di Vittorio Giorgetti
La politica estera serba degli ultimi quindici anni si è caratterizzata per essere two chairs seated, ossia per un atteggiamento ondivago tra Russia e Unione Europea [1]. Il 2015 ha confermato questa tendenza: iniziato a gennaio con il viaggio del Premier Vučić a Washington in cui è stata rafforzata la partnership con le strutture atlantiche, i mesi successivi sono serviti per raggiungere importanti intese con l’UE e per agevolare l’inizio dei negoziati di accesso. Parallelamente non sono diminuiti i contatti con Mosca e nell’incontro ufficiale di fine ottobre tra lo stesso Vučić e Putin è stato dato il via libera a nuovi investimenti russi in Serbia, a nuove partnership economiche intersettoriali e ad un accordo per la fornitura di armamenti russi all’esercito serbo. Le ragioni di tale postura vanno rinvenute nella storia delle relazioni dei tre attori. Si tratta di un equilibrio complesso, sempre più delicato e difficile da mantenere, che nel futuro potrebbe indurre la Serbia a dover orientare le proprie scelte in maniera univoca.
L’evoluzione dell’asse serbo-russo
Serbia e Russa sono Stati alleati da secoli, e tali sono rimasti nonostante i cambi politici. Fattori comuni sono, innanzitutto, l’identità slava e la religione cristiana ortodossa. Nel 1830 l’Impero russo liberò il territorio slavo dagli Ottomani con l’obiettivo primario di difendere la Chiesa ortodossa e, più implicitamente, di guadagnarsi un accesso diretto al Mar Mediterraneo. Il penultimo capitolo delle guerre russo-turche, nel 1878, portò alla definitiva costituzione del Principato della Serbia, prima forma di Stato serbo internazionalmente riconosciuto. C’è ancora la Russia nel destino serbo durante la Seconda Guerra Mondiale: fondamentale si rivelò infatti l’apporto militare dell’Armata rossa nella liberazione di Belgrado in supporto ai partigiani jugoslavi guidati dal futuro Presidente Tito. Successivamente, però, proprio la rottura tra Tito e Stalin avrebbe prodotto un primo raffreddamento delle relazioni tra i due Paesi, restauratesi solo con la caduta dell’Unione Sovietica e con la disgregazione della Jugoslavia. La Russia è stato l’unico grande Paese che ha difeso Slobodan Milošević durante il conflitto con il Kosovo del 1999, schierandosi apertamente contro i bombardamenti della NATO e contro il riconoscimento dell’indipendenza kosovara proclamata nel 2008. Una posizione, quest’ultima, che il Cremlino sostiene anche oggi e che, formalmente, più di ogni altro fattore tiene legate sul piano delle relazioni internazionali Russia e Serbia. Nell’agosto del 2000, giusto qualche mese prima di essere sconfitto alle elezioni, lo stesso Milošević aveva firmato con il governo russo un trattato di libero commercio che fissava all’1% l’imposta su determinate categorie di beni il cui valore aggiunto fosse prodotto al 51% nei due Paesi. Il Trattato, tuttora in vigore, è stato ritoccato annualmente per includere nuove categorie di prodotti ed oggi copre il 99% dello scambio bilaterale tra i due Paesi. Nei primi mesi del 2015 il commercio totale è ammontato a 1,18 miliardi di euro, facendo della Russia il terzo maggior partner economico serbo. Non di meno la Sberbank, il maggiore Istituto di credito russo, è diventata una dei principali finanziatori delle più grandi aziende serbe (una volta pubbliche, ora scorporate e privatizzate) grazie ad una politica di tassi favorevoli, rendendosi anche un importante interlocutore per tutte le operazioni d’investimento concordate tra i due governi (come per il bailout di 1 miliardo del biennio 2012/2013 e per gli 800 milioni concessi nel 2014 per l’avvio di 71 progetti strategici a lungo termine). Gli investimenti russi in Serbia hanno in particolar modo riguardato il settore infrastrutturale ed energetico: nel 2003 la russa Lukoil ha acquisito il 79% della Beopetrol, la compagnia petrolifera serba; nel 2008 la Gazprom ha acquisito il 51% della compagnia energetica di Stato, la Naftna Industrija Srbije, riuscendo a garantirsi la gestione dell’ammodernamento delle raffinerie di Pančevo e Novi Sad. Tre anni dopo la stessa Gazprom, assieme alla società pubblica di gas Srbjagas, ha avviato i lavori per la costruzione del grande deposito di Banatski Dvor (che a breve subirà un’importante opera di ampliamento dello stoccaggio). Questo deposito di gas sarebbe stato una componente fondamentale del South Stream, il gasdotto che avrebbe dovuto trasportare il gas russo verso l’Europa attraverso un corridoio meridionale. Grazie a questo progetto, la Serbia avrebbe