Qual è la linea sottile che separa il sogno dall’immaginazione? Pur trovandomi, da tempo immemore, esattamente sul confine, ancora oggi non riesco a delinearne le figure. Il sogno e l’immaginazione continuano ad apparirmi frammisti, sopra e sotto di me; non ai lati, quindi, dove entrambi (separatamente) sono ben piantati a terra, ma lontani, al punto di non poterli toccare.
La sensazione è simile a quella che provo pensando ad un luogo che non ho mai visitato, del quale conosco la posizione geografica, la storia e gli eventi appresi dagli altri. Ecco, gli altri, coloro i quali mi hanno detto che esiste il sogno e l’immaginazione, che esiste l’Italia, dove vivo, e il resto del mondo, dove… A questo punto sembrerebbe pleonastico scrivere il seguito della frase, cioè “non vivo”, e infatti non lo scrivo, ma non per il motivo or ora esposto, bensì perché nei luoghi in cui non ci sono fisicamente, sento di esserci in altre forme. Questo fenomeno è il punto su cui indago e dal quale si dipana il concetto espresso nell’incipit – quella labile zona di confine.
In pratica, o meglio in teoria, potrei assumere la mia condizione come naturale, fino a cimentarmi addirittura nella coniazione di un neologismo – sognaginazione – atto a descrivere quelle due espressioni della mente coabitanti nella mia “scatola”. Ma tutto ciò non mi è permesso, ovviamente dagli altri che, volente o nolente, hanno un ruolo determinante in tutto ciò che accade generalmente a un singolo individuo, anche quando quest’ultimo decida scientemente di astrarsene, anzi proprio in quel momento ne avverte ulteriormente la presenza, la quale si palesa sotto varie sembianze.
La stesura di questi concetti può sembrare sconfinante nell’astrattezza, ma non è forse astratto il confine di cui sto parlando, la cui eventuale concretizzazione non può prescindere dal groviglio di pensieri che i miei laboriosi neuroni tentano di manifestare in una forma leggibile e intelligibile?
Questo scritto è, quindi, rivolto agli altri, i quali potranno eventualmente aiutarmi a decifrare le dinamiche della mia mente. Comprendere quanto siamo tutti interconnessi è molto difficile ma, al contempo, estremamente affascinante. In quel legame collettivo, risiede la verità. Sto parlando, ovviamente, di un’interconnessione atavica, a partire dalla quale gli uomini hanno cominciato a trasferirsi l’un l’altro pensieri che, di volta in volta, si traducevano in altrettante idee su cui prendevano forma e si erigevano nuovi impianti evolutivi, dapprima semplici, poi sempre più complessi. In uno di questi stadi, sono arrivato anch’io. In uno di questi stadi risiede il bandolo della mia matassa, quella striscia di confine in cui il mio conscio-inconscio si trova a proprio agio e dalla quale non credo voglia spostarsi. A quando risale questa condizione, non lo so, ma da allora tento senza posa di capirne la ragione, che intravedo ma non riesco mai ad afferrare. All’epoca del mio “ingresso”, molte scoperte erano già state fatte, per cui posso affermare che quanto sto descrivendo non sarei stato in grado di osservarlo autonomamente, nonostante il bagaglio psico-genetico di cui ero stato dotato, e ciò lo posso asserire sulla scorta di un dato certo: «Personalmente non ho contribuito ad alcuna nuova scoperta». Nel frattempo, continuo ad osservare. Durante il sonno, viene a farmi visita la ragione di cui parlavo, ma lo fa a tratti, mentre i tratti mancanti li scorgo quando son desto; mettendoli tutti insieme avrei risolto, ma purtroppo mi è impossibile e sempre per lo stesso motivo, cioè sia durante il sonno che durante la veglia sono presenti il sogno e l’immaginazione.
Due uomini, fra tanti, mi hanno regalato l’immensa occasione di capire ciò che succede nella mia mente, il resto devo farlo io. Quei due uomini sono Carl Gustav Jung e Sigmund Freud, i quali mi hanno fornito gli strumenti per decifrare ciò che accade ma mi manca il perché, che sto tentando di scoprire. Nei sedimenti della mia mente c’è la spiegazione del mio percorso passato e di quanto esso, districandosi nel presente, sia in grado di influenzare il futuro. Dai loro studi si apprende, ad esempio, a quale grado di difesa può arrivare il cervello, nei vari casi di minacce contro il corpo, fino a sviluppare la facoltà di superare paura e dolore, la cui visione deviata ha purtroppo condotto alcune popolazioni a farne un uso perverso, fino al caso estremo di distruggere autodistruggendosi. In questa dicotomia bene-male, fra queste due forze opposte si collocano quindi coloro che ti danno e coloro che ti sottraggono qualcosa; in bilico troviamo la mente, a volte in balìa dei detrattori.
Ad un tratto mi è sorta una domanda: «Sarei stato in grado di scandagliare questi fenomeni senza contatti con alcun essere umano, vale a dire in una condizione di completa solitudine (sin dalla nascita), in compagnia del solo bagaglio psico-genetico?»
