Un nuovo caso (uno dei tantissimi) che motiverebbero la chiusura di questo baraccone.
Lo scritto è di Guido Scorza.
Non commento, lascio a voi le opinioni.
“La storia è, probabilmente, una delle tante che si consumano quotidianamente nel nostro Paese all’ombra dei riflettori dei media: una gallerista torinese, organizza una mostra di sessanta opere di Picasso di sua proprietà – o a lei affidate in conto vendita – e per promuoverla stampa un catalogo, da distribuire gratuitamente, del quale pubblica, poi, online anche una versione digitale.
A qualche settimana dalla mostra e quando il catalogo è già stato stampato, la Siae – dando prova di invidiabile ed apprezzabile efficienza – scrive alla gallerista, informandola di aver appreso “da notizie di stampa” dell’imminente mostra dedicata a Picasso e ricordandole che la riproduzione di qualsiasi opera su cataloghi o manifesti promozionali è soggetta a licenza dei relativi diritti d’autore amministrati dalla stessa Siae ed invitandola, pertanto, a prendere contatti con gli uffici competenti “al fine di istruire la pratica relativa al rilascio preventivo delle autorizzazioni necessarie”.
Alla stessa comunicazione, quindi, la Siae unisce “ad ogni buon fine” – si scrive nella lettera – “il mod 342/Af che si prega di restituire debitamente compilato e sottoscritto per ciascun supporto che verrà realizzato”.
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Ligia alla richiesta della Società italiana autori ed editori la gallerista compila il modulo, vi allega una copia del catalogo che ha frattanto stampato e trasmette tutto alla Siae sebbene non senza qualche dubbio legato al fatto che sul modulo non sono, in alcun modo, indicate le tariffe relative al compenso che dovrà pagare e che tali tariffe non sono neppure pubblicate sul sito della Siae dove, al loro posto – seguendo i relativi link – campeggia, invece, la seguente indicazione: “Il compendio delle norme e dei compensi non è al momento disponibile. Inoltrare eventuali richieste di informazioni a: [email protected]”.
Certo la gallerista avrebbe potuto scrivere a Siae e chiedere quanto le sarebbe costato diffondere il catalogo appena stampato ma le serenità di interloquire con un soggetto pubblico, tutore di diritti e cultura, ha, evidentemente, avuto la meglio sulla preoccupazione per il proprio portafogli.
Passano una manciata di giorni e la Siae si rifà viva nella mailbox della gallerista con una lettera nella quale, facendo riferimento alla corrispondenza intercorsa, la “prega di voler provvedere al pagamento dei diritti d’autore pari a Euro 3.741, 11…che dovranno essere corrisposti entro trenta giorni dalla data” di ricevimento della stessa lettera a pena, in caso di ritardato pagamento, di una penale pari al 10% dei diritti oltre agli interessi dovuti per legge.
Quasi quattromila euro per riprodurre su un catalogo, stampato in 2500 copie e pubblicato sul proprio sito internet, sessanta immagini di altrettante opere proprie o, comunque, esposte per conto terzi in una propria piccola galleria, suonano un po’ come certe stangate che bar e ristoranti poco onesti, di tanto in tanto, riservano a malcapitati turisti che arrivano nel nostro Paese da lontano.
Ma il punto non è questo giacché, in fondo, stiamo parlando di immagini di opere d’arte di Pablo Picasso.
Il punto è un altro.
Il punto è innanzitutto che, si debba scoprire di esser debitori – o presunti tali – di cifre a tre zeri solo dopo aver concluso un contratto di licenza perché, evidentemente – a differenza di quanto accade in tutto il resto del mondo – la Siae non ritiene di dover pubblicare le proprie tariffe sul proprio sito internet, né di doverle comunicare ad un utilizzatore al quale pure, solerte, chiede di regolarizzare l’utilizzo di taluni diritti d’autore.
Ed il punto è, soprattutto che Siae finga di dimenticare o di non sapere che una cosa sono le sue condizioni generali di contratto e le sue assai poco trasparenti tariffe ed una cosa ben diversa sono le leggi dello Stato.
