Una delle cose migliori dell’appartamento dove mi sono da poco trasferito è il fatto che nell’arco di meno di un chilometro dalla porta di casa ho più o meno tutto ciò che occorre alla sopravvivenza di un giuovane inquilino: il giornalaio, le poste, lo sportello bancomat, ampi parcheggi, la farmacia, i cassonetti della raccolta differenziata, e sopra ogni cosa il supermercato. Tutto ciò è davvero molto comodo, e fa sì che ogni volta che torno a casa io possa evitare di fermarmi a prendere ciò che mi serve pensando “Ma sì, ci andrò domani, tanto ci metto giusto un attimo per raggiungere la farmacia/posta/bancomat ecc…”.
Così, inevitabilmente succede che un bel giorno, verso le 12:55 di una nevosa giornata dicembrina, mi appresti alla cucina in cerca di cibo, ma rovistando tra armadietti e frigoriferi debba riconoscere la triste verità: è tutto finito. L’amico frigorifero mostra impietoso due uova, mezza confezione di margarina (niente burro per me!), una confezione scaduta di insalata e un barattolo di passata di pomodoro aperta da troppo tempo per poter pensare di svitare il tappo senza una maschera antigas, il tutto con l’odore di Big Babol (sì, si scrive proprio così!) del cesto di kiwi ormai troppo, troppo maturi. E così, imprecando contro il mio indomito procrastinare (adoro poter scrivere parole piene di “r”senza lasciar trasparire la mia “r” moscia!), mi bardo di cuffia, guanti e sciarpa e mi avvio al supermercato, infilando la giacca sul pigiama e e avendo solo la decenza di infilare i pantaloni della tuta e delle logore scarpe da ginnastica – sono pur sempre un medico!
Prostrato dai borborigmi del mio intestino (quante “r”!) corro spedito fra le corsie del Simply, e nell’illusione di sveltire l’incombenza decido di non prendere il carrello verde ramarro zuzzurellone (ok, sto esagerando le “r”…). Una volta di fronte a tutte le cibarie che un giovane affamato può desiderare, però (e soprattutto di fronte alla profonda consapevolezza che rimanderò la prossima spesa il più a lungo possibile) mi riempio le mani, poi le braccia, poi ogni parte del corpo con ogni tipo di prodotto di cui fino a pochi istanti prima non sentivo alcuna necessità, e di cui in alcuni casi ignoravo persino l’esistenza. Faticosamente supero il banco dei surgelati, ultima tappa prima delle ambita uscita, dove scopro però che all’una di pomeriggio sono chiuse tutte le casse meno una, dalla quale si snoda dunque una simpatica coda di trenta persone degna del più ferragostiano Gardaland. Barcollando per non far cadere le 12 confezioni di insalata, i 38 mandarini e tutti tipi di carne surgelata che sono riuscito a trovare, arriva infine il mio turno, e alla domanda apparentemente disinteressate della commessa “Un sacchetto solo le basta?” alzo la guardia e , ben attento a non farmi fregare dall’inutile acquisto di una borsina in più, rispondo con noncalance “Sì, credo proprio di sì“, rendendomi però immediatamente conto che le provviste per l’inverno in Alaska che ho appena acquistato non ci starebero neppure in 3 borse IKEA. Ma basta spingere un po’, schiacciare le scatole di pasta e lasciare le uova per ultime, e con quattro sacchetti megarisparmio di patatine sotto le ascelle riesco a uscire dignitosamente dal supermercato facendo cadere solo due volte lo shampoo e senza rompere nè la borsina nè le due dita che reggono qualcosa come tre quintali di peso su due ormai esangui falangi.
Tremo all’idea di quando mi deciderò a svuotare l’armadietto della spazzatura sotto al lavabo.