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La stanza d’Hotel

Creato il 15 marzo 2012 da Illcox @illcox

E’ un attimo soltanto…sto pagando alla hall per la camera che ho preso per stanotte. Sento qualcuno, qualcosa, passare dietro di me.
Mi volto istintivamente, ma non vedo nessuno. Continuo a guardarmi intorno, come rapito da questa presenza che in realtà non c’è; il consierge mi chiede se va tutto bene e io faccio cenno di si, non convinto.
Vuole chiamare il fattorino,
- No, faccio da solo – dico. La valigia è una e non molto pesante.
Prendo le scale che mi portano al pianerottolo degli ascensori; la mia camera è al terzo piano.
Poi, all’improvviso, la sento di nuovo e mi volto: questa volta vedo. Vedo un velo rosso che risale le scale e niente altro. L’ascensore è arrivato, ma la mia attenzione è rivolta a quelle scale.
Devo andare. Che saranno due rampe di scale in fondo. Voglio vedere. Voglio sapere. Il signore in ascensore mi guarda per capire le mie intenzioni. Alzo la mano, distratto, per dire che può andare senza di me.
L’ascensore si chiude e io afferro la mia valigia dirigendomi al volo verso le scale.
C’è qualcosa, lo sento. Sento di nuovo la presenza appena salito sul primo pianerottolo, ma non vedo nulla.
Poi il mio sguardo si sposta all’entrata del corridoio del primo piano, ed è lì che vedo. Altro velo rosso e anche del bianco…un braccio mi sembra, bianchissimo, che striscia al muro, fino a scomparire dietro l’angolo.
E questa cos’è? Una risata?
Si, si…Una risata flebile, come quelle delle nobildonne, che devono essere a modo e non lasciarsi andare troppo.
Continuo la mia scalata fino al corridoio. Procedo dritto portato avanti solo da questa sensazione, dal ricordo di quella risata che voglio ascoltare ancora e ancora…all’infinito.
Salgo ancora di un piano e mi ritrovo in un altro atrio per gli ascensori.
La porta per le scale si apre davanti a me dall’interno. Sarà qualche altro ospite dell’hotel. E invece no.
Lo stesso candido braccio, molto più velo rosso di quanto io ne abbia visto prima, un vestito, si, un lungo vestito rosso che scopre un’intera spalla bianca adesso.
Resto a guardarla rapito, finché al di sopra di quella non scorgo capelli di un nero corvino intenso, lucenti e lasciati su quella spalla con una tale distrazione da sembrare un quadro perfetto…un vortice nero in un campo innevato, dove spuntano però ancora dei fiori rosso sangue.
Resto a contemplare quello spettacolo quasi imbambolato, inebetito, senza muovere un muscolo, finché la bianca mano non percorre lentamente il lato della porta e punta verso di me, invitandomi a seguirla. Lì, mi sveglio e comincio a camminare meccanicamente. Devo raggiungerla. Voglio raggiungerla.
Percorrendo il corridoio mi accorgo infine di essere giunto al terzo piano, quello della stanza che mi è stata assegnata. Mi fermo davanti a una porta.
E’ lì che devo entrare, lo sento.
Abbasso la maniglia ma è chiusa, non è la mia stanza. Ma poi mi frugo in tasca e trovo la chiave. Si è lei. Me l’anno data giù alla hall.
Che significa questo?
511 è scritto sul cartellino e anche su quella porta. Infilo la chiave nella serratura e apro avido.
Sarà qui lei? La donna che ho visto?
Butto a terra la valigia e accendo la luce, ma appena alzato l’interruttore sento un no, flebile, ma deciso, attraversare l’aria.
Allora faccio ripiombare la stanza nel buio e lì la vedo.
È nell’angolo della camera, il vestito rosso lungo fino a toccare il pavimento, i capelli raccolti da fermagli lasciano cadere onde scure sulla pelle lucida delle spalle scoperte.
Ma tutto ciò che fino a quel momento mi era parso lo spettacolo più incantevole della natura, a un certo punto sembra perdere significato. Perché lei si sta avvicinando a me, e i suoi movimenti mi sembrano quelli di un angelo: lenti, misurati, perfetti, quasi surreali.
Quando è davanti a me non riesco a proferire parola. Tale facoltà sembra essermi stata tolta, perché l’ho data via, quasi con piacere in cambio della permanenza di quello della vista, che in questo momento mi permette di guardare una bellezza che non può essere descritta da futili parole, perché non renderebbero giustizia a tanto splendore.
