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La strage di Brescia e l’ombra dei generali

Creato il 15 dicembre 2010 da Casarrubea

Il momento della strage

di

Erminia Borzì

La piazza degli impuniti

 

La strage di Brescia e l’ombra dei generali

Piazza della Loggia, Brescia

Il 16 novembre scorso, i giudici della Corte di Assise di Brescia non hanno accolto la richiesta di ergastolo, avanzata dai pm, contro i 5 imputati della strage di piazza della Loggia che sono stati assolti con formula dubitativa (art. 530 comma 2 del c.p.p., corrispondente alla vecchia formula dell’insufficienza di prove). Assolti il generale dei carabinieri, Francesco Delfino, all’epoca dei fatti capitano del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Brescia e l’esponente di Ordine Nuovo e collaboratore del Sid, Maurizio Tramonte. Assolti gli ex ordinovisti veneti Delfo Zorzi (attualmente residente in Giappone) e Carlo Maria Maggi. Assolto Pino Rauti, ex segretario del Msi e fondatore, nel 1959, del movimento di estrema destra, Ordine Nuovo, che, nel 1973, il ministro dell’Interno, Carlo Emilio Taviani, sciolse con l’accusa di ricostituzione del Partito fascista. Assolto Giovanni Maifredi, che, all’epoca dei fatti, collaborava con il ministero degli Interni. Il 19 maggio 2005, durante la terza indagine, la Corte di Cassazione ha confermato l’arresto di Delfo Zorzi per il coinvolgimento, accertato da prove, nella strage di piazza della Loggia. Il 15 maggio 2008, la lista degli indagati si era estesa a Pino Rauti, al generale Francesco Delfino e a Giovanni Maifredi. Questi ultimi due accusati di inquinamento delle prove sul luogo della strage. La prima udienza per la riapertura del processo è avvenuta il 25 novembre 2008.

Il 21 ottobre scorso, i pm hanno formulato l’accusa di concorso in strage per tutti gli imputati, ad eccezione di Pino Rauti, per il quale è stata chiesta l’assoluzione per insufficienza di prove. I pm hanno però ribadito il coinvolgimento morale e politico dell’ex segretario del Msi nella strage di Brescia. Il presidente dell’associazione parenti delle vittime della strage, Manlio Milani, vedovo di Livia Bottardi, una delle vittime, ha parlato di reticenze e falsità raccontate da chi avrebbe dovuto, durante il processo, chiarire e dire la verità sull’avvenimento. Milani ha aggiunto che i familiari delle vittime di stragi da sempre combattono con le istituzioni, le quali, invece di tutelarli, si giustificano affermando che non ci sono ancora i regolamenti applicativi che scioglierebbero il segreto di Stato, pur essendo stata approvata la legge da 4 anni! La verità, conclude Milani, è che non c’è il coraggio di affrontare quegli anni, gli anni della strategia della tensione. Solidale con Manlio Milani il sindaco, Adriano Paroli, si è definito costernato dalla decisione dei giudici della Corte di Assise. Paroli ha dichiarato che la sua città rivive lo stesso sentimento di impotenza di 36 anni fa. Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, ha dichiarato che la sentenza è l’ennesimo insulto alle vittime, ai loro cari e a tutta la città. Tale sentenza, inoltre, rischia di soffocare il senso di Verità e Giustizia che da troppo tempo il nostro Paese invoca.

