo” scovare la parola giusta, e a volte può essere davvero una.
La parola ha una forza che non viene compresa appieno se non si hanno delle abbondanti letture alle spalle. E a volte nemmeno è sufficiente. Però so per certo che se si legge poco, quella forza verrà usata male. È come baloccarsi con la nitroglicerina senza conoscere né i suoi effetti e nemmeno la sua natura.
A un’occhiata veloce tutto questo discorso potrebbe persino apparire semplice. Però ecco lo scoglio (quello che io ritengo tale): come diavolo si ottiene una situazione carica di pathos?
Niente male come domanda vero?
Anche se non sembra, è la domanda alla quale si deve rispondere se si desidera una storia che respiri, e schiaffeggi un poco le sicurezze del lettore. Ci deve essere qualcosa (e non è detto che debba rivestire le vesti dell’eccezionalità) che mette in moto la faccenda. Insomma, chi scrive mette a punto un motore che oltre a non esplodere deve pure combinare qualcosa: per esempio funzionare. Un motore un poco particolare, perché non ce ne sono due uguali in tutto il mondo, e ciascun autore è diverso da un altro. Come ci si riesca non è affar mio, ma è appunto di chi sta con le mani sulla tastiera.
Il modello “Gabriel Garcia Marquez” è diverso da quello “Cormac McCarthy” giusto? Certo, fanno uso di alcuni elementi comuni, quindi riconoscibili, però il risultato finale benché sia quello che si desidera (il motore funziona senza esplodere), è ottenuto attraverso una serie di soluzioni del tutto personali.
Il lettore se intelligente, riconoscerà l’efficacia e il valore di quelle parole, ma nella maggior parte dei casi costui se ne uscirà con un “Bello”. O con un “Che vuol dire?”.
Capite? Uno maneggia nitroglicerina, rischia la vita ad ogni istante, e tutto quello che ottiene è un “Bello”.
Se e quando lo ottiene…