ricevuto un investimento di 2,5 miliardi, divenendo il territorio cruciale per il rifornimento di gas di tutta l’Europa Centrale. L’abbandono del progetto South Stream [2] non ha impedito ai due Paesi di stringere nuovi accordi di carattere economico (come nel caso del piano di investimenti per la ristrutturazione della linea ferroviaria nazionale serba), politico e militare. Nel 2013, Serbia e Russia hanno firmato un partenariato strategico di cooperazione militare, grazie al quale la Serbia è diventata osservatore dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (l’unico Stato extra-CSI). Parallelamente, l’esercito serbo ha dato il via ad un programma di esercitazioni congiunte con l’esercito russo e bielorusso, in quella che è stata ribattezzata la “fratellanza slava”[3], cui si aggiunge l’intesa dello scorso ottobre relativo all’acquisto da parte di Belgrado di armamenti e di nuovi equipaggiamenti militari russi (tra cui carri armati, cannoni automatici, elicotteri da combattimento), giustificati dal bisogno di rinnovare le dotazioni dell’esercito per far fronte alle sfide di sicurezza della regione.
Quello tra Serbia e Russia è dunque un rapporto consolidato nella storia, che continua ad alimentarsi politicamente grazie a una duplice funzionalità. Da una parte la Serbia punta sulla Russia per modernizzare il proprio sistema industriale e per ampliare il proprio mercato, oltre che per garantirsi l’appoggio diplomatico di una grande potenza sulla delicata disputa riguardante l’indipendenza kosovara. Parallelamente, la Russia sa che, contando su Belgrado, riuscirà a mantenere una sorta di enclave strategico nella regione balcanica, all’interno del quale poter esercitare una notevole influenza di carattere economico, militare e culturale, che possa garantirle l’accesso ad un mercato in sviluppo e che possa arginare il rapido fenomeno di convergenza dell’intera area verso l’Unione Europea.
Il percorso di avvicinamento della Serbia verso l’Unione Europea
Serbia ed Unione Europea hanno cominciato ad approfondire le loro relazioni solo dopo la caduta di Milošević, nel 2000. La Conferenza di Salonicco del 2003, in cui tutti i Paesi balcanici vennero dichiarati “potenziali candidati”, fu seguita dalle prime negoziazioni per l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione (ASA) del novembre 2005 e che fu firmato nel 2008 dopo un’impasse derivata dalla reticenza da parte del governo serbo a collaborare con il Tribunale Penale Internazionale dell’ex Jugoslavia. Il 2008 rappresentò in effetti un momento importante per la vita politica nazionale serba: l’unilaterale dichiarazione d’indipendenza del Kosovo segnò un nuovo cambiamento dell’assetto politico interno – con la spaccatura della coalizione di governo tra chi, come il Primo Ministro Koštunica, riteneva di dover proteggere l’integrità territoriale serba anche a costo di rinunciare all’ingresso nell’UE, e chi, come il suo vice Đelić non avrebbe mai anteposto le pretese sul Kosovo al cammino verso l’UE) – con effetti sulla percezione dell’importanza dell’UE per il destino serbo. Coerentemente con lo spostamento di quasi tutto lo spettro partitico su posizioni più europeiste, nella convinzione peraltro delle priorità economiche, dalla vittoria della coalizione “Per una Serbia in Europa” gli esecutivi di Belgrado sarebbe sempre stati formati da partiti filo-UE, aventi come uno dei principali punti programmatici l’obiettivo della convergenza europea. Dopo l’ottenimento della candidatura ufficiale all’ingresso (2012), l’apice di questo impegno è stato raggiunto il 19 aprile 2013 con la firma degli “Accordi di Bruxelles” [4] che hanno dato il via al processo di normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e l’autoproclamato governo di Priština, il cui punto più spinoso è stato costituito dalla creazione della cosiddetta Associazione delle Municipalità serbe – in sostituzione delle “strutture parallele” supportate da Belgrado – nel nord del Kosovo. Tale organismo è stato primariamente pensato per garantire un ampio grado di autonomia amministrativa ai Comuni a maggioranza serba in Kosovo. Sebbene la Serbia continui a non riconoscere l’indipendenza di Priština, con tale atto ha accordato un primo riconoscimento all’esistenza istituzionale delle autorità legali e politiche kosovare, aprendo pertanto le porte all’avvio dei negoziati di adesione (21 gennaio 2014) e a cui è seguita la recente apertura dei primi due capitoli (14 dicembre 2015), il 32 sui controlli finanziari ed il 35 sui rapporti con il Kosovo.