Il colore dei suoi occhi è quello dell’oceano più profondo, di acque devastate da tempeste senza sosta, che stendono un velo di oscurità su quelle pozze che al sole brillerebbero rassicuranti.
Non riesco a muovermi di nuovo. Sono perso in quelle acque, e mi lascerei volentieri affogare in esse, perché non ci sarebbe modo più dolce di lasciar il mondo.
Ma ecco, lei mi riporta indietro, mi salva e tuttavia, mi strappa, da tanta pace con un sorriso mosso dalle sue labbra perfette, di un rosso simile a quello del leggero vestito che indossa.
Vorrei chiederle chi è, dov’è stata fino a quel momento, se mi cercava, come sapeva qual’era la mia stanza.
Vorrei dire che l’amo e che voglio stringerla, accarezzarla e tenerla con me per l’eternità. Ma sono pietra. Una statua priva di movimenti e colma di emozioni, che non riesce a esprimere.
Riesco a dischiudere le labbra un secondo e vorrei parlare ma ho paura che se un solo fiato uscirà dalla mia bocca la perderò, sparirà per sempre, dissolvendosi tra le mie mani come fumo.
D’un tratto tuttavia, non c’è più bisogno che io dica nulla, perché le mie labbra sulle sue stanno esprimendo tutto quello che avrei voluto dire.
Stanno dicendo quanto l’amo, anche se non la conosco, anche se non so niente di lei. Le labbra diventano il mediatore di un dialogo silenzioso e tuttavia così intenso da far rumore.
Ma da sole non sono abbastanza, si lasciano aiutare dalle mani che corrono sulle sue spalle e che al contatto hanno quasi un tremito per la felicità di sentire che quella pelle è vera, quelle ossa sono ferme e stabili e non si sfaldano al tocco.
Le mani continuano il loro ausilio alle labbra che, nel frattempo non smettono di parlare.
Il suo tocco sul mio viso è come velluto sulla pietra ruvida, un velluto che ha la capacità di levigare la pietra, fino a farne dell’argento liscio e lucido. Come acqua che lava via i peccati, fino a rendere anche il più sprovveduto degli uomini, un santo.
Le mani cambiano strada e finiscono allora nei suoi capelli e si perdono in quelle onde raccolte che sembrano un prolungamento delle pozze scure dei suoi occhi.
Libero quel mare dal suo vincolo e la cascata scura mi avvolge di un sentore di fiori, di rose appena colte, di rugiada mattutina.
All’improvviso mentre l’incessante discorso delle labbra prosegue, la mani sembrano essere bisognose di aiuto a loro volta. E’ così che vengono soccorse dai corpi, che prodi arrivano per soccorrere labbra e mani nella battaglia che è questo discorso silenzioso, questa espressione di sentimenti nuovi, appena affiorati e facili a morire tuttavia.
L’armonia sembra essere intrisa nelle mura di questa stanza, immersa nel buio eppure pervasa dalla luce più splendente e calda del mondo, dove volano veli rossi e aleggia un profumo di rose, che da alla testa, facendo da droga ai sensi, che nonostante siano inebetiti, sembrano non essere stati mai più lucidi di così.
La luce dorata del suo corpo è per me come un sole tenue e meraviglioso che scalda senza far male, che inonda la mia pelle, facendomi sentire tutt’uno con questa perfezione che non è mia, ma ha scelto me per una missione di qualche tipo.
In questo turbine di sensazioni, il senso del confine del mio corpo e della mia mente è sparito.
Non c’è nulla da pensare. Nulla da sapere.
Nulla e tutto.
Io sono lei, lei è me.
In questo mondo dove non ci sono leggi, ne regole, ne obblighi continuiamo questa conversazione, che lenta, dopo tanto silenzio, comincia a far rumore. Un rumore interno, di convinzioni che esplodono come bombe, e dubbi che si cancellano.
Non è rimasto nient’altro qui.
Solo il buio, il silenzio, il calore, un battito di cuore accelerato.
E un attimo dopo è mattino.
La luce investe violenta il letto della mia stanza. E’ lì che sono, stremato, rannicchiato su un lato, appena riscosso dal sonno profondo.
Mi alzo di soprassalto.
Ma che è successo?Lei…Lei..dov’è lei? E’ stato un sogno? Ho immaginato tutto, quindi?
No, non è possibile. Io ricordo, io ho sentito. Io…sono nudo.
Se n’è andata dunque. Mi ha lasciato qui.
Ma io voglio averla. Voglio sapere tutto di lei. Voglio sentire la sua risata ancora. E la sua voce quasi per la prima volta.
