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La soggettività Pop di Ranieri Wanderlingh

Creato il 28 ottobre 2012 da Theartship

La soggettività Pop di Ranieri WanderlinghPasquale Fameli. È stata inaugurata sabato 20 ottobre presso gli spazi museali del Monte di Pietà a Messina una retrospettiva dell’artista Ranieri Wanderlingh (Roma, 1961) dal titolo Pop Romantic Art, promossa dalla Provincia Regionale di Messina e sponsorizzata dalla Camera di Commercio di Messina, dal Caffè Barbera e da Mag Magazine, che resterà aperta al pubblico fino al 4 novembre, offrendo la possibilità di conoscere approfonditamente l’interessante percorso dell’artista messinese. Avviatasi all’inizio degli anni Ottanta[1], in un clima di ritorno alla pittura, di recupero dei valori sensuosi della forma e del colore come reazione all’asfittico periodo concettuale-analitico, la ricerca di Ranieri Wanderlingh si allinea immediatamente con le tendenze stilistiche più avanzate, tra gli espressionismi dei Neue Wilden e l’iconismo fumettistico del nuovo immaginario pop-graffiti. Sono gli anni in cui il giovane artista messinese crea i simpatici mostriciattoli de L’accademia (1981), di Punti di vista (1982) o de La vita (1983), dipinti caratterizzati da una scomposizione di stampo cubista e popolati da piatte figure astratto-concrete animate da una cromia vivace e ironica. In questa fase, Wanderlingh gioca la carta dell’infantilismo, sceglie la via di un iconismo fanciullescamente goffo, nella volontà di regredire alla condizione più pura dell’espressione, verso quella genuinità originaria che permette di liberarsi da una “asfissiante cultura”, per dirla con Jean Dubuffet[2], noto maestro della figura regredita, tornata nell’informità di un brodo primordiale.

La soggettività Pop di Ranieri Wanderlingh
Ed è proprio con il primordiale, anzi, con il primitivo, che ha a che fare tutta la seconda fase della ricerca pittorica wanderlinghiana, dapprima giocata attraverso un tratto aggressivo e nervoso, e poi via via più smussato e modulato. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, infatti, l’artista realizza un cospicuo numero di dipinti da lui stesso definiti “psicoespressionisti”: mostruosi nudi femminili dalle forme avvizzite e contorte che sembrano manifestare, in termini freudiani, l’inevitabile legame tra le pulsioni sessuali e quelle aggressive, come si evince soprattutto dalle inquietanti Donna in poltrona (1989) e Amalasunta (1990). Ma nella diversa distribuzione che le pulsioni hanno nell’emergere, ecco che dalla metà degli anni Novanta in poi prevalgono quelle positive della sessualità, e l’immaginario wanderlinghiano si rinnova: le torvità piscoespressioniste vengono abbandonate in favore di una gioiosa “rivisitazione” delle soluzioni formali dell’arte primitiva (negra, cicladica, egizia, precolombiana, etc.) attraverso la ritrovata sinuosità del tratto fumettistico. Svincolando il linguaggio Pop dal riporto “tale e quale” Wanderlingh opera un rovesciamento che, parafrasando il culturologo canadese Marshall McLuhan[3], si potrebbe definire “dal cliché all’archetipo”: anziché operare freddi prelievi alla Roy Lichtenstein da fumetti preesistenti per trasporli in pittura in maniera quasi meccanica, l’artista messinese reinventa un suo personale iconismo fumettistico-primitivista caratterizzato da ampie e brillanti campiture cromatiche. I suoi grandi close-up del 1994 quali Tania o Velia, oppure il più recente Morositas (2012), in cui si avverte forte l’eco matissiana, puntano a ristabilire, attraverso la frontalità dei volti, la flessuosità della sintesi formale e uno spiccato decorativismo, una rivalutazione della soggettività e un recupero del valore umano primigenio. Gli stilemi di un iconismo massmediale e le vitalistiche astrazioni dell’arte primitiva si coniugano così in un nuovo stile, diretto ed emozionale, che lo stesso Wanderlingh ha puntualmente definito “Pop romantico”.



[1] Per una panoramica generale su questo periodo si veda AA.VV., Anniottanta, Mazzotta, Milano, 1985.

[2] Cfr. J. DUBUFFET, Asfissiante cultura (1969), trad. it., Abscondita, Milano, 2006.

[3] Il testo cui si fa riferimento è M. MCLUHAN, Dal cliché all’archetipo. L’uomo tecnologico nel villaggio globale (1970), trad. it., SugarCo, Milano, 1994.


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