Gli anni di piombo- Lo scenario di piazza della Loggia

La strage di piazza della Loggia è maturata nel contesto della strategia della tensione. Tra la fine del 1971 e la primavera del 1972, erano avvenuti alcuni eventi che avevano lasciato intravedere un cambio di strategia delle strutture occulte: i servizi segreti, fino ad allora, avevano “previsto” un potenziamento dell’eversione di destra, con la realizzazione di attentati e tentativi golpisti. Dal 1972, […] la spinta “eversiva” di sinistra, proveniente dal movimento studentesco del 1968, fu assorbita e quindi era possibile “bruciare” una parte dei terroristi fascisti anche per dare risalto alle loro gesta e accreditare le tesi dei “doppi estremismi”. La decisione di “smobilitare” i gruppi neofascisti, però, non fu condivisa da alcuni settori dei servizi che puntavano a soluzioni più dure (Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica, 2009, p. 119). Non c’è dubbio che la strage di Brescia è stato un atto voluto per destabilizzare il Paese ma soprattutto le coscienze degli italiani che, nel decennio ’60/’70, puntavano al cambiamento politico, sociale ed economico. Il 1974 non è solamente l’anno della strage di piazza della Loggia. Nel maggio di quell’anno il referendum sul divorzio fu approvato dal 60% degli elettori. Questo avvenimento, per l’Italia di allora, ha rappresentato una grande rivoluzione di costume, che si è ripercossa drasticamente anche sulle scelte politiche del paese, che, una buona parte della dirigenza istituzionale, molto vicina alla Chiesa, non ha potuto e non ha voluto accettare. La sinistra aveva riportato un ottimo risultato già dalle elezioni del 6-7 maggio 1972 e continuava ad aumentare il suo consenso anche presso gli intellettuali, disgustati dal crescente potere del Msi, spalleggiato, in cambio di voti, dalla Dc. La bomba di piazza della Loggia, come scrive la Limiti, fu un messaggio alla Dc “per una svolta reazionaria promessa e tuttavia mai arrivata”. In questo contesto, c’è chi pensa ad una nuova alba per l’Italia, come Manlio e sua moglie Livia, c’è anche chi pensa che “bisogna che tutto cambi perché resti com’è” e progetta una Repubblica presidenziale come la Francia di De Gaulle oppure uno Stato molto più autoritario, un regime come quello di Pinochet, dove siano i militari a fare la parte del leone! La Commissione stragi, guidata dall’avvocato Pellegrino, ha affermato che in Italia ci sono stati 4 tentativi certi di golpe. Il primo, dell’estate del 1964, è detto Piano Solo, perché affidato esclusivamente all’Arma. I carabinieri, in caso di un’avanzata del “pericolo comunista”, avrebbero dovuto occupare televisioni, telefoni e ferrovie, arrestare e deportare in Sardegna uomini politici di sinistra, giornalisti, sindacalisti ed alcuni sacerdoti, accuratamente segnalati dal Sifar, il servizio segreto italiano di allora. Il Piano Solo non scattò mai. Arrivò un ordine dall’alto a bloccarlo, ma gli alti vertici dell’organizzazione si attivarono immediatamente, quando, nel luglio 1960, lo statista Aldo Moro dichiarò di voler costituire il primo governo di centro-sinistra, che vedeva l’accordo politico tra la Dc e il Psi di Pietro Nenni. Proprio a causa di questo possibile “disastro” per la democrazia italiana, Pietro Nenni profferì la famosa frase: “Sento rumore di sciabole!”. Il 21 maggio 1967, i giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Iannuzzi titolarono su L’Espresso: Nottetempo casa per casa. Estate ’64, le rivelazioni di due generali. L’intrigo di Stato (sullo sfondo il volto del Comandante Generale Giovanni De Lorenzo, capo del Sifar dal 1955 al 1962). A seguito di questi due articoli, vi furono alcune inchieste della magistratura e anche all’interno dell’Arma dei Carabinieri, guidata dal Generale Giorgio Manes. Questi muore, colpito da infarto, dopo aver bevuto un caffè, nell’anticamera del magistrato che doveva sentirlo in merito all’inchiesta Piano Solo. La crisi del Sifar, ha rafforzato il “Noto Servizio”, a cui fa capo anche Gladio.

