Galileo Chini, “Icaro” (1907)
Nel 1972, quando aveva più o meno ventisette anni, Ian Gillan registrò insieme ai Deep Purple uno dei più grandiosi album live della storia del rock: Made in Japan. In Made in Japan c’è una versione di Child in Time che è pura leggenda. Il pezzo è famoso perché dopo il giro di apertura dell’organo Hammond di Jon Lord, e dopo le prime due strofe cantate, accade qualcosa di sconvolgente. Accade che i Deep Purple mettono in scena la miglior rappresentazione del Big Bang che possa essere fatta in musica. Accade che Ian Gillan produce un acuto ipersonico che manda in crisi la migrazione delle balene. Dopo di che accade qualcosa di ancora più impensato, Ian Gillan salta un’ottava più su dell’acuto precedente e arriva a sfondare il cuore di Dio. La cosa che mi sono sempre chiesto è: perché? Perché Ian Gillan, quando ha composto Child in Time, ha previsto una parte come quella, una parte vocale che sarebbe stata impossibile da replicare? In effetti già una dozzina d’anni più tardi, durante un tour tenutosi in Australia, nel momento topico della canzone, ossia nel salto d’ottava, Ian Gillan, che ha trentanove anni, si fa aiutare da un orribile effetto per microfono con cui tenta di confondere la tragica verità, cioè che le sue corde vocali non riescono più a far esplodere l’universo come un tempo. Nel 1994, nel concerto che i Deep Purple tennero al Palaghiaccio di Marino, vicino Roma, comprai il biglietto solo per vedere cosa si sarebbe inventato nel momento fatidico. Stavolta fece uso degli effetti fin dal primo acuto, il risultato fu deprimente, Ian Gillan aveva quarantanove anni, e di quell’acuto che un tempo apriva le acque degli oceani non restava che un angoscioso urletto stridulo. Di nuovo la domanda perché? Ho sempre pensato che Ian Gillan amasse così tanto quella canzone al punto che, mentre la scriveva, immaginò di assicurarla con una specie di serratura da cassaforte, una chiusura di cui lui solo conosceva la combinazione. E in effetti non si ricordano versioni di Child in Time eseguite da altri artisti che siano degne dell’originale. Il problema fu che anche Ian Gillan, molto presto, avrebbe dimenticato la combinazione. E ciò nonostante, per i successivi quarant’anni, ovunque si sarebbe esibito, il pubblico gli avrebbe chiesto di rifare l’acuto di Child in Time, e ogni volta il risultato sarebbe stato più disastroso del precedente. Credo che nella sindrome di Ian Gillan sia racchiuso uno dei più interessanti misteri dell’arte. Quando, nel produrre un’opera d’arte, un artista supera se stesso andando oltre le proprie possibilità, quell’artista è condannato per sempre a portare in scena il proprio fallimento.