Gli ultimi quindici anni hanno dunque visto un sostanziale allineamento della politica serba alle condizionalità poste da Bruxelles, tanto da far dichiarare al Primo Minsitro Aleksandar Vučić, all’inizio del suo mandato, che “il futuro della Serbia è in Europa” e che l’ingresso nell’UE sarà uno dei punti principali del suo esecutivo. Parole sostanziate da un atteggiamento più che propositivo, che hanno trovato nell’ultima estate delle conferme importanti. In primis, è emerso il ruolo del governo come valido interlocutore durante la crisi dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica. A differenza di molti Paesi vicini, la Serbia è stata pronta ad accogliere un gran numero di rifugiati (costruendo quattro grandi centri d’accoglienza), ha preso le distanze dall’atteggiamento di estrema chiusura promosso dal governo ungherese di Orbán e si è dimostrata estremamente ricettiva nei confronti delle linee guida emanate da Bruxelles, tanto da essere chiamata in tutti i susseguenti meeting per risolvere la questione. In secondo luogo, Belgrado ha avuto un ruolo molto attivo durante la Conferenza di Vienna, secondo capitolo del cosiddetto Processo di Berlino, iniziativa lanciata nel 2014 dalla Germania per fare il punto sullo stato politico ed economico dei Balcani Occidentali e rafforzare l’impegno UE nel favorire il loro processo di adesione. All’interno di questa cornice sono stati approvati importanti piani infrastrutturali che hanno visto al centro la Serbia (come la costruzione dell’autostrada Niš-Pristina-Durazzo e l’ammodernamento della rete ferroviaria che collega Serbia, Kosovo e Macedonia) ed è proprio alla vigilia dell’evento di Vienna, il 25 agosto, che il governo serbo ha confermato l’intenzione di procedere con il processo di normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, grazie alla firma dell’accordo che, tra le altre cose, stabilisce in maniera definitiva la creazione dell’Associazione delle Municipalità serbe nel territorio kosovaro [5].
La sostenibilità dell’equilibrio serbo
La Serbia ha dimostrato di essere un giocatore molto attento ed abile, capace di mantenere ottime relazioni con una parte e con l’altra, riuscendo anche a garantirsi concessioni ed accordi significativi. Nel lungo periodo, tuttavia, questo equilibrio potrebbe diventare molto difficile da mantenere, soprattutto se i rapporti tra Russia ed UE dovessero rimanere tesi. Ci sono almeno tre punti chiave in cui il duplice rapporto non sembra essere conciliabile e, presumibilmente, spingere il governo serbo ad operare un’unica scelta di politica estera.