Come sarebbe stato nel dettaglio, non posso saperlo, essendo stato catapultato in mezzo a una folla vociante (le origini napoletane), ma per grandi linee la mia gravitazione all’interno non sarebbe stata molto dissimile da quella che mi si è manifestata.
In quel caso – di completa solitudine – avrei adottato un linguaggio diverso, ancestralmente universale, il cosiddetto mentalese, al fine di decifrare i comportamenti della mia mente. Partendo eventualmente dagli archetipi di Jung (di cui, ovviamente, avrei ignorato l’esistenza), durante la mia ricerca introspettiva sarei inevitabilmente approdato sulle sponde del pensiero, il cui flusso mi avrebbe condotto alla sua origine – l’idea platonica.
Durante il viaggio esplorativo, avrei poi scoperto l’espressione della mia immaginazione, la quale, seppur estrinsecantesi nella poesia – com’è realmente avvenuto – sarebbe stata ineluttabilmente influenzata da un’atipica condizione corporale che mi avrebbe fatto vivere, a mia insaputa, insolite esperienze nelle vesti di un novello Isaac Newton (il grande scienziato era solito autoprocurarsi astinenza sessuale al fine di sviluppare recondite potenzialità del cervello). Perdurando quella mia condizione di completa solitudine, quindi, molto probabilmente Isaac Newton sarebbe stato il collegamento verso un’altra esplorazione, la quale mi avrebbe dischiuso la zona del cervello in cui risiede la logica – l’emisfero sinistro. Nel complesso, le immagini mi sarebbero apparse sempre più nitide ma, al contempo, l’unica strada di salvezza sarebbe stata un paradossale obnubilamento.
Coincidenze significative
Mentre l’inchiostro fluiva copioso dalla mia penna, mi sono balzate agli occhi delle coincidenze significative (definite da Jung eventi sincronistici), orbitanti tutte intorno al numero undici. Quando tale fenomeno (le cui varie tipologie sono state esaustivamente illustrate nel libro Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la nostra vita di Robert Hopcke) mi è apparso nitidamente, ho sentito un brivido attraversarmi la schiena e un motivo stagliarsi nella mia mente, dando il senso all’espressione “Qui e ora”. Soltanto sulle pagine de L’undici, e solo in questo momento è potuto accadere che raccontassi le dinamiche di una zona particolare della mia mente. Vedere quindi concatenati tutti quegli “undici” è stato emozionante, un momento in cui ogni aspetto veniva connotato da una ragione speciale, inclusa nel filo che li lega tutti, e per tale motivo disvelatrice di altre ragioni – ancora in divenire – le quali popoleranno la mia “sognaginazione”.
Mi freme il polso mentre racconto questo episodio, nella cui trasposizione vedo riflessa la figura che alberga in quella mia plaga naturale e che, nella sua forma incorporea, getta un ponte tra sogno e immaginazione e, per la durata della scrittura, sembra riapparire e riportarmi alla realtà, che mi si manifesta proprio attraverso il suo anello di congiunzione, il numero undici.
Espongo, quindi, quelle coincidenze nella sequenza in cui mi sono apparse, tracciando i legami manifesti e tentando di decifrare quelli più reconditi e mutevoli, magari disvelati a nuova vista.
Quando cominciai a scrivere per L’undici – nel maggio 2012 – erano trascorsi esattamente undici anni dall’ultimo viaggio fatto insieme a mio padre e, per giunta, alla volta di Bologna, città alla quale si lega in qualche modo la nascita de L’undici. Legata indissolubilmente alla passione per la scrittura è mia moglie, più piccola di me di undici anni, senza la cui conoscenza non avrei scritto un solo rigo. Undici sono i gradi della mia vista e se gli occhi, come si dice, sono lo specchio dell’anima, allora siamo in presenza di un altro undici. Se nel novero mi è permesso di inserire anche i multipli, allora non può mancare il numero 22, il quale ricorre ben due volte e per entrambe si lega alla mia nascita, in particolare al giorno in cui sono venuto alla luce e agli anni di mia madre quando mi ha concepito. Non devo fare alcuno sforzo per ricordarmi di un altro undici, indelebile nella mia memoria come lo è sulla maglietta che indossava colui che mi avvinceva coi suoi racconti di giovanili partite di calcio, interminabili e polverose… spesso mi diceva: «Se fossi stato più alto di dieci (o forse undici) centimetri, avrei giocato in serie A». Ancora un multiplo, 44, corrispondente agli anni che avevo quando ho incontrato L’undici e consequenzialmente cominciato a vergare, sulle sue pagine, i miei pensieri che, fra gli altri, presero le mosse in un romanzo a puntate, Messaggio in bottiglia, arrivato proprio all’undicesima puntata.
Durante l’esplorazione, ho tralasciato un atteggiamento che mi sarebbe potuto interessare in quella condizione di completa solitudine: «Come mi sarei comportato di fronte alla mia immagine riflessa?»
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