Il Ministero dell’Interno era perfettamente a conoscenza dell’esistenza del “Noto Servizio”. […] Tra questo gruppo- che afferma di poter contare sull’appoggio di Andreotti- e i carabinieri la rottura è molto forte. Costoro hanno ventilato anche di sciogliere l’Arma e ridurla a compiti di polizia militare. Negli anni ’70, spiega la Limiti, c’era un notevole caos tra i vari organismi che si occupavano di intelligence [..], sicché Andreotti decise di creare una struttura “pilota” per porre fine a questo caos […]. Questa organizzazione di azione militare in chiave anticomunista e antidemocratica successivamente si è trasformata […] in un’organizzazione eversiva strutturata con una cinquantina di elementi fidati, […] mirata alla presa del potere attraverso l’uso della violenza. (S. Limiti, op. cit., pp. 25-26-27/29). Nel dicembre 1970, è avvenuto un altro tentativo di colpo di Stato, detto il golpe Borghese, dal nome dello “stratega”, Junio Valerio Borghese, ex capo della Decima Mas, che, dopo il 1943, aveva aderito alla Repubblica di Salò. Nei sotterranei del Viminale erano state nascoste delle armi per occupare le sedi centrali del governo italiano. 20 persone (tra le quali pare anche ci fosse il noto terrorista di ordine nero, Stefano Delle Chiaie), tra le 24:00 e le 6:00 dell’8 dicembre, si disposero attorno al Viminale e alle vie adiacenti. I golpisti di Borghese erano pronti anche in Toscana, in Piemonte, in Valtellina, a Venezia e a Milano (dove, un mese dopo, un gruppo di eversione nera, foraggiato da alcuni imprenditori lombardi, fu fermato dai carabinieri con le armi che, quella famosa notte, si trovavano nei sotterranei del Viminale). Junio Valerio Borghese aveva già pronto un proclama da leggere negli studi Rai, dopo il colpo di Stato: “Italiani! L’auspicata svolta politica, il tanto atteso colpo di Stato ha avuto luogo!”. Anche il “sogno del Principe” è naufragato prima ancora di iniziare: l’ordine è arrivato dall’Anello. Adalberto Titta, capo di questa organizzazione occulta fino al 1981, aveva fatto intendere al capitano dei carabinieri, Federigo Mannucci Benincasa, che esisteva un insieme di poche persone che avevano reso servigi allo Stato Italiano, le quali, poi, erano state scaricate (S. Limiti, op. cit., pp. 25-26). Junio Valerio Borghese faceva parte di queste persone? Il processo contro il golpe Borghese si è concluso nel 1984, con la dichiarazione che si trattò di “un tentativo da operetta da parte di un gruppo ristretto di uomini di mezza età”. Nella primavera del 1973, si è esaurito il tentativo del colpo di Stato da parte dell’organizzazione parastatale del colonnello dell’esercito Amos Spiazzi, che sarebbe diventato famoso anche per aver permesso la fuga di Kappler dal Celio, nell’agosto del 1977. Nel gennaio 1974, i giornali italiani titolano: Confermati i legami tra ufficiali dell’esercito e la Rosa dei Venti. Il Colonnello Amos Spiazzi, ufficiale golpista lavorava per il Sid a Padova. Spiazzi era nell’ufficio informazioni, che riferisce ai comandi le opinioni politiche su tutti gli altri militari. Continuano gli interrogatori a ritmo serrato. La libertà provvisoria per uno dei primi arrestati. La Rosa dei Venti è una organizzazione legata anche al Mar dell’ingegner Carlo Fumagalli (nome di battaglia, Jordan), fondata nel 1962, a La Fenice di Giancarlo Rognoni, ad Ordine Nuovo, al Sid ed anche alla Cia. Anche l’organizzazione di Spiazzi è conosciuta dalle istituzioni e finanziata da alcuni gruppi industriali italiani. A differenza del golpe Borghese, quello di Spiazzi non viene completamente neutralizzato, bensì “reinvestito” per atti terroristici perpetuati fino al 1974. Il generale Siro Rosseti ex partigiano ed ex dirigente del Sios, tra gli appartenenti alla Rosa dei Venti, il 5 dicembre 1974, ha dichiarato al giudice istruttore Giovanni Tamburino, titolare dell’indagine su questa organizzazione: […] non si è trattato di un vertice ma semmai di un anello che deve immancabilmente portare ad altro. […] L’organizzazione è tale e talmente vasta da avere capacità operative nel campo politico, militare, delle finanze, dell’alta delinquenza organizzata, ecc. (Giuseppe De Lutiis, prefazione in S. Limiti, op. cit., pp.15/19).

Per ordini arrivati dall’alto, l’inchiesta Tamburino venne trasferita a Roma, dove confluì nel processo a carico di Junio Valerio Borghese, concluso in Cassazione con una generale assoluzione. Anche il conte Edgardo Sogno dei Rata del Vallino, nell’agosto del 1974, ex partigiano liberale, ideologo delle fondazioni partigiane franche, tentò un colpo di Stato, detto il Golpe Bianco, su cui ha svolto un’inchiesta a Torino il giudice istruttore Luciano Violante. Anche questo processo fu spostato a Roma, insieme a quello contro Borghese e Spiazzi, per concludersi sempre con una generale assoluzione, “perché il fatto non sussiste”. In definitiva, secondo la sentenza di Appello e Cassazione, il tentativo di sovvertire l’ordine democratico da parte del conte Sogno Rata è stata una fantasia, anche se è lo stesso golpista “liberale” ad ammettere l’esistenza di un tentativo di golpe in un libro di memorie, uscito post-mortem. A riprova di quanto affermato fino ad ora, lo storico De Lutiis, in una intervista rilasciata a Blu Notte, il programma televisivo di Carlo Lucarelli, ha dichiarato che “l’atmosfera di quegli anni, estremamente tesa, aveva favorito i tentativi di golpe. Tali tentativi non hanno avuto esito positivo perché costituivano delle minacce di tipo politico per intimidire la sinistra ed indebolire il Psi di Nenni, che, nel 1964, partecipava al governo.

Negli anni ’70, i gruppi terroristici sono stati resi ancora più forti a causa della rivoluzione giovanile nelle sedi industriali e universitarie e lo spostamento nettamente a sinistra dell’elettorato. E’ chiaro che i golpisti non sono riusciti nel loro intento perché chi li ha finanzia li ha anche neutralizzati. E’ altrettanto chiaro che i Servizi Segreti hanno avuto la parte del leone in questi anni con metodi non proprio ortodossi e servendosi dell’estrema destra come manovalanza”. Tra questi spicca anche Gladio (Silendo libertatem servo, Tacendo salvo la libertà), struttura paramilitare segreta, operativa soprattutto nella parte nord-orientale dell’Italia. La sua esistenza è stata svelata nel 1990 dal sen. Giulio Andreotti. Un giornale nazionale, all’epoca delle dichiarazioni del senatore a vita, titolava: Servizi segreti, sequestri politici e terroristici. Adreotti: Questa è la Verità!. Gladio fa parte di una struttura internazionale più grande, lo Stay Behind, nato durante la Guerra Fredda: 622 uomini che, in caso di invasione sovietica, avrebbero dovuto intervenire sotto le direttive della Nato. Per spiegare questo tipo di organizzazione, De Lutiis e la Limiti hanno utilizzato la teoria del “doppio Stato”: da una parte una realtà governativa legale, che attua le leggi regolarmente, dall’altra, una struttura parallela di tipo occulto, che seguendo ordini provenienti anche dai Servizi Segreti e dall’America, ha operato e propiziato stragi, azioni terroristiche ed altre attività illegali, tra le quali alcuni noti sequestri, spesso attribuiti alle BR.

