L’imperativo categorico che si erge a guisa di punto esclamativo che deflora robustamente la sacralità lubrica dell’ano dei dipendenti è solo uno: portare danari alla grande azienda. La grande azienda è un leviatano catarroso ed è l’evoluzione genetica degli opifici dell’Inghilterra vittoriana. Gli amministratori delegati avrebbero una gioiosa e sempiterna erezione se potessero realizzare il loro sogno nascosto: riproporre la copia carbone delle fabbriche tessili della rivoluzione industriale dove bambini malati di poliomelite stramazzavano dopo turni di 18 ore. Agognerebbero vedere operai sudici di fuliggine e grasso che corrono instancabili lungo la catena di montaggio senza nessuna pretesa se non quella di avere una scodella di minestra ogni 36 ore.
Tuttavia, nonostante gli sforzi delle associazioni industriali, tutto questo non è attuabile.
Poiché non si può imporre ai propri dipendenti la palla al piede, lo jus primae noctis e la cessione della primogenitura la grande azienda tenta di tenersi stretti i dipendenti con iniziative e proposte atte a fidelizzare gli stipendiati e a stimolarne il senso di appartenenza.
Facendo leva sugli istinti belluini e sulla crapuloneria sferica delle masse abbrutite e sottoalfabetizzate, la prima cosa che viene fatta è il torneo di calcio aziendale. L’idea è vecchia come il cucco e sembra riproporre i fasti dei gloriosi dopolavori ferroviari degli anni ’60 ma di quella decade non è rimasta nemmeno la memoria di qualche disco di Hendrix per cui la riattualizzazione non può rimandare al contesto sociale sano ed amichevole dell’Italia del dopoguerra. Al contrario: non è altro che la sordida macchinazione manipolatoria partorita dalla mente di uno squilibrato fuggito da un’impresa multilevel.
Ecco dunque che in qualche campetto affittato per l’occasione si ha la possibilità di vedere individui di ogni età, spesso accumunati dalla decadenza dei corpi (che sa quasi di incipiente decomposizione), mentre rantolano dietro un pallone di cuoio in un sinistro scricchiolio di ossa anchilosate e di ginocchia corrose.
Lo spettacolo è solitamente disarmante e triste: mentre l’acido lattico corre a fiumi nel campo, gli spalti sono orrendamente vuoti. Le mogli e le fidanzate giustamente fanno volentieri a meno di vedere i propri uomini regredire ad uno stadio infantile e trascinarsi sconciamente e pericolosamente verso l’infarto.
A parte i più giovani e più capaci, scaricati solitamente nella grande azienda dall’agenzia di lavoro interinale e subito cooptati dai colleghi anziani con promesse tanto vaghe quanto vane, nessuno è infatti in grado di resistere per i canonici 90 minuti. Osservare il campo durante l’ultimo quarto d’ora è come guardare ventidue pensionati che passeggiano ai giardinetti: mancano solo le panchine, le badanti rumene ed il mangime per i piccioni. I deambulatori in compenso ci sono: aspettano pazientemente negli spogliatoi. Nessuno è in grado di correre e sollevare le ginocchia diventa uno sforzo per cui i tacchetti delle scarpe arano letteralmente il terreno.
Con il susseguirsi delle partite il numero delle vittime aumenta fantozzianamente. Da notare che la grande azienda dimostra ancora una volta la propria affezione ai suoi martiri concedendo loro permessi e cambi turno che normalmente non vengono elargiti neanche in caso di morte del genitore.
Al termine della competizione le carcasse tumefatte si dedicheranno a cameratesche cene durante le quali rievocheranno le gesta atletiche: solitamente finisce sempre con una rissa sedata da un paio di energumeni usciti dalla cucina del ristorante armati di coltelli da macellaio.