Il 50% dei quasi quattromila euro richiesti alla gallerista in questione trovano, infatti, giustificazione – a scorrere la lettera trasmessa dalla Siae alla gallerista – nella circostanza che avendo omesso di richiedere l’autorizzazione prima di procedere alla pubblicazione del catalogo, l’utilizzatore – secondo quanto previsto in una delle clausole riportate a tergo del modulo che la Siae ha chiesto alla malcapitata gallerista di firmare – sarebbe tenuto a versare una somma che potrebbe addirittura arrivare al 200% di quella normalmente dovuta.
Secondo Siae, dunque, la gallerista dovrebbe addirittura considerarsi fortunata se per la stampa su un catalogo di sessanta immagini di proprie opere le sono stati richiesti solo 4000 euro e non 6000.
Ma la questione non sono neppure i numeri, le cifre, le tariffe e le penali benché salate ed assai poco trasparenti.
La questione è più grave.
Il problema vero è che, nel nostro Ordinamento – come in quello di ogni altro Paese civile – nessuno può, per contratto, imporre a chicchessia una penale punitiva e sanzionatoria tale che il prezzo di un diritto da duemila euro possa lievitare fino a seimila non già a seguito di un ritardo nel pagamento di qualche anno ma, più semplicemente, di un ritardo, di una manciata di giorni, nella richiesta di una licenza.
E, soprattutto, naturalmente, le nostre leggi non tollerano che si possa, per contratto, pretendere da qualcuno il pagamento di una “penale” del 200% per l’ipotesi in cui si verifichi una condizione che al momento della firma del contratto si è, in realtà, già verificata.
Qui riavvolgere il nastro di questa storia è utile: la gallerista, infatti, nel firmare il contratto con la Siae – o, meglio, la richiesta di autorizzazione – ha trasmesso alla Siae il catalogo che, in realtà, non avrebbe potuto stampare senza aver prima ottenuto la licenza in questione.
Quando il contratto è stato firmato, dunque, quello che oggi Siae vorrebbe considerare – con un’astuzia da venditore porta a porta di carabattole – un inadempimento contrattuale tale da costare alla gallerista il doppio del prezzo della licenza, si era, in realtà, già consumato.
Guai a contestare che lo Stato possa sanzionare ogni abuso dei diritti d’autore – piccolo o grande che sia – con pene pecuniarie, auspicabilmente proporzionate, allo scopo di disincentivare le violazioni delle leggi ma, questo compito, non spetta alla Siae e, soprattutto, non può essere esercitato per contratto.
Qualche mese fa, dopo aver denunciato, su queste stesse colonne, analoghi episodi nell’ambito dei quali la Siae pretendeva il pagamento di penali fino al 30%, sempre “per contratto”, il Direttore Generale della Società rispose piccato, mettendo nero su bianco che la percentuale del 30% era una misura massima per l’ipotesi dei ritardi più gravi nel pagamento dei compensi.
Sarebbe interessante leggere, ora, la risposta del Direttore generale della Siae, davanti ad una lettera – guarda caso proprio su carta intestata della sua direzione generale – con la quale si chiede ad un utilizzatore di pagare una penale pari al 100% del prezzo della licenza per aver richiesto – in modo trasparente ed in risposta ad una sollecitazione degli uffici Siae – una licenza con una manciata di giorni di ritardo rispetto alla data di stampa di un catalogo raffigurante sessanta proprie opere.
La domanda è semplice: secondo Siae e, soprattutto, secondo il Ministero dei beni e delle attività culturali che sulla Siae ha, per legge, vigilanza è tutto regolare? E’ normale chiedere ad un “cliente”, per contratto, di pagare il doppio – o addirittura il triplo – se si dimentica di richiedere un permesso prima di usare un’opera?
Sembra davvero urgente mettere mano ad una riforma del sistema dell’intermediazione dei diritti e tirare una linea di demarcazione netta ed invalicabile tra chi – esercitando funzioni di carattere pubblicistico – è chiamato a vigilare sul rispetto delle regole ed a sanzionare gli abusi e chi, invece – da privato e nell’interesse di privati – deve preoccuparsi di far fruttare gli altrui diritti d’autore.”
Fonte: fattoquotidiano.it