da www.ragionpolitica.it
Occhi sempre più puntati sulla Siria, stato canaglia relegato a un grave isolamento diplomatico per via dei gravissimi crimini perpetrati dal regime di Assad. Solo negli ultimi giorni Damasco ha assistito impotente alla sua sospensione dal consesso della Lega Araba, l’organizzazione internazionale che riunisce i paesi nordafricani e della penisola araba (molti dei quali già protagonisti della rivoluzione del gelsomino). Oltre a ciò, cominciano a farsi sentire le pesanti sanzioni economiche inflitte al sistema produttivo siriano. Tutto ciò per costringere il leader del partito Ba’th a fare un passo indietro e ordinare la cessazione di una carneficina che da metà marzo ad oggi conta un bilancio di oltre quattromila morti.
Eppure, oltre all’efferata violazione dei più basilari diritti permessa dalla legge marziale in vigore dal ‘63, la Siria è una bomba dalla miccia cortissima. Se esplode, potrebbero sconvolgersi i fragilissimi equilibri regionali, e non solo. Diversamente dalla Libia, infatti, la Siria si trova al centro di una serie di rapporti che coinvolgono l’Iran, e quindi il nucleare, la Russia contro gli Stati Uniti, l’Europa contro se stessa. Ecco perché ad oggi nessuno ha avuto il coraggio di agire collettivamente. Ci si è limitati a riconoscere il disastro, a conteggiarlo, a quantificarlo e financo a contabilizzarlo, salvo poi evitare codardamente di prendere in seria considerazione l’adozione di misure concrete. Solo la Francia ha osato parlare di «corridoio umanitario» inascoltata. Certo, c’è sempre il capitolo settimo della carta delle Nazioni Unite. Ma l’uso collettivo della forza armata non viene deliberato da un giorno all’altro, anche perché, grazie alla permanenza del sistema dei veti in Consiglio di Sicurezza, il significato politico di un veto americano o russo su una decisione contro la Siria avrebbe lo stesso effetto del battito d’ali di una farfalla: dall’altro lato del mondo potrebbe scaturire un uragano. Quanto è probabile, del resto, una tale divergenza d’opinioni?
Attualmente gli Stati Uniti sono abbastanza indifferenti alla situazione in Siria. Si limitano alla pubblica deplorazione ma all’atto pratico sono inerti. Eppure, qualcosina in pentola bolle visto che si sospetta la presenza di una portaerei americana in acque internazionali non molto lontane dalla Siria. Ciò porrebbe quasi certamente Obama in rotta di collisione con Putin, che da ultimo ha deciso di anticipare al 10 dicembre la traversata di una sua nave portaerei verso i porti siriani. Per far cosa? Offrire assistenza e protezione, oltreché garantire il futuro approvvigionamento di armi, munizioni e materiale bellico da Mosca. Come si è appreso dall’ultima dichiarazione del vice premier Sergei Ivanov, alla domanda se continuassero le esportazioni oggetto d’embargo da parte dell’Unione Europea, egli ha replicato: «Perché? È proibito?».
Lo scenario diventa ancora più limpido se si considera anche la relazione stretta di Damasco con Teheran. L’Iran, infatti, dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq, si sente molto più forte e ritiene che gli Occidentali non posseggano capacità militari tali da contrastare il suo programma nucleare. D’altro canto, invece, Ahmedinejad sa che il blocco del flusso di petrolio avrebbe ripercussioni nel mondo molto più gravi che nella crisi energetica del ’73. Insomma, ha il coltello dalla parte del manico, ma solo perché l’Unione Europea non è mai riuscita a mettere in piedi una politica di sicurezza estera seria e improntata alla messa in comune delle forze armate. Così, chiunque offendesse la Siria, offenderebbe automaticamente anche l’Iran, con i rischi appena esposti. In quest’ottica, bisogna osservare in modo congiunto non solo la Siria, ma anche i recenti accadimenti come l’attacco all’ambasciata britannica di Teheran; la posizione di Israele, che si sente sempre più minacciata dai paesi vicini e cerca rifugio nell’alleato americano; o ancora la Russia, che tenta di riallacciare rapporti da guerra fredda con vecchi satelliti attraverso mosse da politica di potenza; senza dimenticare il blocco dei paesi islamici contro i paesi occidentali, gli uni forti dell’oro nero, gli altri acciaccati dalla terribile crisi economica. Le implicazioni sono davvero troppe per essere riassunte in qualche paragrafo. Ma questa breve analisi può far capire quanto operazioni militari «lampo» simili a quelle avutesi in Libia sono impensabili in questo contesto. Lì c’era l’odio verso un dittatore. Qui c’è un dittatore che si difende con la scusa di una «cospirazione dei nemici occidentali» e la «istigazione ai tumulti fomentata dalle forze imperialiste». Non è solo per la libertà nazionale che si muore in Siria. C’è di mezzo anche il secolare scontro fra civilizzazioni.