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La “sexta” è quella più difficile

Creato il 19 maggio 2014 da Calcioromantico @CalcioRomantico

Cinque vittorie consecutive non sono facili da ottenere, anche se gli avversari non sono poi così tanti e anche se hai nelle tue fila fuoriclasse del calibro di Di Stefano, Puskas, Kopa o Gento. È, però, molto più difficile vincere il massimo trofeo continentale a due soli anni da una rifondazione. La finale persa nel 1964 contro l’Inter di Helenio Herrera ha convinto, infatti, il presidente Santiago Bernabéu e l’allenatore Miguel Muñoz a consegnare i reduci di quel Real alla memoria e a ricominciare da zero. Anzi, a ricominciare da tre. Perché Francisco Paco Gento, nonostante le sue 33 primavere, ha, palla al piede, la stessa velocità dei vecchi tempi. Perché il vivaio, anzi la cantera per dirla alla spagnola, ha sfornato nelle ultime stagioni una serie di interessanti giovani come Amancio Amaro, Zoco, Pedro de Felipe, Serena e Manolo Sanchís. E, infine, perché Amancio e Zoco hanno già una buona esperienza internazionale ealle spalle un Europeo vinto da titolari.

L’atto finale, che darà alle merengues la sesta Coppa dei Campioni e consegnerà loro definitivamente il trofeo, va in scena l’11 maggio 1966 all’Heysel di Bruxelles.[1]
Avversario è il Partizan di Belgrado, una vera sorpresa. Gli jugoslavi per strada hanno compiuto due autentici miracoli. Il primo contro lo Sparta Praga. Piegati 4-1 in Cecoslovacchia, segnano quattro gol nel primo tempo nella partita di ritorno (doppietta di Vladica Kovačević, gol di Vasović e Hasanagić) e si portano sul definitivo 5-0 nella ripresa ancora grazie a Hasanagić. Unico rammarico, il gol più bello di Hasanagić, una sforbiciata dal limite dell’area, è annullato per fuorigioco di un compagno.
Il secondo miracolo, quello in semifinale, è di segno opposto. Per i Partizanove Bebe, soprannominati così dalla stampa jugoslava per la giovane età media (25 anni), ci sono i Busby Babes: l’andata in casa è sfruttata alla grande e il Manchester United è sconfitto 2-0 con i gol del solito Hasanagić e di Bečejac, il ritorno a Old Trafford finisce con una vittoria inglese col minimo scarto (1-0, rete di Stiles).

Nella strada verso la finale anche il Real Madrid ha già fatto il suo bel miracolo, anzi si è presa la sua bella rivincita contro l’Inter bicampione in carica. Un gol di Pirri al 12′ è valso la vittoria al Chamartín in una partita nervosa e caratterizzata da decisioni arbitrali contestate dai padroni di casa.[2] Il gol di Amancio su lancio di Gento influenza irrimediabilmente la partita di ritorno dei nerazzurri, che riescono solo a segnare con Facchetti a fronte dei necessari tre gol (la regola del gol in trasferta è stata introdotta proprio quell’anno).

È arrivato, dunque, il momento di narrarlo questo incontro Partizan-Real Madrid. Sembra una finale d’altri tempi, è la prima banale considerazione che viene in mente guardandone il filmato. Non ci riferiamo al passaggio al portiere che è ancora lecito, ai ritmi più bassi, alla mancanza di pressing dei centrocampisti sul portatore di palla o al fatto che i difensori difficilmente passano la metà campo: ogni epoca ha il suo modo di giocare a calcio e ogni rivoluzione ha radici lontane. Ci riferiamo, invece, all’atmosfera che aleggia sugli spalti. Sembrano pieni di ragazzini. Ogni gol realizzato genera (indipendentemente dalla squadra che lo realizza) una mini invasione di tifosi e, sul finire, un presunto triplice fischio convince tutti quanti a entrare sul terreno di gioco con grossi bandieroni. Salvo poi tirarsi ordinatamente indietro e permettere ai ventidue di disputare gli ultimi due minuti di partita.
In campo, però, c’è il giusto agonismo e si gioca una partita vera. Il primo tempo è di studio. Gli slavi, guidati in campo da Galić, si rendono un po’ più pericolosi, mentre Gento sembra l’unico degli spagnoli a non risentire dell’importanza dell’evento (vorrei ben dire). Nella ripresa il Real scende in campo più determinato, ma è il Partizan a passare: corner dalla destra a rientrare, Galić fa la torre e con un colpo di testa Vasović mette dentro. Il difensore slavo, con la maglia dell’Ajax, segnerà anche nella finale del 1969 persa dai lancieri contro il Milan e, invece, si asterrà dal farlo nella finale vinta del 1971.

Il Partizan si chiude e affida a Hasanagić i suoi sporadici attacchi, mentre Gento si rende più pericoloso accentrando il suo raggio d’azione. Il calcio, però, è imprevedibile e va a finire che i blancos pareggiano proprio in contropiede. Angolo battuto male dal Partizan, de Felipe fa ripartire i suoi, Grosso lancia in profondità Amancio che irride il difensore centrale Rašović e con un diagonale batte Šoškić. Dopo quattro minuti si completa la rimonta con un gran tiro da fuori area di Serena che piega letteralmente le mani al portiere slavo.
Al fischio finale manca un quarto d’ora, ma ormai è tutto deciso. Gento alza la “sexta” per lui e per il Real Madrid, che, dopo essersi affermato nel decennio precedente come la prima multinazionale del pallone, diventa la prima squadra campione d’Europa senza ausilio di stranieri.

federico

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[1] Nel marzo 1967 a Vienna l’UEFA decide di assegnare definitivamente al Real Madrid la coppa andata in palio nelle prime edizioni. Contestualmente ordina la fabbricazione di un nuovo trofeo e sancisce che ogni società in grado di vincerla cinque volte o di vincerne tre edizioni consecutive potrà restare in possesso dell’originale. Da quel momento Ajax, Bayern Monaco, Milan e Liverpool acquisiranno questo diritto. Nel 2009 questa regola verrà abolita. L’attuale coppa messa in palio è, quindi, la sesta forgiata dal 1955

[2] “L’unica tattica dell’Inter è quella di comprare gli arbitri”, dichiara Muñoz a fine partita, cfr. La Stampa 14/04/1966


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