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Ce l’hai con i migranti? No, con gli astigiani

Da Gynepraio @valeria_fiore

Vi siete mai chiesti come nasce il pensiero razzista? Come sorge il pregiudizio? Come tendiamo a generalizzare le esperienze negative vissute nel passato, entrando in contatto con alcune popolazioni? Io sì, perché a me è successo. Ma non è stato necessario andare nell’Africa continentale, oh no! E’ successo con la comunità astigiana. Messaggio per amici e lettori astigiani (sì, parlo con voi che mi leggete da Villafranca: a Google non si scappa): questo post contiene svariate invettive di stampo qualunquista. Mi piacerebbe dire che sono licenze letterarie per rendere il post più godibile, ma purtroppo no, è andata proprio così, e la vostra città è il parafulmine di tutti i miei istinti più beceri.

Tra i miei maggiori rimpianti, c’è quello di leggere poco. Manca il tempo, a volte mi impelago in romanzi che non mi piacciono veramente e mi intestardisco a finirli -tipo “Gli innamorament” mi sa che lo mollo, nel frattempo mi sono infilata in Carveri-, la sera sono stanca o preferisco fare altro. Sicuramente, avere una sola abat-jour in camera da letto, e per giunta sul comodino di voi-sapete-chi non aiuta. Questo weekend mi sono decisa e mi sono dedicata alla ricerca della mia lampada da tavolo. Dopo aver bazzicato tre negozi di illuminazione e persino Ikea (dove, per compensare i livelli cosmici di stizza e frustrazione che questa ricerca infruttuosa mi ha generato, ho praticamente acquistato una foresta pluviale), mi sono buttata su Ebay dove ho comprato questa.

Io non volevo rivangare questo fattaccio, ma tutti i negozianti ficcanaso con cui ho parlato mi hanno fatto la stessa dolorosissima domanda: perché hai una sola abat-jour? Di solito non si vendono in coppia?

Ecco, io nel lontano 2008, quando sono andata a vivere da sola, ho avuto la sfacciata fortuna di trovare due copie assolutamente perfette, -e quando dico perfette intendo meravigliosamente identiche all’originale, tanto che soltanto un soffiatore di Murano erede di un’antica stirpe di soffiatori di Murano e nipote del fondatore della Grande Accademia del soffiatori emeriti di Murano avrebbe potuto notare la differenza- della famosa lampada Fontana di Fontana Arte. Insomma, un giorno passo davanti a un punto vendita Aiazzone  e vedo queste due lampade. Da vecchia faina astuta quale sono, fiuto la ghiotta occasione e per 150€ me le porto a casa entrambe. Nella prima stanza in cui le utilizzai, per darvi un’idea di quant’erano performanti, non avevo neppure previsto un lampadario: era sufficiente accendere una di esse e -tadaaan- lux fiat: calda, perfetta, diffusa, avvolgente. Di gran lunga l’affare migliore che abbia mai fatto.

Mi trasferii in un’altra casa, me le portai dietro, con lo stesso identico livello di soddisfazione. Fino al giorno in cui un pessimo soggetto di Asti, mentre giaceva nel mio letto dove  -stolta me- gli avevo permesso di infilarsi, con un movimento inconsulto e voglio sperare involontario del suo braccio astigiano, ne fece cadere una mandandola in mille pezzi. Feci quello che si conviene a una brava padrona di casa: mi alzai, presi l’aspirapolvere, raccolsi tutti i frammenti onde evitare che il mio ospite ci camminasse sopra e ferisse i suoi piedi astigiani. Infine, smaltii opportunamente ed ecologicamente i suddetti pezzi e la lampadina.

Ecco, sono passati 3 anni da allora, quindi non potrei giurarlo dinanzi al tribunale della Santa Inquisizione, ma non mi sembra di aver letto nei suoi occhi astigiani un sincero rammarico per aver distrutto la mia lampada wannabe-Fontana Arte. Forse farfugliò un “Scusa non volevo”, al quale io, con aplomb torinese, avrò risposto “Figurati, sono cose che capitano” pensando intimamente “Cosa che capitano A TE, pezzo di fango astigiano inetto a vivere”. Ora, io non so come vi comportiate voi quando scassate le lampade in casa d’altri, ma io, quelle sporadiche volte che ho distrutto qualcosa, di solito l’ho ricomprato. Oppure, nell’impossibilità di ricomprarlo (Aiazzone ha chiuso i battenti nel 2011 per bancarotta fraudolenta) si acquista un bene o un servizio di presumibile pari valore (pari valore monetario, ok? Non percepito, quindi la coperta fatta a maglia dalla tua nonna astigiana non vale, ok?) e lo si porta a chi ha subito il danno, dicendo, con aria contrita: “Per farmi perdonare, ho deciso di comprarti questo”. Nella prossima diapositiva, vi agevolo una manciata di esempi per aiutarvi a visualizzare correttamente il concetto di “questo”:

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Biglietti per l’opera, bonsai giapponese di almeno 70 anni, cena in ristorante rinomato e possibilmente stellato, crema altamente performante

Il mio amante astigiano non fece nulla di tutto ciò. Ma alcuni giorni dopo mi disse: “Stasera vieni a casa mia* che cucino io”. Alché, pronta a ricredermi e rivedere le mie posizioni miopi e razziste, io risposi: “Ok grazie, che dici, porto il vino? Hai qualche preferenza?”

Già qui c’era da insospettirsi, perché un astigiano verace e beneducato avrebbe dovuto rispondere “Ma no, figurati, faccio io, noi astigiani c’abbiamo delle vigne spettacolari, quest’anno è venuto fuori un novello da far girare la testa” e invece rispose “Mah, vedi tu, direi del rosso, farò gli arrosticini”.

Ah, la cara vecchia astuzia astigiana! Il ragazzo sapeva il fatto suo: aveva creato un’aspettativa. Siccome gli arrosticini sono -quasi a pari merito con la parmigiana- il mio piatto preferito su tutte le terre emerse, decisi di dare una opportunità al ragazzo-astigiano-spacca-lampade e mi presentai a casa sua con una bottiglia di Refosco (portare un Grignolino d’Asti mi sapeva di presa per il culo) e un grande sorriso stampato in volto. Che andò in mille pezzi, esattamente come la mia lampada, quando vidi vicino al gas la confezione di quello che pensava di propinarmi per cena 

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Sì, esatto, avete capito: degli schifidi arrosticini di tacchino con aroma di selvatico per creare posticciamente il gusto di agnello. In quel momento, capii che il soggetto in questione era un pidocchio tirchio e incapace di vivere, e allora finii i suoi wannabe-arrosticini, mi dileguai e archiviai il suo nome alla voce della rubrica “a posto così”.

E comunque, da allora, tutte le volte che mi dirigo a Sud e arrivo al casello di Villanova d’Asti, abbasso il finestrino, faccio il dito e mi produco in un coro da stadio che recita più o meno: “Noi non siamo degli astigiani”.

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