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Qualcuno, le sue colleghe in particolare, avevano facilmente indovinato la ragione di quello spesso strato di cipria che copriva sempre i suoi zigomi alti, che le davano, assieme al taglio leggermente orientale degli occhi, quello sguardo da gatta, così affascinante e misterioso. Certo, perché spesso, troppo spesso, quel biancore lunare non riusciva a coprire completamente qualche alone bluastro, attorno all'occhio o sulle belle guance piene. Lo sapevano tutti in ufficio che il marito, Ivan Ivanovic, un operaio di una fabbrica di alimentari, la picchiava con preoccupante liberalità. Da giovane era stato forse un bell'uomo, ma gli ettolitri di vodka che il suo fegato gonfio avevano filtrato in qualche decennio di metodiche e ingovernabili ubriacature, lo avevano rese un grasso e bolso omaccio dalle mani immense e pesantissime. Lo vedevano di rado, ma invariabilmente verso fine mese, quando Lijuba ritirava lo stipendio, se lo trovavano davanti, sul largo marciapiede coperto di ghiaccio d'inverno e di fango in primavera, di fronte all'ufficio, che guardava in basso con gli occhi torvi e fissi davanti a sé.
La prendeva sottobraccio con una sorta di violenza inespressa ma evidente e se ne andavano con passo svelto, quasi con impazienza, verso la stazione della Majakovskaija, dove scomparivano attraverso le porte sgangherate da cui uscivano i grandi sbuffi bianchi della condensa provocata dall'incontro tra l'aria calda dell'interno ed il gelo invernale. Ivan era ubriaco fin da mattino, con un crescendo regolare che lo portava ad una sorta di furia violenta verso sera quando Lijuba rientrava dal lavoro. In generale, la picchiava senza ragione e con meticolosità, forse per abitudine, forse per sfogare le sue insoddisfazioni represse, senza motivare il suo comportamento con mancanze presunte o desideri non realizzati. La lasciava livida e dolorante nel letto e sprofondava nel suo torpore malato, dopo l'ultima bottiglia di Stolychnaija fino al giorno dopo. Quando si svegliava andava al lavoro, dove veniva sopportato senza problemi in una condizione di limbo sovietico dove non poteva far danni, condizione comune a diversi altri soggetti in quella economia anomala. Lijuba si era già alzata e dopo aver steso con cura cipria e creme sui lividi del viso che aveva comunque cercato di tenere riparato, usciva senza far rumore, affrettandosi verso la fermata con la borsina tra le mani, sempre pronta, caso mai in qualche negozio fosse arrivata qualche tipo di merce purchessia, per cui mettersi in coda. Una volta non si era presentata al lavoro, ma aveva fatto telefonare dall'ospedale, dove era stata ricoverata un giorno.
Aveva la clavicola rotta, ma disse che era caduta dalle scale e fino a che tenne il gesso, sembrava persino meno triste e non le si notarono altri lividi per un po'. Le rimase la spalla un po' storta, che si massaggiava sempre quando cambiava il tempo, ma senza lamentarsi. Poi un lunedì, giornata sempre un po' critica negli uffici all'epoca, in cui la ripresa del lavoro, dopo le bisbocce del fine settimana, era sempre un po' approssimativa, arrivò con un piglio decisamente diverso. Sembrava davvero più serena ed allegra, parlava con tutti con una certa affettazione e quasi con affanno. Era gennaio e il gelo dava alla città una immagine di cristallo delicata e immobile. Raccontò che l'ambulanza, che al mattino del sabato girava per la città alla ricerca di ubriachi che non trovavano più la strada di casa, aveva raccolto Ivan in fondo ad un vicolo, dove c'era una stalovaija maleodorante in cui spesso amava passare il pomeriggio. Stava là steso a terra con la dublijonka aperta, stroncato da un colpo apoplettico, riverso con la grande pancia che gli copriva il braccio sinistro storto in maniera innaturale. La domenica gli fecero un rapido funerale alla fabbrica, a cui non andarono neppure i vicini di casa. Da quel giorno, i colleghi dell'ufficio, trovarono che la sua pelle, dal momento che non usava più cipria era sorprendentemente liscia e giovane e che Lijuba aveva davvero un bellissimo sorriso.
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