Su Gladio convergono i “corpi sani” della Nazione: l’élite dell’esercito, dei carabinieri e dei paracadutisti, per cambiare l’Italia, anche con le bombe se necessario! Lo scenario che viene illustrato oggi dagli storici come De Lutiis, è stato discusso pubblicamente nel 1965, l’anno dopo il Piano Solo, nel convegno di Parco dei Principi a Roma, organizzato dall’Istituto Luigi Pollio per gli affari strategici, ideato dallo Stato Maggiore della Difesa e finanziato dal Sifar. Vi hanno partecipato ufficiali superiori delle forze armate, alti magistrati, dirigenti politici e docenti universitari, giornalisti come Guido Giannettini e militanti dell’estrema destra come Pino Rauti, fondatore del Centro Studi Ordine Nuovo (nato dalla scissione con il Msi di Giorgio Almirante e riannesso nel 1969, dopo la strage di piazza Fontana). Pino Rauti è stato uno dei relatori del convegno; il suo intervento si intitolava: ”La guerra sovversiva e rivoluzionaria”. Rauti, in quegli anni, sosteneva che esistesse qualcosa che stava affiancando gradualmente la normale attività politica, che fosse in atto un tentativo di spossessare la politica da parte di forze non sempre chiaramente individuabili ma visibili in determinate manifestazioni esterne. Le formazioni di estrema destra alle quali faceva riferimento Rauti erano quelle nate a seguito della “caduta” del suo gruppo politico: Avanguardia Nazionale, fondata, nel 1960, da Stefano Delle Chiaie e Ordine Nuovo. Pino Rauti ha smentito anche in sede giudiziaria che il suo gruppo volesse “ridurre” l’Italia come la Grecia, anche se egli stesso guardava con simpatia all’azione militare dei Colonnelli. Evidentemente, l’on. Pino Rauti ignorava o faceva finta di ignorare gli atti di violenza, gli stupri, gli arresti con torture indescrivibili perpetuati sui civili (studenti, docenti universitari, giornalisti, uomini di sinistra, intellettuali ecc.) durante l’occupazione militare in Grecia! L’onorevole Rauti definiva le azioni militari del Colonnelli: “Atti di coraggio e di valore! Un’azione mirata per un tentativo di ammodernamento tecnico in un paese che aveva bisogno di ordine e rigore”. C’è da chiedersi, dunque, quale sia stato per Rauti e i suoi epigoni l’ideale politico che potesse cambiare le sorti del nostro Paese: l’olio di ricino, le manganellate oppure quello più moderno delle bombe?! In questo clima di cellule eversive impazzite, in un corpo, quello dell’Italia, ormai in avanzato stato di metastasi, dove avvenivano stragi a ripetizione, il terrorista nero, Vincenzo Vinciguerra, in una intervista rilasciata al programma Rai “La notte della Repubblica”, dichiarò che la strage dei carabinieri a Peteano doveva essere un segnale perché venisse meno la strumentalizzazione del mondo neofascista da parte dei suoi dirigenti. Questi non potevano continuare a frequentare gli Stati Maggiori dell’esercito, come al Parco dei Principi, e contemporaneamente proclamare la guerra al sistema e farsi eredi della Germania nazionalsocialista. Lucia Calzari, in seguito, balzata alla cronaca perché sopravvissuta alla strage di piazza della Loggia, ignara di tutti questi intrighi: golpe, organizzazioni paramilitari segrete, Stati paralleli all’interno della stessa istituzione, ha dichiarato: In quel periodo, Noi giovani eravamo nel pieno delle nostre energie vitali, delle nostre capacità mentali. Ci sentivamo quasi immortali, onnipotenti ed era una sensazione eccezionale sentirsi realizzati, cioè, essendoci guadagnati gli studi, la laurea, il posto di lavoro, la sicurezza economica, una situazione affettiva, che , in quel momento ci sembrava più che soddisfacente. E’ bastato un attimo perché tutto questo fosse spazzato via… via da una bomba! -

I fatti – “Ore 10:12, carneficina in piazza della Loggia”

