Berlusconi esce ancora una volta parzialmente vincente dallo scontro giudiziario e incassa la sesta prescrizione della “carriera”. Ovviamente prescrizione non vuol dire né colpevolezza né assoluzione: vuol dire che il reato è talmente vecchio che lo Stato non ha più interesse nello spendere uomini e denaro per perseguirlo. Zero a zero e palla al centro.
Si può discutere per ore e ore sul fatto che non rinunciare alla prescrizione significhi non proprio coscienza pulita e pure sul fatto che in Cassazione la prescrizione dell’avvocato inglese era stata accompagnata da delle motivazioni che certificavano l’avvenuta corruzione da parte di Berlusconi in cambio di testimonianze reticenti o false in altri processi delicati.
Così come si potrebbe stare a disquisire sull’atteggiamento tenuto dal duo Longo-Ghedini, la difesa del Cavaliere, che, da quando il processo è ricominciato dopo la lunga pausa causa lodi vari, più che badare a far assolvere il loro cliente, hanno usato tutti gli stratagemmi possibili per allungare la minestra e far finire tutto in tarallucci e vino.
Potremmo parlare anche di come la prescrizione è stata decurtata di 5 anni da una legge ad personam, la ex-Cirielli, senza la quale il processo sarebbe arrivato alla fine in carrozza e di come sia stata un’altra legge ad personam a cancellare la possibilità di usare una sentenza già passata in giudicato come prova, diluendo ulteriormente un processo altrimenti facilissimo.
Ma la questione che vorrei porre in risalto è un’altra.
A causa di elementi svariati, il processo Mills non era un processo scontato. Le prove a carico di Berlusconi erano pesanti: la confessione di Mills al proprio commercialista, una sentenza della Cassazione dove, pur prescrivendolo, si attesta il reato. Ma mancava la prova principe: la traccia effettiva del passaggio di denaro dall’uno all’altro. Così come non era scontata la prescrizione: si è giocati sulle date della corruzione, sulle pause che ci sono state e sui lassi di tempo in cui questa era fermata. C’era da interpretare.
I giudici, che per lavoro giudicano, hanno scelto la versione della difesa: reato prescritto. Il PM De Pasquale aveva proposto una tempistica che avrebbe fatto scattare la ghigliottina tra un paio di mesi, ma la sua linea è stata cassato.
I giudici, quindi, hanno dovuto fare una scelta che non era affatto ovvia. E ogni volta che si deve scegliere, si sa, oltre alle alternative, c’è la variabile dei condizionamenti. Che in questo caso erano davvero pesanti.
Lo sanno tutti qual è stata la condizione non scritta per la resa, 102 giorni fa, di Berlusconi. Il Cavaliere ha lasciato Palazzo Chigi in cambio di un salvacondotto giudiziario, una ciambella di salvataggio che lo manterrà incensurato fino alla notte dei tempi. Non è stato esplicito, tipo nomina a Senatore a vita dotato di immunità, ma più velato, comunque presente.
Berlusconi non è più al Governo, il PDL è un partito clamorosamente in rotta (vicino al 10% nei sondaggi), ma rimane pur sempre l’azionista di maggioranza dell’esecutivo tecnico. Di fronte a una condanna, l’ex premier avrebbe potuto facilmente far saltare il tavolo e innescare una campagna elettorale feroce per tornare al potere e usarlo per la solita funzione: salvarsi le chiappe dalle patrie galere.
I giudici hanno sentito gli spifferi e hanno scelto la via facile, interpretabile a proprio favore da chiunque e estremamente attenta a mantenere lo status quo, oserei dire quasi tecnica. Berlusconi però ha altri processi e se un paio sembrano destinati a subire la stessa fine di quello Mills, l’affair Ruby rischia di inguaiarlo. Bisognerà stare all’erta: non essendo più al governo, la situazione giudiziaria di Berlusconi interessa francamente molto poco, ma da lui c’è sempre da temere il colpo di coda, il classico cappello dal cilindro.
Diciamolo chiaro, se Berlusconi uscisse pulito da tutti i processi, le chances di vederlo al Quirinale, con sponde leghiste, centriste e veltroniane, salirebbero in maniera esponenziale. E ci sarebbe da preoccuparsi.