La storia di Renatino De Pedis, boss della Magliana, e della sua sepoltura nella chiesa di Sant’Apollinare

Creato il 14 maggio 2012 da Stenazzi

La tomba in cui è stato sepolto Enrico De Pedis, detto Renatino, sta per essere aperta. Si sveletà qualche segreto? Difficile. Vale però la pena di ricordare la storia del boss della banda della Magliana e di come finì sepolto nella basilica dei benefattori della chiesa.

Tra i tanti misteri intorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, di cui non si sa più nulla dal giugno 1983, c’è anche uno strano giallo che riguarda uno dei capi della banda della Magliana, Enrico De Pedis, detto Renatino. Che è misteriosamente sepolto nella chiesa di Sant’Apollinare, a Roma. Strano? Molto di più. Perché a Sant’Apollinare sono sepolti solo papi e grandi benefattori della Chiesa. Che ci fa un bandito, spietato e violento, lì in mezzo? Ecco la sua storia e una possibile spiegazione.

Il giorno del suo matrimonio Enrico De Pedis, detto Renatino, decise dove avrebbe voluto essere sepolto. Guardandosi intorno, nella basilica di Sant’Apollinare, a Roma, l’uomo che ora viene indicato da una testimone come uno degli autori del sequestro di Emanuela Orlandi disse alla ragazza che stava diventando sua moglie, Carla Di Giovanni: «Quando mi toccherà, vorrei essere sepolto qui». Dal 24 aprile 1990, Enrico De Pedis riposa a Sant’Apollinare dentro un sarcofago di marmo bianco e argento con incisa la scritta “Enrico De Pedis”.
Sulla sinistra, incastonato con zaffiri, il suo nome “di battaglia”: Renato. De Pedis è l’unico a essere stato tumulato lì negli ultimi 100 anni. Ed è circondato da gente molto importante: autorevolissimi principi della Chiesa. Anche Renatino era molto importante. Un bandito molto importante. Insieme ai suoi soci, “er negro”, “l’operaietto”, “er vesuviano”, “er pantera”, “crispino”, diede vita a una delle più crudeli, efficienti e potenti organizzazioni criminali della storia italiana: hanno rapito, trafficato, ucciso, ricattato. Si dicevano: «Roma è nelle nostre mani». Non era solo Roma. Quando il 2 febbraio 1990 Enrico De Pedis venne freddato da due colpi di pistola, lasciò una montagna di denaro contante, negozi, garage, locali storici come il Jackie’O, imprese edili e immobiliari. Un impero costruito senza un solo giorno di lavoro onesto. Renatino lasciò la moglie Carla, e un’amante, Sabrina Minardi, che per pochi mesi, nel 1978, era stata consorte del calciatore Bruno Giordano. È stata Sabrina a raccontare ai magistrati di Enrico De Pedis: «Vivevamo come ne Il padrino, mi faceva mille regali: valigie Louis Vuitton piene di banconote da 100 mila lire». Sabrina Minardi ha parlato a lungo con gli inquirenti del ruolo che Renatino e gli altri della Magliana avrebbero avuto nella scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta a Roma il 23 giugno 1983. «La rapirono per fare un favore a monsignor Marcinkus». Marcinkus, il capo dello Ior, l’Istituto delle opere religiose, la Banca vaticana. Un uomo potentissimo: lo chiamavano il “banchiere di Dio”. Sabrina Minardi racconta tante cose: che Emanuela fu tenuta nei sotterranei che si snodano sotto una casa di via Pignatelli, a Roma. A fare da carceriera sarebbe stata Daniela Mobili, negli anni Ottanta molto amica di Danilo Abbrucciati, “er camaleonte”, uno dei capi della banda. Daniela Mobili abita ancora a Roma: al suo telefono risponde la figlia. Ci dice: «Lasciate in pace mia mamma, è molto malata. In questa storia non c’entra niente. Ha un alibi di ferro: nel periodo in cui sparì Emanuela Orlandi non c’era. Era in carcere». È vero: Daniela Mobili era detenuta per traffico di stupefacenti. Non è la sola incongruenza nel racconto della Minardi. Però, i sotterranei sotto la casa di via Pignatelli ci sono davvero. C’è un’intera città sotterranea. E la polizia, durante i sopralluoghi, ha anche trovato un bagno.

Chi l’ha fatto costruire? A chi serviva? Carla, la vedova di De Pedis, sbotta con chi la interroga: «lasciatemi in pace, sono cose di vent’anni fa».
A raccontare agli italiani che un pericoloso bandito era sepolto in mezzo a illustri e stimati personaggi fu nel 1996 il sindacato di polizia. L’aveva scoperto, rimanendo di stucco, la Dia, Direzione investigativa antimafia che indagava sulla banda della Magliana. Ma perché Renatino è sepolto lì? Il boss fu ucciso il 2 febbraio 1990. Quattro giorni dopo venne sepolto al cimitero del Verano, area 73, in un loculo di proprietà della famiglia.
Il 23 marzo la vedova presentò alla direzione dei servizi funebri comunali la domanda di “estumulazione” dal Verano. Un mese dopo, Enrico De Pedis venne tumulato nella cripta di Sant’Apollinare. Decise così l’arcivescovo vicario di Roma, Ugo Poletti, che firmò una dichiarazione impegnativa: “Si attesta che il signor De Pedis è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica e ha aiutato concretamente tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi”. Si era forse pentito Renatino, prima di morire? No, per niente. Quando venne freddato, era stabilmente in attività. Comandava ancora sulla banda. E anzi, venne ucciso proprio perché aveva deciso di distribuire in modo diverso i soldi all’interno dell’organizzazione. Alcuni suoi complici chiamarono due killer dalla Toscana e lo freddarono.
Don Pietro Vergari, rettore della basilica, ordinò: “Il lavoro di sepoltura verrà fatto da artigiani e operai specializzati in questosettore che già hanno lavorato per la tumulazione degli ultimi Sommi Pontefici in Vaticano. Sarà questa l’occasione per risanare uno degli ambienti dei sotterranei, già luogo di sepoltura dei parrocchiani, da moltissimi anni lasciati in completo abbandono”.
Gli uomini che si occuparono di seppellire De Pedis furono gli stessi che avevano sepolto Paolo VI e Giovanni Paolo I. La tumulazione venne accompagnata da ampi lavori di ristrutturazione pagati dalla famiglia di De Pedis. Renatino prima e la sua famiglia dopo elargirono quindi molti soldi alla basilica di Sant’Apollinare.

Bastò questo a garantirgli l’onore della sepoltura? O ci sono altri motivi? C’entra davvero Emanuela Orlandi in tutta questa storia? Ha detto Giulio Andreotti: «Per Sant’Apollinare, Enrico DePedis fu un benefattore. Non per gli altri».


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