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Se non fosse per l’alto senso macabro che la sequenza ha, si potrebbe quasi dire che il tempismo dell’ultimo pluri-omicidio avvenuto nella comunità rom è un esempio, lampante e sotto gli occhi di tutti, di quanto stabilito dal Parlamento Europeo nei giorni scorsi: il Porrajmos (cioè l’Olocausto di rom e sinti) non solo c’è stato durante il secondo conflitto mondiale, ma continua tutt’oggi.
E la morte (ma, come vedremo a breve, è più giusto parlare di omicidio) di Raul, Fernando, Patrizia e Sabatino (chiamato da alcune fonti Sebastian) nell’ennesimo rogo in un campo “abusivo” è lì a testimoniarlo.
Un tizzone lasciato in un braciere da mamma Elena – uscita per cercare da mangiare – si è trasformato in una tragedia. E mamma Elena e papà Erdei, oggi, devono anche sentirsi accusare di abbandono di minore.
Perché la legge punisce sempre il più debole, ed invece che colpire chi – istituzione statale e/o locale – permette e reitera comportamenti razzisti e discriminatori frutto, nella maggior parte dei casi, solo di ignoranza e convenienza polico-elettorale ma prendendosela con chi ricopre - per "convenzione sociale" - la parte del più debole. Di quelli "ai piani alti", al massimo, si chiedono le dimissioni.
L’ho scritto all’inizio: quest’ultima tragedia è un omicidio. Premeditato per giunta. Come dare altro nome ad una situazione – premeditata fin quasi nei minimi dettagli – in cui per racimolare voti si lascia che delle persone vivano nei c.d. “campi”, in condizioni che noi di certo non accetteremmo ma nelle quali lasciamo “gli altri” solo perché ci è stato insegnato che esistono delle popolazioni “buone” e delle popolazioni “cattive”, così come in queste ore – in un ambito completamente diverso come quello della strumentalizzazione della lotta per la dignità delle donne – alcune pseudo-intellettuali ci insegnano che esistono delle donne “perbene” e delle donne “per male”. Ma questa è un’altra storia…
In mezzo ci siamo noi. Noi con la nostra solidarietà ad intermittenza. Noi che ci ricordiamo delle persone “altre” solo quando ci sono delle tragedie e ci attiviamo mandando il messaggino o linkando la notizia su facebook tanto per dire “io c’ero”, “ho la coscienza apposto”.
È una solidarietà quasi borghese, oserei dire. Una solidarietà che tra un paio di giorni avremo già dimenticato, appena in tempo per prendercela con l’ennesima ragazzina “permale” di turno, senza spendere parola alcuna verso quel sistema che pretende da te non il tuo intelletto ma il tuo fisico, non la tua cultura ma il tuo saperti mettere in mostra più e meglio degli altri/delle altre.
Una solidarietà che non è solidarietà. È ipocrisia.
Quella solidarietà che ci fa applaudire gli uomini delle istituzioni, questi omuncoli che – dall’una e dall’altra parte – si ergono a “statisti” solo per mancanza di qualcosa di meglio. Non c’è niente da applaudire in chi, oggi, si mostrava alle telecamere nel suo (finto) cordoglio come il Presidente della Repubblica o del Senato. Perché se ieri sono morti altri quattro bambini un po’ è anche colpa loro. Perché quando destra e sinistra parlano la stessa lingua distruggendo i “campi” senza dare alcuna alternativa in cambio, se capitano episodi come questi diventa omicidio premeditato (e spesso pianificato). Perché occuparsi della vicenda adesso è forse ancora peggio che non occuparsene.
Non mi interessa qui fare una disamina sui “come” e sui “perché” i soldi stanziati per la “questione rom” o non ci sono o vengono usati male, tanto meno mi interessa ribadire che – come dicono gli stessi “ospiti” – la politica dei “campi” è una politica completamente fallimentare.
Quello che mi interessa, adesso, è capire perché – ad esempio – non esiste una rete di protezione e solidarietà come quelle che si battono contro le carceri o contro i Centri di Identificazione ed Espulsione. A meno di non voler considerare che anche la solidarietà reale, “militante”, soffre di quel male incurabile chiamato razzismo.
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