Primo, le alleanze militari. Come sostiene Jelena Milić [5], Direttrice del Centro per gli Studi Euro-Atlantici di Belgrado, se è vero che l’Unione Europea non dispone di un esercito proprio, è indiscutibile che l’appartenenza all’UE richieda quanto meno una vicinanza, se non una completa adesione, alla NATO (si veda a questo riguardo il percorso del Montenegro, generalmente riconosciuto come lo Stato con maggiori probabilità di entrare nell’UE, recentemente invitato ad aderire al Trattato Nord Atlantico). La firma dell’“Individual Partnership Action Plan” con l’Organizzazione Atlantica (gennaio 2015), dovrebbe andare proprio in questa direzione; lo stesso si può dire per la visita dello scorso novembre in Serbia da parte del Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg, in cui è stato dichiarato che la Serbia rappresenta uno Stato chiave per assicurare la stabilità dell’intera regione balcanica, e in cui sono state soprattutto confermate le 127 esercitazioni congiunte tra l’esercito serbo e la NATO programmate per il 2016. Tuttavia, risulta difficilmente inquadrabile in questo contesto la simultanea decisione del governo serbo di acquistare armamenti russi e di aderire al programma delle esercitazioni militari con la “fratellanza slava”. Vučić ha ribadito che, seguendo la politica della neutralità militare proclamata nel 2007, la Serbia non ha nessun vincolo che le impedisca di mantenere buoni rapporti sia con la Russia che con la NATO. Desta più di una perplessità, però, il fatto che neutralità significhi implementare accordi paralleli con le due potenze. La Commissione europea, tramite le parole della portavoce Maja Kocijancic, ha già parlato di “segnale sbagliato”, e di «speranza che la Serbia agisca in accordo con le sue obbligazioni con il processo di accesso all’UE», facendo trapelare grande insoddisfazione per la continuazione della collaborazione militare con Mosca.
Secondo, gli accordi economici. La Serbia non può assolutamente fare a meno dell’Unione Europea, verso i cui Paesi dirige il 90% delle proprie esportazioni (Italia e Germania in testa). Anche a livello di investimenti, l’Unione Europea è il principale partner serbo: nel 2013 il 78,4% degli investimenti diretti esteri sul totale di quelli entrati in Serbia sono provenuti da Paesi UE [6]. Infine, hanno avuto e avranno grande impatto gli investimenti e i piani di sviluppo infrastrutturale promossi dall’Unione Europea tramite il Programma IPA (arricchito dai nuovi accordi stretti grazie al già citato Processo di Berlino), di cui la Serbia è beneficiario dal 2006. Anche in questo caso, però, il simultaneo trattato di libero scambio con la Russia risulta essere un’anomalia abbastanza singolare. Come ha sostenuto lo stesso Medvedev [7], non è possibile coesistere in due aree di libero commercio, soprattutto nel momento in cui i due soggetti principali hanno chiuso alcuni importanti canali commerciali tra di loro. Davanti alle pressioni della Commissione, Vučić ha espressamente detto che «la Serbia non ha intenzione di unirsi alle sanzioni contro la Russia, in nome degli interessi statali». Gli interessi, ovviamente, si riferiscono alla dipendenza energetica che la Serbia ha nei confronti della Russia, ma anche alle prospettive di nuovi investimenti promessi dal Cremlino (in primis la ristrutturazione delle ferrovie) e al nuovo ruolo economico che Belgrado è in grado di far valere nei confronti di Mosca, essendo divenuta ormai una delle principali porte occidentali totalmente aperte al commercio russo. Se è vero che l’export serbo verso la Russia conta solo il 9% del totale, è anche vero che nell’ultimo anno si è registrato un aumento del 40% degli scambi commerciali, trainato dal settore ortofrutticolo che, parallelamente, vede l’embargo di Mosca nei confronti del mercato UE. Se questa situazione dovesse rimanere tale nel lungo periodo, la Serbia avrebbe modo di trarre benefici economici di rilievo, ma allo stesso tempo si allontanerebbe dal compimento del Capitolo 31 delle negoziazioni di accesso, richiedente un adeguamento delle relazioni di Politica Estera di uno Stato candidato con quelle dell’Unione.