Mi dirigo in bagno. La cerco. Non c’è.
Mi siedo sul letto con la testa fra le mani.
Qualcuno bussa alla porta. Sarà lei? E’ tornata.
Mi rivesto in fretta e mi dirigo alla porta con la speranza nel cuore, che subito dopo si sbriciola.
È la cameriera.
Deve rifare il letto. Le dispiace disturbarmi dice. A me non interessa.
Però forse può aiutarmi in altro.
Mentre si dirige in bagno a vedere se ci sono asciugamani sporchi, le domando se per caso non abbia visto una donna in abito rosso uscire dalla stanza stamattina.
Se l’ha vista qualcun altro.
-Da come la descrive l’avrei notata signore- dice.
-Mi spiace ma non ho visto nessuno entrare ne uscire da questa stanza, tutta la notte e la mattina. A parte lei signore. Ma può chiedere giù alla hall. Magari lì l’hanno vista- dice.
-Magari- dico. -Grazie-.
Non riesco a capire perché.
Perché non ha potuto aspettare il mio risveglio? Aveva di meglio da fare?
Peggio, qualcuno da cui tornare…un fidanzato, un marito forse.
No.
Non poteva essere così. Non doveva essere così.
Sarei sceso alla hall e avrei chiesto di lei.
L’avrei trovata.
E poi l’avrei tenuta con me.
Mi sciacquai e cambiai velocemente, mentre la cameriera metteva in ordine la stanza.
Chiusa la valigia e recuperato tutto ciò che era mio, uscii dal bagno pronto per scendere alla hall.
Tuttavia, appena mi trovai davanti al letto, la valigia mi cadde dalla mano per lo sconcerto e, in un certo senso, anche per la speranza.
Appeso sulla testata del letto vi era il quadro di una donna.
Non di una qualsiasi. Ma di una donna con un lungo abito rosso. Dai capelli neri e dagli occhi…da quegli occhi. Quelli in cui mi ero perso appena poche ore prima.
Quegli occhi tormentati e meravigliosi che mi avevano fatto tacere inerte.
Era lei, ne ero certo.
Come avrei potuto confonderla dopo quella notte? Impossibile.
Ma se era lei quella nel quadro, qualcuno doveva conoscerla! Nessuno appende quadri del genere senza sapere chi vi è ritratto.
Forse sapere chi fosse e trovarla sarebbe stato molto più semplice.
Mi precipitai fuori dalla camera e raggiunsi la cameriera, che da poco era uscita dopo le sue mansioni.
-Mi scusi- dico – E’ urgente, devo chiederle una cosa-
La cameriera mi guarda stranita, ma mi segue.
Le indico il quadro sul letto.
-Sa dirmi chi è quella donna- dico. – E’ molto importante-.
La cameriera sembra titubante, come se non volesse dirmi ciò che sa.
Non so che tipo di espressione avessi in quel momento, ma doveva essere davvero disperata.
-La prego- dico – E’ di vitale importanza- enfatizzo.
La cameriera si arrende.
-Beh, il direttore ci raccomanda di non parlarne di solito – dice – Queste cose spaventano i clienti, signore. Ad ogni modo, quella è la Contessa Anna, signore, la chiamano così. Alloggiò in questa stanza tempo fa. Si dice che avesse lasciato il marito deciso da suo padre e stesse scappando con quello che doveva essere l’amore della sua vita – dice la cameriera, guardando il quadro.
-E adesso dove si trova? Sa dirmelo? – dico, avido di informazioni.
La cameriera mi guarda quasi dispiaciuta.
-Beh il motivo per cui non dovremmo parlarne è che…Da quanto si dice, il suo amante…Ecco..La ingannò, finendo poi con l’ucciderla, signore. Scappò via con quanto di prezioso lei avesse portato con sé per ricominciare – dice.
-Fu trovata nel letto di questa stanza – continua, cupa, la cameriera.
Io la guardo incredulo.
- Ma, ma…- dico.
-E’ successo più di cinquanta anni fa. L’hotel era aperto da circa cinque – precisa lei. -Quel bastardo lasciò solo quel quadro qui. Non doveva valere molto per lui – conclude.
Io non riesco a proferire parola. Penso sia uno scherzo. Che da un momento all’altro lei sbucherà da dietro l’angolo e dirà che la cameriera è fuori di testa o stava solo scherzando.
-Come può essere? Lei mi prende in giro!- dico.