Il 28 maggio 1974, a Brescia, il Comitato unitario permanente antifascista ha indetto una manifestazione contro la violenza di estrema destra. Il programma della manifestazione è molto intenso: ore 9:00, raduno dei partecipanti in piazza della Repubblica, in piazza Garibaldi e a Porta Trento; ore 9:30, partenza del corteo dei manifestanti fino a piazza della Loggia; ore 10:00, comizio pubblico dell’onorevole del Pci, Adelio Terraroli, del sindacalista della Cisl, Franco Castrezzati e del segretario della camera del lavoro di Brescia, Gianni Panella. Alle 8 del mattino Manlio Milani e sua moglie Livia si preparano per recarsi alla manifestazione. Manlio è un operaio e Lidia insegna lettere e fa parte del sindacato della  Cgil scuola di Brescia. Manlio ha raccontato così quel giorno di 36 anni fa: “Quella mattina del 28 maggio, sul pianerottolo del palazzo in cui vivevamo, Livia ed io abbiamo incontrato una nostra vicina di casa, che ha notato i nostri sorrisi e ci ha domandato perché fossimo così allegri. Io le ho risposto che quel giorno andavamo incontro alla vita!”. Anche gli amici di Manlio e Livia, Alberto e Clementina Trebeschi, quel giorno, si svegliarono presto per essere puntuali alla manifestazione in piazza della Loggia. Alberto era un insegnante di fisica e la moglie insegnava Lettere; avevano un bambino, Giorgio. Anche la sorella gemella di Clementina, Lucia Calzari, quel giorno è uscita di fretta per andare all’appuntamento con gli amici e Clementina in piazza.

