Una caccia al tesoro fra Cuba, gli Stati Uniti e l'Europa
Cos’hanno in comune un picaro del XVII secolo, mercenario e brigante di strada, eretico perseguitato dall’inquisizione, che scrive le sue memorie nelle lettere indirizzate ad un confessore del convento di
Santo Domingo all’Avana, con lintento di ottenere il perdono e l’aiuto per recuperare il suo tesoro di corsaro; un manager dell IT&T di New York, con strane manie e una predilezione per le uniformi da collegiale, che viene sequestrato da una banda di professionisti e costretto a pagare un milione di dollari di riscatto; un giovane seminarista che si trasforma in marinaio, dongiovanni, rivoluzionario, costruttore di comunità utopiche in Venezuela per poi apparentemente suicidarsi in un lager per pazzi ? Ce lo chiediamo anche noi, quasi fino alla fine del romanzo, e qui sta tutta la bravura di Daniel Chavarrìa, che fra l’altro, riesce ad adottare uno stile differente per ciascuno dei quadretti che abbozza: una spy story alla Tom Clancy per il manager, uno stile forbito e retorico per il dotto brigante ed uno alla
Jack London per il giovane seminarista sulla cattiva strada.
Come già accaduto ne “L’occhio di Cibele”, lo scrittore cubana mescola sesso e mistica, linguaggio da strada e citazioni dotte, metempsicosi e l’ideologia dei preti rivoluzionari dell’America Latina. C’è un tesoro nascosto da trovare e non è un caso, probabilmente, che nel corso del racconto, uno dei personaggi si ritrovi in mano un passaporto falso appartenuto a un Mr Stevenson.
Con la scusa della caccia al tesoro, Chavarrìa ci conduce in girp per l’America Latina, gli Stati Uniti e l’Europa, nelle situazioni più disparate per un romanzo che forse non è il suo migliore, e soffre un po’di questo gioco a incastri funambolici, ma che resta senz’altro una lettura godibile, varia e appassionante.