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La scrittura vertiginosa di Franco Arminio

Creato il 02 gennaio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da lapoesiaelospirito su gennaio 2, 2012

di Anna Rotunno

La scrittura di Arminio non è artigianato colto, ma è scrittura ispirata, anche piena di scorie, detriti, schegge, che ingloba in sé come se si trattasse di relitti preziosi della coscienza e dell’inconscio, senza escludere nulla e anzi con meticolosa cura di ciò che altri getterebbero via come scarti. In questo e per questo si tratta di una scrittura in tutto anomala, atipica e soprattutto controcorrente, tanto che si dà atto alle case editrici che hanno pubblicato l’opera di Arminio (Da Laterza a Mondadori) del coraggio dimostrato nel puntare su uno scrittore che distanze siderali separano dall’attuale produzione letteraria italiana. Una produzione, questa, spesso patinata, ben confezionata, tirata a lucido e sfornata come si sfornano quelle merendine industriali con velleità di genuinità e invece assai sofisticate; una produzione talvolta anche interessante, certo (penso a un Ammaniti, penso a una Murgia, penso a un De Silva), ma interessante appunto per quella loro impronta di dignità letteraria che costa sacrifici, pagine cestinate e riscritte decine di volte, ore di cesello e solitudine, ma che nella sua indiscutibile grazia (grazia che mantiene anche quando si fa scrittura di crudezze e brutalità varie) non dialoga mai profondamente con la morte e con il nulla, che sono da sempre il crogiolo della più alta poesia, prosa narrativa o filosofica. Non è mai vertiginosa, questa produzione. E forse vertiginosa, in tempi di educate nullità (come direbbe Saul Bellow), può essere solo una scrittura come quella di Arminio, con le sue impurità e le sue escrescenze, con la sua generosa, necessaria imperfezione, che fa pensare a quella di tanta letteratura antica. Infatti, chi ha attraversato le opere degli antichi sa bene che il loro pregio non è affatto la perfezione: esse quasi mai sono perfette, spesso si avviticchiano intorno a una struttura sbilenca, ma non mancano mai di essere vertigine, di spingerci fin dentro a quel punto da cui si origina il tutto, senza arretrare di fronte al nulla che disvelano.
Diceva bene Pindaro che gli indottrinati gracchiano come corvi, e Socrate aggiungeva che è vano bussare alle porte della poesia se non si è ispirati. Oggi un discorso del genere può apparire addirittura scandaloso. Tutti possono imparare tutto: questo è il messaggio che in modo più o meno esplicito si lascia passare ogni volta che si aprono i battenti d’una nuova scuola di scrittura creativa o che ci si aspetta che basti un buon insegnante per fare del proprio figlio un genio. Bisognerebbe forse avere il coraggio di dire che non è così, e rivendicare alla natura e alle sue misteriose combinazioni (di geni, appunto!) il dono del talento, che è al di là d’ogni tecnica, prepotentemente e candidamente. La natura non è democratica né politicamente corretta, ma è terribilmente casuale e capricciosa fino alla bizzarria, e di certo la sua logica mal si concilia con quella di un mondo dove l’imperativo categorico è tecnica, specializzazione, perfezionamento, competizione e tensione costante al superamento di se stessi e degli altri.
Ma il poeta ispirato è il primo a non conoscere il dono di cui la natura lo ha provvisto, ne è assolutamente ignaro e anzi, se ne parla in prima persona, risulta talmente impacciato e inadeguato a misurarsi con quel dono da farlo apparire come un’entità separata ed estranea a sé. Direi che questo impaccio, questa inadeguatezza rispetto al proprio dono sia la prima e più importante prova di un vero talento. Un esempio lampante potrebbe essere l’ultima intervista rilasciata da Arminio a Fahrenheit: provate ad ascoltarla e vi renderete conto che tra la sua scrittura vertiginosa e le quiete pianure della sua sintassi orale corrono perigliosi abissi.