La mattina del 28 maggio, Luigi Pinto non è andato a Siviano di Montisola, dove insegnava applicazioni tecniche, perché voleva essere presente alla manifestazione. Salutò la moglie Ada ed uscì di casa in fretta alle 8:30. Anche Giulia Banzi è uscita di casa alle 8:30 con la sua Renault 5 per andare alla manifestazione. Insegnava francese in un liceo a Brescia ed era, come la sua amica Livia, molto impegnata nel sindacato scuola. Giulia quella mattina ha salutato i figli, Beatrice e Alfredo, il marito Luigi Bazoli, assessore all’urbanistica del Comune di Brescia, che l’avrebbe raggiunta più tardi, dopo aver concluso una telefonata di lavoro. Giulia era di Avanguardia Operaia e Luigi della DC, ma questo non importava perché la partecipazione alla manifestazione era sentita come un dovere morale da tutti coloro che credevano nella libertà di opinione e nella non violenza, perché erano successe cose inimmaginabili nella pacifica cittadina lombarda. Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, ricorda che il clima di allora nella sua città era di microconflittualità quasi quotidiana: aggressioni ad esponenti del PCI; attentati alle sedi dei sindacati; intimidazioni a esponenti della cultura locale e conflittualità generata dall’autunno caldo e dalle lotte studentesche. Inoltre, la posizione di alcuni imprenditori era anacronistica, perché alimentava queste tensioni non accettando il dialogo con i sindacati. Gli imprenditori di allora, infatti, pensavano a soluzioni autoritarie, rievocando i fatti del luglio 1960 a Reggio Emilia, dove polizia e carabinieri avevano carta bianca contro i manifestanti. Nel 1974, anche Brescia subisce le conseguenze della strategia della tensione. Il 16 febbraio, scoppia una bomba alla COOP di Porta Venezia, rivendicata, attraverso un volantino, dalla Squadra di Azione Mussolini (SAM). L’8 marzo, vengono trovate due bombe nella chiesa delle Grazie. Il 23 aprile, esplode una bomba a mano nel cortile della sede del PSI di Largo Torrelunga. Il 1 maggio, nell’ingresso della CISL, viene rinvenuta una borsa di tela con dentro 8 candelotti di dinamite e 300 gr. di tritolo già innescati e pronti ad esplodere. Il 18 maggio, alle 3:00 del mattino, Silvio Ferrari, neofascista di 21 anni, esplode con la sua vespa in piazza del Mercato; sul pianale trasportava un pacco contenente una bomba di 1 kg di tritolo e nitrato di ammonio. Sotto la maglia di lana, Silvio aveva una pistola 7, 65 con proiettile in canna. Il boato della bomba di Silvio ha fatto tremare i vetri dei palazzi di Brescia fino all’ultimo piano. In piazza della Loggia, il palco per il comizio politico era già pronto dalle 8:00 ed era posizionato davanti al palazzo del Municipio. Quella mattina la piazza era piena zeppa di persone appartenenti ai sindacati ed ai movimenti antifascisti, vicini ai partiti del PCI e del PSI, ma c’erano anche i repubblicani e i democristiani. Alle 10:00, in piazza della Loggia, nella folla c’erano Manlio, Livia, Alberto, Clementina, Lucia, Giulia e Luigi Pinto. C’erano anche Vittorio Zambarda, pensionato, e Bartolo Talenti, che di mestiere faceva l’armaiolo . Sotto i portici, vicino ad un cestino in metallo dei rifiuti appoggiato ad una colonna della piazza, c’erano anche due giovani, che parlavano tra di loro. La signora Ennia Scremin ha udito perfettamente che uno domandava all’altro:”Hai pronta la bomba?”. La signora, pensando ad uno scherzo, non ha avvertito i carabinieri, che erano a pochi passi da lei, e che stranamente, quella mattina, erano stati posizionati sotto i portici della prefettura e non sotto quelli dell’orologio, dove c’era il cestino, dove c’erano i manifestanti e dove lei ha visto i due giovani. Il comizio è stato aperto dal Castrezzati. Chi ha l’ombrello si è posizionato al centro della piazza, chi non ce l’ha si è riparato sotto i portici, come Alberto, Clementina, Lucia e Giulia. Anche Luigi Pinto si è messo sotto i portici e da le spalle al cestino portarifiuti. Alle 10:12, si ripara sotto il loggiato della piazza anche il signor Euplo Natali, ex partigiano. Manlio e Livia dall’interno della piazza si sono spostati verso i portici perché hanno intravisto i loro amici tra la folla. Livia si gira verso il marito, perché non lo sente più vicino a lei; infatti, Manlio è stato trattenuto da un conoscente nel mezzo della piazza. Lo sguardo di Livia si incrocia con quello di Manlio per un’ultima volta. D’improvviso un boato, mentre sta ancora parlando Castrezzati. Nel cielo si vede un’ombra nera volare fin sopra le tettoie dei portici: era Alberto, che come un missile è schizzato in alto per poi ricadere a terra, come una bambola rotta. Nel cestino i due giovani avevano posizionato 7 etti di polvere di mina a base di nitrato di ammonio e poi, prima dello scoppio, si erano dileguati tra la folla senza lasciare traccia. I sopravvissuti alla strage ricordano il lampo accecante dell’esplosione, seguito da un colpo secco, come se si fosse trattato di un colpo di fucile. In quel momento il marito di Clementina, Luigi Bazoli, che era nei pressi di piazza della Loggia, sentendo il boato, ha pensato al rombo di un aereo o al tuono di un temporale perché stava piovendo molto. Ha continuato a camminare in fretta, pensando di essere in ritardo, chiedendosi se, in quella folla, avrebbe potuto trovare subito la sua Clementina, che intanto era stata sbattuta a terra dalla bomba in posizione prona. Livia e Giulia sono state lanciate lontano, come da una fionda invisibile; Lucia, sopravvissuta alla tragedia, ricorda che prima di cadere a terra ha pensato che potesse essere stata una bomba. Per lei questo istante si è dilatato nella memoria, come se si fosse trattato di un momento lunghissimo e non di 3 o 4 secondi. Caduta a terra, Lucia avvertì un senso di oppressione e, guardando verso i suoi piedi, vide su di sé aveva addosso molti corpi. Un braccio con un brandello di giubbino si era andato ad incastrare sotto la sua testa; era quello del compagno di partito Bontempi. Vide altri arti intorno a lei e poi svenne. Probabilmente i resti erano anche quelli di Vittorio, Bartolo e Euplo, dilaniati dalla bomba. Bartolo ha anche il viso sfigurato, mentre gli altri due hanno almeno i visi riconoscibili. Luigi Pinto ha una miriade di schegge conficcate nella schiena e giace anche lui a terra, privo di sensi. La gente, come birilli centrati da una palla lanciata veloce, si è mossa impazzita, sbattendo a destra e a sinistra. Dal microfono del palco Castrezzati urla:”Una bomba!”. “Aiuto! Assassini! Fascisti!”, si sente dalla folla. “Fermi tutti, compagni!”, dice Castrezzati dal microfono, “calma, state fermi! State all’interno della piazza! Il servizio d’ordine faccia cordone intorno ai manifestanti”. Dalla piazza si levano gemiti e grida. C’è gente coperta di sangue che striscia a terra e si guarda il corpo per vedere se ha ferite lievi o gravi, se le mancano arti. Manlio l’ha capito che si è trattato di una bomba e cerca disperatamente Livia e la trova a terra, a pochi passi da lui, che si lamenta e ha uno squarcio dalla gola all’addome che trabocca di sangue. “Compagni!”, si sente ancora Castrezzati dal palco, “aprite un varco per far passare le ambulanze… fate spazio ai soccorritori! Lasciate posto alla Croce Bianca! Alcuni vengano sotto il palco mentre gli altri si dirigano verso piazza della Vittoria!”. Lucia, nel frattempo ha ripreso conoscenza e qualcuno le accarezza la faccia e dice ad alta voce:”Questa qui è l’unica viva!”, così Lucia capisce che Clementina, Alberto e gli altri sono morti… . A morire sul colpo sono anche il signor Euplo, Bartolo e, probabilmente, non si sono neanche accorti di ciò che è accaduto, mentre Giulia, Alberto, Livia, Vittorio e Luigi Pinto, forse, hanno capito. Giulia ha il corpo dilaniato, ma il viso è riconoscibile. Livia, insieme a Vittorio e Luigi Pinto, viene portata in terapia intensiva, gli altri sono tutti diretti all’obitorio. Manlio è arrivato all’ospedale, spingendosi tra i parenti e gli amici delle vittime e dei feriti; chiede ad un’infermiera e gli dice:”Signor Milani, sua moglie non ce l’ha fatta. E’ morta poco fa!”. “Mi faccia la cortesia”, le dice Manlio, “le pulisca il viso, che è tutto sporco…”. In provincia di Foggia, intanto, un ragazzo di 17 anni sta correndo verso un’abitazione poco distante dalla sua: “Lorenzo, Lorenzo, la pioggia, la bomba!”. Lorenzo Pinto si affaccia all’uscio di casa e non capisce subito cosa il suo amico vuole dirgli, perché ancora non sa che Luigi, suo fratello, è grave in ospedale, senza più un polmone e la colonna vertebrale massacrata dalle schegge. Da lì a poco i genitori di Luigi sono avvertiti e partono di corsa per Brescia. “Io”, ricorda Lorenzo, “ho raggiunto mio fratello solo il giorno dopo. In ospedale mi hanno dovuto dare dei sedativi. Nella tragedia, però, mio fratello è stato fortunato, perché è stato uno dei pochi che non è stato raccolto a pezzi dentro buste nere dell’immondizia”. Luigi Pinto ha resistito quasi una settimana ed è morto il 1 giugno 1974, alle 21:00, circondato dall’affetto dei suoi cari, lasciando sua moglie Ada, dopo appena 8 mesi di matrimonio. Anche Vittorio Zambarda non è morto subito ma dopo tre settimane, il 15 giugno. Tre settimane di una lunga e lenta agonia… . 8 morti e 102 feriti, di cui 97 non gravi. Per non grave si intende: la perdita dell’udito a causa della deflagrazione; gli attacchi di labirintite e lo choc, che ha accompagnato i sopravvissuti per tutta la vita. I testimoni, che si trovavano in piazza della Loggia quel giorno hanno descritto ai microfoni dei telegiornali di allora come un’esplosione potente, come se si fosse voluto far crollare tutti i palazzi intorno alla piazza. Sono crollati cornicioni, sono espose vetrine e dei manifestanti sono stati sbalzati all’interno dei negozi come proiettili umani. Ammassi di carne fatta a pezzi era ammucchiata sotto i loggiati della piazza e forte era l’odore di sangue e carne bruciata.

