Mi avevano assegnato la stanza più piccola, bianca di mobili lineari con molte nicchie e mensole, e fiorita di rose rosa e foglie verdi sulla tappezzeria. Era una stanza di bambina, con qualche bambola, giochi in scatola, i vestiti e molti libri.
Le sue dimensioni, la grande finestra che si affaccia sul retro, la sua posizione leggermente defilata rispetto alle altre – per entrare si percorre un breve decumano in angolo sul cardo, asse della casa – mi sono divenute care e ho rifiutato, col passare degli anni, le offerte di trasloco in zone meno defilate.
La prima porta che ne ha segnato il limine aveva una cornice di legno attorno ad un vetro spesso e opaco che collassò in mille pezzi addosso a mio fratello, durante una delle nostre liti da bambini. Ne uscì incolume, per puro caso, e molto spaventato e la porta venne sostituita da un soffietto bianco che mi regalò spazio per una libreria ulteriore.
Non mi era permesso usare la chiave né ero in grado di farlo, dato che la serratura, troppo semplice, cedette presto alle sollecitazioni ripetute ma, quando io stavo – è ancora così che accade – nella stanza, il soffietto era chiuso, per abitudine e seclusione volontaria.
Dentro c’è il mio mondo; da dentro mi escludo dal mondo.
Qui ho fatto i compiti e studiato per tutti gli anni delle scuole di ogni ordine e grado e anche più in là. Altrove non mi riusciva di trovare la concentrazione necessaria. Ho stipato per oltre trent’anni ogni vano con libri, oggetti, videocassette, cosine fino a quando il bianco delle assi si era annullato in mille colori confusi e solo rimaneva esposto il legno lucido di un antico parquet recuperato da una nave smantellata.
Poi ho cominciato a svuotare le cataste di oggetti e ho scollato la tappezzeria schiarita dal passare degli anni – ma non abbastanza da eliminare l’effetto bomboniera femminile e lezioso. Ho venduto libri, digitalizzato e poi regalato le videocassette e i cd, ripulito gli armadi e adesso – perché è ancora la mia stanza questa – il bianco è tornato ad apparire, anche alle pareti, e illumina alla luce del giorno gli spazi vuoti.
I dorsi dei libri, gli oggettini che raccolgo durante i viaggi, qualche scatola di cartone che accoglie ciò che è sopravvissuto alle epurazioni, i copriletto colorati chiazzano tutt’intorno le superfici chiare regalando allegria. Il piano lungo della scrivania rimane sempre libero, quando non studio: accetta solo un paio di portapenne, una lampada, il computer portatile e poco più.
Nella mia stanza si può entrare ma solo di rado, solo a poche persone, e per poco tempo è consentita la permanenza. Una di loro, che non c’è più, è adesso sempre presente.
La mia stanza racconta ancora molto di me per chi si fermasse ad osservare. E’ stata rifugio, è stata prigione volontaria, è stata porto di quiete, è stata riposo, àncora, conforto, calore, frescura, protezione. E’ stata partenza per le terre dei libri, per i mari di internet, sfondo del transito di milioni di parole scritte da altri, da me. A lungo, per un certo periodo della mia vita, non riuscivo più ad uscirne, mia isola, e ad affrontare le richieste della terraferma. Ora vado e vengo libera e in essa torno, ogni giorno, a ritrovare me stessa.
Grazie, pioggiablu, da una cella all’altra.