Certo per l’autore può essere una dannazione e un tormento questa estraneità rispetto al proprio dono, questo sapere di non poterlo dominare ma di esserne dominati, questo non poterne disporre a piacimento, con il conseguente rischio esiziale d’esserne abbandonati da un momento all’altro. Eppure, questa sua condizione di inconoscibilità è indispensabile perché il dono sia fecondo. Non lo si può conoscere (e tantomeno trasmettere, come i tanti Baricco – non so con quanta buona fede – pretendono di fare nelle proprie scuole), se non a prezzo di perderlo, come Psiche che perse l’amato per averlo voluto guardare in volto.
Avevo promesso ad Arminio che avrei messo in forma scritta il contributo dato alla presentazione del suo ultimo libro, Terracarne, a Padula. Ma è evidente che non l’ho fatto. Non ce l’ho fatta. Le parole di quella sera potevano esserci solo quella sera, erano le parole che la presenza di quel pubblico, l’assenza per sempre di mio padre in quel luogo, l’ascolto vigile di Arminio al mio fianco mi dettavano. La comunicazione orale può essere davvero potente solo quando, diceva Platone, chi ascolta e chi parla sono attraversati dalla stessa corrente come per effetto della pietra magnetica. Riportare in forma scritta quel discorso avrebbe comportato il rischio di inautenticità che si corre ogni volta che si pretende di riprodurre un evento irripetibile. Me ne accorgo anche nella mia vita di insegnante: se tento di riproporre in un’altra classe una lezione particolarmente riuscita ne risulta un che di posticcio e vagamente truffaldino, che mi fa arrossire e vergognare. Oggi ho scritto qualcosa di molto diverso non solo da quello che avevo detto quella sera, ma anche da quello che ho pensato dell’opera di Arminio in questi ultimi tempi. Non ho voluto farmi paralizzare dalla molteplicità delle cose che dei suoi libri mi piacerebbe dire, ma senza eccessive remore ho seguito e inseguito, scrivendo, quell’unica idea che ho già esposto all’inizio: Arminio è scrittore ispirato. E oserei anche dire: refrattario al sapere normativo, alle scritture patinate, alla perfezione e al perfezionismo imperanti, algidi e raggelanti. Refrattario alla tecnica.
Ci si aspetterebbe da un ritratto del genere il tipo dello scrittore noli me tangere, che pone una distanza fra sé e il mondo, fra sé e gli altri, non tanto per alterigia, quanto per il timore che gli altri scoprano che uno scrittore ispirato non conosce affatto il proprio dono. E invece lui no, non è così. E’ uno scrittore che abbraccia, accoglie, ascolta i suoi lettori, li fa partecipi del suo mondo, li invita a intrattenersi e a parlare con lui, mostrando chiaramente che è fatto di carne. C’è quasi, mi pare, in lui l’ossessione di secolarizzare la sua scrittura, perché, essendogli sconosciuta e inconoscibile, è il primo a temerla: quasi arriva a implorare il prossimo di non lasciarlo da solo con il suo dono terribile.
Anche della disciplina che si è inventato, la paesologia, non sa dir nulla di definitivo e di certo. Di certo però si può dire che è antiaccademica e bizzarra, ma anche che in ultima istanza è una delle espressioni della natura socraticamente demonica della sua poesia. E’ una disciplina dello spirito. Un catturare immagini da finis terrae, di mondi sul punto di sgretolarsi, per fissarne l’essenza qualche frazione di secondo prima della catastrofe, quasi a cogliere in essi la contiguità misteriosa tra vita e morte o il destino comune d’essere qualcosa che un attimo prima esiste e respira e un attimo dopo non esiste più, è nulla.
Per questo, la sua è una disciplina quasi orfica, generata dalla sua scrittura e di essa generatrice, fatta di frane e calibrata sul principio dell’entropia, necessaria come ogni memento, per il suo agglutinarsi intorno a scarti e caos, perché ci ricorda che siamo fatti di quella stessa polvere di cui sono fatti i suoi paesi di frane e scricchiolii e deragliamenti, e ce lo ricorda in modo struggente e ostinato, talvolta quasi con accanimento, per non lasciarci da soli nel cieco sfacelo del mondo (visto attraverso i suoi microcosmi) e nel nostro personale franare.


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