-Io l’ho vista, era proprio qui ieri sera al mio arrivo. In questa stanza.- dico, cominciando a perdere la pazienza.
-Questo…beh, non si sorprenda, signore, ma è molto probabile…- dice la cameriera, rigirandosi lo straccio tra le mani.
Io la guardo con fare interrogativo.
-Dovrei pensare di aver visto un fantasma? E’ questo che vuol dire?- le dico sarcastico.
-Signore questa stanza non viene mai assegnata per questo motivo!- dice.
-Sono rari i casi in cui qualcuno vi alloggia, mi creda! Quando l’hotel è pieno…Comprendo che può sembrarle impossibile, ma non c’è niente da capire in fondo. E’ un anima in pena, signore. Cercava solo un po’ d’amore, e guardi cosa le è capitato poveretta. – E scuote la testa dicendolo, in un modo che non ho dimenticato, pieno di compassione.
-Si dice anche che sia rimasta qui- dice – Il motivo vero non lo sa nessuno. Magari vendetta o tutto l’opposto. Io ci lavoro da tanto qui e non l’ho mai vista. Tuttavia, dato quanto mi ha riferito le suggerirei di non farne parola alla hall. A loro non piace lo sporco che non possono cancellare. Buongiorno.- Dice sospirando, e si allontana, lasciandomi ai miei pensieri.
Un qualsiasi fan di storie di fantasmi ci andrebbe a nozze con una cosa del genere, ma come si fa a ridurre una notte di puro amore, a una semplice buffonata da film o libri.
È incredibile, penso, semplicemente incredibile.
Ho sfiorato la sua pelle, le sue labbra, con la paura che si dissolvesse, e alla fine l’ha fatto davvero. Lasciando di sé solo un quadro, e il ricordo del suo profumo che mi aleggia nella testa.
Resto in piedi sulla porta per un po’, senza sapere cosa fare esattamente.
Si può lasciarsi una cosa così alle spalle e condurre una vita normale di nuovo? Non lo so…Ma in qualche modo dovrò fare.
Alla fine, decido di rientrare nella stanza a prendere la valigia e tentare di chiudermi questa porta alle spalle; anche se mi rendo conto, nello stesso momento in cui muovo il primo passo, che sarà più difficile di quanto pensi.
Mi dirigo in bagno, meccanico, mi butto dell’acqua in viso per riprendere piena coscienza dei miei sensi.
Afferro poi, deciso, la valigia, lasciata sul pavimento e respiro profondamente prima di dirigermi verso la porta.
D’un tratto, nell’aria c’è un profumo familiare, dolce, che da alla testa. Mi volto immediatamente verso il letto e lì, sul cuscino vedo l’origine del profumo, del suo profumo.
Mi avvicino al letto a passi misurati e afferro la stola rossa di velo appoggiata sul cuscino: è uguale alla stoffa del suo vestito.
Non so se sorridere o no. Senza quasi sapere il motivo.
Resto in piedi davanti al quadro. Neanche quello rende giustizia alla sua bellezza.
I suoi occhi lì, sembrano così spenti, privi di vita. Niente a che fare con quel meraviglioso oceano in tempesta.
Ripenso alle parole della cameriera. “Cercava solo un po’ d’amore”.
Io spero di averne dato quanto più possibile. Perché anche se sembra impossibile, io l’ho provato davvero.
- L’ho provato- dico -ti ho amata dal primo momento in cui i miei occhi hanno posato lo sguardo su di te. Io ti amo – dico ad alta voce, quasi fosse li con me. Anche se so che quelle sono le ultime parole che le dirò.
Mando un bacio verso il quadro come ultimo saluto e infine, mi decido a lasciare la stanza, guardandomi indietro solo un ‘ultima volta.
Esco con la mia valigia e la stola tra le mani. Mentre mi allontano, sento ancora una volta il profumo delle rose e capisco, che un pezzo del mio cuore è rimasto nella stanza 511 di quell’hotel.
La notte del mio arrivo presso la hall, solo due stanze erano libere: la 511 e la 640.
L’hotel fu al completo quando io e un altro uomo varcammo la porta.
Io fui il secondo ad entrare quella sera, ma il cliente che mi precedeva ricevette delle telefonate continue sul proprio telefono cellulare, prima di poter accostarsi al banco. Telefonate di cui, da quanto mi è parso allora, il mittente non aveva mai emesso un solo fiato dall’altro capo.
Quando ripensai a questo particolare, capii.
Lei, Anna, aveva già scelto me.

 


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Da Manuela Gabriele
Inviato il 31 luglio a 15:13

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