La brevità è sorella del talento.
Lo scriveva Anton Cechov. Questo post potrebbe finire qui, perché mi pare abbastanza autorevole e chiaro. Cosa aggiungere?
Ho scritto infinite volte di quanto sia sciocco pompare una frase di troppe parole. Che spesso il non dire, il lasciare in sospeso, o l’allusione, sono in grado di comunicare al lettore, e a chi scrive, tutto quello che è necessario.
Già: come si fa? In quale maniera si arriva a conseguire questa sorta di arte?
Al solito modo, credo: mettendosi al servizio della storia, e non pretendere che la storia sia al nostro servizio. Non è facile, e questo è una buona cosa. Non dovrei dirlo, ma la difficoltà che la parola impone, fa da spartiacque. Tra chi scribacchia, e chi scrive.
Cechov ci offre qualche indizio che merita di essere indagato. Il talento è comprendere che la parola benché debole, se usata con la giusta perizia, può molto. Non è necessario impiegarne grandi quantità, ma quelle giuste. Lo studio, la riflessione, sono necessarie perché chi scrive sa alcune cose, ma non scrive di quelle o per quelle, e per portare alla luce che cosa conosce.
Non c’è sugo, non c’è bellezza in una tale condotta. Non è per questo che si leggono le storie, o che si scrivono.
Chi scrive dovrebbe farlo per scoprire quello che non gli è chiaro, e che pure il lettore ignora. Ha in mano alcuni elementi, le cose che conosce certo, e grazie a esse va a caccia del resto. Buona parte della narrativa, quella di successo, è la descrizione dell’ombelico dell’autore: ehi, ciascuno di noi ne ha uno. Dove sarebbe la scoperta?