Il giorno dei funerali

Il 31 maggio 1974, le 6 bare allineate in piazza della Loggia erano sommerse da corone di fiori. Fiori sul selciato, lungo i portici e sulle colonne. Il loro profumo si mischiava all’odore di morte, ancora presente nella piazza e alle lacrime dei 600.000 presenti, che da tutta Italia, da Trapani a Bolzano, erano giunti a Brescia per salutare Giulia Banzi Bazoli, di anni 31; Livia Bottardi Milani, di anni 32; Alberto Trabeschi e la moglie Clementina Calzari, di anni 37 e 31; Euplo Natali, di anni 69 e Bartolo Talenti, di anni 59. Beatrice Bazoli, figlia di Giulia, ricorda il suo stupore, credendo che la sua mamma conoscesse tutte quelle persone. “Ero troppo piccola per rendermi conto del significato nazionale di quella tragedia, che non aveva investito solo la mia famiglia bensì tutta Italia”. Lungo tutto il corteo funebre non un poliziotto né un carabiniere. I sindacati chiesero al prefetto di gestire loro l’ordine pubblico con 6.000 operai al posto delle forze dell’ordine, che quel maledetto 28 maggio non avevano ispezionato, controllato e fermato possibili persone sospette. Presenziarono ai funerali delle 6 vittime della strage di Brescia anche molti rappresentanti del governo, tra i quali Andreotti, Nilde Iotti, Fanfani, Berlinguer, il presidente del Consiglio, Mariano Rumor e il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che venne fischiato dalla folla. “Via! Via! Via! Torna a Roma! Vergogna!!”, urlava la folla inferocita tra i fischi. Manlio, mentre Leone si sta avvicinando alla bara della sua Livia, non sa come comportarsi. “Cosa faccio?!”, ha pensato, “gli stringo la mano o gli do un pugno, perché non è stato capace di muovere il paese verso un’ottica più democratica e perché ha accettato i voti determinanti del MSI, dando il via libera agli squadristi!”. Mentre Manlio è intento a pensare tutte queste cose, lo precede Luigi Bazoli, il marito di Giulia, il quale afferra per il bavero Leone gridando:”Basta Leone! Basta!! Non possiamo più permettere che simili atti debbano ripetersi. La democrazia deve impedire che questo riaccada!!”. Luigi Pinto, dopo il funerale ufficiale a Brescia, viene riportato a Foggia dalla famiglia, dove lo aspettano silenziose 400.000 persone. Lorenzo, che oggi è vice-presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Brescia, ha affermato che, nonostante siano passati 36 anni, prova fatica a ricordare il viaggio di ritorno del fratello a Foggia: “Continuavo a guardare la bara, incredulo che al suo interno ci fosse veramente mio fratello Gino! Pensavo all’ultima volta che l’avevo visto, con i suoi occhi grandi, che ti facevano stare subito bene…”.