Infine, la questione del Kosovo. Il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato Hanh ha dichiarato che «l’ingresso della Serbia dipenderà dalla sua capacità di dialogo con il Kosovo» [8]. Sebbene con gli ultimi esecutivi si siano registrati passi in avanti nella normalizzazione delle relazioni bilaterali, il possibile riconoscimento dell’indipendenza kosovara è ancora un’idea molto lontana dal concretizzarsi e la stessa opinione pubblica serba non sembra favorevole in tal senso. Ciò pone il governo serbo nella condizione di dover equilibrare gli impegni assunti con Bruxelles con la necessità di mantenere ancorato a sé il territorio kosovaro. Resta inoltre vero che il futuro dell’accordo sulla creazione dell’Associazione delle Municipalità resta incerto a causa dell’attuale crisi politica a Priština dovuta all’ostruzionismo delle opposizioni parlamentari in merito alla stessa intesa. In tale fluido scenario, in cui la Commissione europea ha dichiarato di rispettare le decisioni della Corte Costituzionale kosovara sulla validità dell’accordo, è inverosimile che Belgrado si priverà dell’appoggio politico datogli dalla Russia, l’unica grande potenza che continuerà ad opporsi all’indipendenza kosovara e che non ne permetterà il riconoscimento in sede ONU. Questo appoggio, come è facilmente comprensibile, ha un prezzo molto alto: l’impossibilità per la Serbia di voltare le spalle alla Russia, ed il mantenimento a oltranza della duplicità della propria politica estera, tanto delicata quanto controversa.
Il rischio dell’opzione democratica
Esistono pertanto delle ragioni che in questo momento non permettono al governo serbo di assumere un orientamento più marcato verso l’UE o la Russia, che non si dimostri privo di sacrifici importanti. Alcune di queste decisioni potrebbero essere affidate alle consultazioni popolari, come peraltro già indicato dal Presidente Tomislav Nikolić [9]. Si parla da tempo di un referendum popolare sull’indipendenza del Kosovo: un’opzione che gli europeisti vorrebbero in tutti i modi evitare, consapevoli che un esito negativo comprometterebbe l’intero cammino per l’ingresso nell’Unione Europea. Oltretutto, secondo un sondaggio effettuato nell’estate 2015 dalla società Faktor Plus, solo il 42% dei cittadini serbi sarebbe favorevole al processo di integrazione europea, mentre il 36% sarebbe addirittura contrario. Confrontando questi dati con altri sondaggi effettuati negli ultimi due anni (Governo della Rep. Serbia, 2014: 46% pro-UE, 19% contro; Istituto Medium Gallup 2014: 66% contro l’ingresso nell’UE con condizione del riconoscimento del Kosovo), si può delineare una tendenza abbastanza chiara: l’opzione dell’ingresso nell’UE sta perdendo di popolarità, mentre la percezione della vicinanza alla Russia, sia culturalmente che politicamente, sta tornando in auge. Totalmente contraria sembra invece mantenersi la posizione rispetto ad un ingresso nella NATO (solo il 13% degli intervistati sarebbero d’accordo, secondo un sondaggio effettuato nel 2013 dall’Ipsos Strategic Marketing), segno che i bombardamenti del ’99 rappresentano una ferita ancora aperta [10].
Una delle cause di questo nuovo clima di sfiducia nei confronti dell’UE potrebbe derivare dalla nuova strategia culturale promossa da Putin, peraltro inquadrabile all’interno del nuovo “Concept of Foreign Policy” [11], che vede nella Serbia uno dei territori più fertili per poter esercitare la propria influenza. Vanno visti in questo senso l’apertura dei “Russkiv Mir”, i centri di educazione ed apprendimento della cultura russa, lo stabilimento a Belgrado di diverse fondazioni sovvenzionate dal Cremlino, e la diffusione di innumerevoli testate che raccontano l’attualità, filtrandola attraverso un’interpretazione profondamente filo-russa [12].
