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La scrittura tra passione e abbaglio

Da Marcofre

Sia Raymond Carver che John Gardner affermavano che il talento non è poi così importante, anzi forse si tratta di una specie di ostacolo. Non sono molto d’accordo, perché se apro la pagina di un romanzo di Francis Scott Fitzgerald sento la differenza. Mi trovo cioè a un livello superiore. Come diavolo ci è arrivato? È solo perizia? E questa arriva dalla pratica coscienziosa, giornaliera? Nient’altro che questo? Mah!

Qui apro una breve riflessione.

Quando un autore esordiente afferma di non avere tempo per scrivere, ha un problema. Di solito, non ha nemmeno tempo per leggere, e i problemi sono già due. Non esiste un aspirante primo violino alla Scala di Milano che confessi di non possedere sufficiente tempo per esercitarsi. Se esiste, ha le idee confuse, e scambia fischi per fiaschi. Pensa di essere divorato da un bisogno assoluto e totalitario, ma è vittima di un’illusione.

Tra passione e abbaglio c’è la stessa differenza che passa tra un tir e un triciclo. Se qualcuno non la conosce, allora i problemi sono saliti a tre.

Il termine “passione” deriva dal latino “pati” e significa soffrire. Un significato che accetto solo in parte, perché preferisco considerare la passione come l’invasione di una forza oscura, un esercito che travolge le nostre difese e che non sappiamo più cacciare fuori dalla nostra vita. Forse la scrittura non è altro che cercare di dare un’identità all’invasore, capire da dove viene, perché ha scelto noi, che cosa davvero desidera da noi.

Qualunque sia la ragione che lo ha spinto nella nostra vita, dopo non è più possibile ignorarlo o agire come se non fosse successo nulla. Ci si ritrova con una tastiera sotto le dita, o la penna in mano. Quello che di solito accade in seguito è strano. Se si avevano dei sogni di gloria, svaniscono di fronte al piacere di scrivere. Pubblicare diventa del tutto secondario; e al giorno d’oggi è di una facilità inaudita, vero? Quando si riesce a chiudere una frase che suona come si deve, dove tutto è nitido e levigato, luce e ombra sono al loro posto: quello è un momento impagabile.

Di solito dura poco; dopo tre giorni ci si dimentica di quella gioia, e forse la frase non è più meravigliosa come ci appariva.
Sto divagando.

La disciplina è importante nella scrittura perché non solo aiuta a dare del tu alle parole. Oppure perché ogni giorno ci si ritrova a scrivere qualcosa, e scrivere diventa tutto fuorché semplice e “immediato”.

Ma ci si ammaestra a un bizzarro stile di vita dove d’un tratto un sostantivo, un aggettivo, diventano molto importanti. Prima non lo erano affatto. Ogni parola diventa preziosa: come le persone.

Chissà, alla fine la parola può anche aiutare a guardare agli altri con compassione, mentre prima era il disagio o l’indifferenza a guidarci.

E il talento? È lui che ci rende pignoli, e ci fa guardare a ogni parola come se fosse questione di vita e di morte (di solito è davvero così)? Non credo. La mia idea è che sia una sorta di “deus ex machina”, ma come intervenga, e perché, lo ignoro.


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