Giuseppe Casarrubea: una lezione a Portella, 23 settembre 2011
Qualcuno, da quando è stata riesumata la salma del bandito Salvatore Giuliano (28 ottobre 2010), ha manifestato segni di insofferenza per un inesistente spreco di denaro che l’azione dei giudici avrebbe provocato. Non sappiamo quanto possa costare l’esame di un Dna, ma certamente, se questo serve ad accertare la verità e a rendere giustizia a centinaia di famiglie, nonostante il tempo decorso, i soldi spesi sono sacrosanti e benedetti. Anzi, preannunciamo che i familiari delle vittime faranno richiesta di nominare un perito legale in loro rappresentanza, nel caso i giudici dovessero decidere la riesumazione del corpo della madre del bandito. L’unico atto che potrà dare certezza matematica all’identità del cadavere giacente da sessant’anni nella tomba di famiglia Giuliano di Montelepre.
Di mezzo non c’è solo un bandito morto, ma decine di stragi, da Portella della Ginestra (1947) a Bellolampo (1949), centinaia di carabinieri uccisi, per lo più ragazzi del Nord venuti in Sicilia per dare il loro contributo alla lotta contro la mafia e la criminalità, centinaia di civili uccisi, perché ritenuti spie o, semplicemente, ostili a Giuliano. Un capo, questi, a suo modo militare, trasformato dalla stampa in Robin Hood o in un fanatico benefattore dell’umanità derelitta. Fu invece uno spietato e sanguinario criminale politico. Un terrorista nero ante litteram.
Tanto importante per il potere costituito che tra i misteri che hanno investito, dopo morto, il “re di Montelepre”, ce ne sono almeno tre curiosi. Il primo è la sparizione del calco in gesso che ebbero a fare sul volto del cadavere del presunto Giuliano, nella sala dell’obitorio di Castelvetrano, il perito legale e i tecnici che lo coadiuvarono (1950).
- L’Europeo giugno 2001, 013
Il calco fu preparato per il Museo criminale di Roma e da qui, pare, il prezioso oggetto è sparito unitamente alla cintura dei pantaloni che riportava l’emblema del bandito. Il secondo è la sparizione del registro delle firme nella cappella gentilizia dei Giuliano, avvenuta qualche anno fa; il terzo, la sparizione del fascicolo contenente l’autopsia effettuata dal perito medico-legale Ideale Del Carpio. Lo stesso medico che ha fatto l’analisi dei resti di Peppino Impastato dopo che Tano Badalamenti ebbe a farlo saltare in aria, fingendo un suicidio, sui binari della stazione di Cinisi. Tutti e tre gli episodi hanno a che fare con l’identità di Giuliano o con qualche soggetto interessato a impedire che tale identità fosse in qualche modo provata.
Quella della identità del bandito monteleprino è una vicenda che si collega ad altri misteri che riguardano sempre i componenti della banda Giuliano.
Riportiamo, di seguito, le sedute del processo intentato dal generale dell’Arma, in pensione, Roberto Giallombardo contro chi scrive. Il primo, all’epoca dei fatti, era capitano e guidava la caserma di Alcamo. Nel corso dei Mille di questa città del trapanese, la notte tra il 26 e il 27 giugno 1947, i carabinieri, stando a un rapporto ufficiale datato 1° luglio 1947, aprivano un conflitto a fuoco con la squadra di Salvatore Ferreri, alias ‘Fra Diavolo, membro autorevole della banda. Cioè di una formazione neofascista che aveva rapporti organici con varie autorità italiane e straniere, e che, sul modello delle bande antititine della Yugoslavia degli anni 1941-1943, era dipendente dalle stesse forze dell’ordine (vedi, ad esempio, la banda Collotti nel Nord-est della penisola).
Le testimonianze degli storici e delle autorità intervenute a favore della difesa, e le stesse dichiarazioni della parte offesa, rese in tribunale nell’anno 2004, costituiscono un contributo notevole alla comprensione di questo mistero e chiudono definitivamente un capitolo oscuro della storia della Sicilia e dell’Italia. Vale, perciò, la pena riportarle.
Giuseppe Casarrubea