Al contrario, il processo di integrazione nell’Unione Europea viene percepito con sempre maggiore sofferenza: l’immagine dell’UE è quella di una grande potenza disunita, che chiede enormi sacrifici per potervi accedere e restarvi al suo interno. Non positivamente sono state prese le parole pronunciate da Juncker nel suo discorso d’insediamento del 2014, quando il tema allargamento è stato indicato come una questione non prioritaria da affrontare durante il suo mandato. La percezione negativa si è poi arricchita con eventi o atteggiamenti accaduti negli ultimi mesi: l’indecisionismo politico mostrato dai leader dei Paesi UE durante la crisi dei rifugiati, l’ASA firmato con il Kosovo e, non da ultimo, la richiesta di unirsi alle sanzioni contro la Russia, percepita come un chiaro invito ad interrompere, oltre che un consolidato flusso commerciale, anche una storica amicizia. Questi episodi stanno evidentemente condizionando l’opinione pubblica di un Paese che, negli ultimi anni, ha visto cambiare la sua intera fisionomia politica avvicinandosi all’UE. Davanti a questo senso di sfiducia, con un crescente potenziale elettorato sfavorevole all’ingresso nello spazio comunitario, lo stesso mantenimento di una maggioranza europeista in Parlamento potrebbe essere messo in discussione nel prossimo futuro, riportando il gioco di forze a pendere dalla parte russa. Una situazione che aprirebbe scenari geopolitici imprevedibili non solo per la Serbia, ma anche per l’intera regione balcanica, attualmente protesa verso una definitiva stabilizzazione e verso il completamento del processo di integrazione europea.
* Vittorio Giorgetti è OPI Trainee
[1] Cfr. A. Poltermann, Serbia Caught between Two Chairs? Does Serbia Want to be Part of the Russian Sphere of Influence or Join the European Union?, in “Heinrich-Böll-Stiftung”, December 10, 2014; F. Segnarbieux, Where does Serbia stands in the EU-Russia quarrel, in “Campus Europe”, March 15, 2015.
[2] M. Siddi, Who are the winners and losers from the cancellation of the South Stream pipeline?, in “London School of Economics Comment”, December 18, 2014;
[3] Nel novembre 2014 gli eserciti di Russia, Serbia e Bielorussia hanno dato vita alla “Srem 2014”, un’esercitazione militare tenutasi nel sud della Serbia, dove è stata simulata un’operazione anti-terroristica. L’esperimento è stato ripetuto nell’agosto 2015 nei pressi di Novorossiysk.
[4] D. Janjić, Accordo Belgrado-Pristina: la fine di un’epoca tormentata, in “Osservatorio Balcani e Caucaso (OBC)”, 22 aprile 2013.
[5] Il principale tema dell’accordo del 25 agosto ha riguardato la formazione dell’Associazione delle Municipalità serbe in Kosovo. Le Comunità, contemplate dall’Accordo di Bruxelles, vengono costituite come un soggetto di diritto dotato di un Parlamento, una bandiera, uno stemma ed un budget autonomo (finanziato da Belgrado). Le Comunità potranno legiferare su educazione, sanità, sviluppo economico e pianificazione urbana, pur lasciando al governo di Priština il pieno potere esecutivo. L’accordo è stato duramente criticato sia dai serbi (soprattutto della destra nazionalista), che hanno considerato questa opzione come una definitiva rinuncia al Kosovo, sia dai tre principali partiti di opposizione del Kosovo che lo ritengono contrario alla Costituzione.
[6] J, Milić, Putin’s Orchestra, in “Center for Euro-Atlantic Studies (CEAS), The New Century No.7, May 2014.
[7] R. Montes Torralba, Belgrade at the crossroads: Serbian-Russian relations in light of the Ukraine crisis, in “Real Instituto Elcano”, ARI 63/2014, December 22, 2014.
[8] EU puts pressure on Serbia to drop trade area with Russia, in “Sputnik International”, October 30, 2015
[9] Hahn Conditions Serbia’s EU Talks on Kosovo, in “Balkan Insight”, May 8, 2015.
[10] Nikolic: referendum per decidere sul Kosovo e Metohija, in “Serbian Monitor”, December 29, 2014.
[11] Si vedano Serbia, in calo il favore del Paese all’integrazione europea, in “Sputnik Italia”, 1° settembre 2015; European Orientations of Citizens of Serbia – Poll June 2014, Government of the Republic Serbia, European Integration Office, August 9, 2014; 53% of respondents support EU, 13% NATO membership, in “B92”, July 8, 2013.
[12] Concept of the Foreign Policy of the Russian Federation, The Ministry of Foreign Affairs of the Russian Federation, February 18, 2013.
[13] M. Szpala, Russia in Serbia – Soft Power and Hard Interests, in “Ośrodek Studiów Wschodnich (OSW)”, October 29, 2014.
Photo credits: Flickr.com/Jennifer Boyer/Miwok
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