Trentasei anni dopo

(video)

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-Le indagini- Strage: uccisione violenta di un gran numero di persone. Numero disastroso di decessi avvenuto simultaneamente e nella stessa azione (artt. 285/422 del c. p. p.)

Le indagini furono suddivise in tre fasi e fu subito evidente il coinvolgimento del terrorismo nero nella strage di piazza della Loggia. Nella prima inchiesta, a coordinare le indagini fu il sostituto procuratore di Brescia, Francesco Trovato, e il giudice istruttore, Domenico Vino. Appena due ore dopo la strage, intorno alle 12:00, il giudice Trovato si trovava in piazza della Loggia. I carabinieri e la polizia avevano fatto sgomberare il luogo della strage e qualche funzionario aveva incredibilmente già dato ordine ai vigili del fuoco di lavare con le autopompe la piazza prima dell’arrivo della Procura, eliminando brandelli di corpi, sangue, tracce di esplosivo e qualsiasi indizio utile per la risoluzione del caso. La motivazione del vicequestore Agnello Diamare fu che la vista dei brandelli dei corpi e del sangue avrebbe potuto rinnovare nei cittadini ulteriore orrore e sgomento. A causa dell’ordine del Diamare, gli inquirenti non hanno mai potuto stabilire con certezza (neanche nella perizia depositata due anni dopo) la “natura” dell’ordigno e il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, che si è occupato della seconda inchiesta sulla strage di Brescia, ha parlato di interrogativi inquietanti sulla fretta di quella sconcertante operazione di pulizia. Inoltre, dall’Istituto di Medicina Legale di Brescia scomparvero i reperti prelevati dai cadaveri e dai feriti, anche questi necessari per le indagini Pare che un funzionario del Ministero dell’Interno, probabilmente lo stesso Giovanni Maifredi, abbia chiamato il direttore dell’ospedale di Brescia, per farsi consegnare i reperti e gli indizi. Una foto dell’epoca, scattata poche ore dopo l’attentato, segnalava la presenza in piazza della Loggia di uno degli indagati, di Maurizio Tramonte. Secondo gli inquirenti questa fotografia, esaminata dai periti è attendibile al 92%. Si tratta di episodi tutt’altro che marginali rimasti oscuri sino ad oggi. Secondo Andrea Ricci, avvocato di parte civile per la strage di piazza della Loggia, durante tutto il corso delle indagini non si è mai appurato da chi veramente sia partito l’ordine perché c’è stato un sistematico palleggiarsi delle responsabilità da parte della polizia e delle istituzioni. L’unica cosa certa è che, a poche ore dalla strage, erano presenti tutti i comandanti dell’ordine pubblico e nessuno ha fatto controllare persone sospette e ogni settore della piazza! Nell’immediatezza dei fatti, lasciando intatta la scena del crimine, sarebbe stato possibile ricostruire la dinamica della strage, cosa che non è potuta avvenire. A questo punto c’è da chiedersi se si sia trattato di indagini carenti per superficialità o per una precisa disposizione impartita alle forze dell’ordine. Ci sono poi alcuni avvertimenti ignorati dalla Questura e dalla Prefettura, come una lettera al Giornale di Brescia, recapitata il giorno dei funerali di Silvio Ferrari (una settimana prima della strage), mittente il Partito Nazionale Fascista, sezione Silvio Ferrari, lettera mai pubblicata perché il prefetto di Brescia lo aveva impedito. Per quale motivo? Un’altra lettera firmata da Ordine Nero venne recapitata al giornale Stampa bresciana il giorno prima della strage. La lettera portava questa minaccia: “State attenti, ci vendicheremo con le bombe!!”. Eppure, il 28 maggio 1974, non vi fu nessuna sorveglianza speciale, come invece avrebbe dovuto essere dopo simili minacce. Il vicequestore Amari e il tenente dei carabinieri Ferrari ispezionarono il palco alle 8:30, dando ordine ai militari in servizio di disporsi sotto il loggiato dell’Orologio, per poi spostarlo sotto il loggiato della Prefettura. I cestini che sono stati svuotati dai netturbini tra le 6:30 e le 7:00 non vengono più ispezionati. Perché? Il giornalista e scrittore Carlo Lucarelli ha fatto notare che quando si tratta di stragi gli errori, le disattenzioni e le sviste da parte degli organi investigativi sono normale routine. I giudici Trovato e Vino hanno escluso lo scoppio di una caldaia, come si ipotizzava, come si disse anche per la strage di piazza Fontana e come si è detto pure per la strage di Bologna. Gli inquirenti hanno escluso anche che si era trattato di gruppi di estrema sinistra proprio per l’obiettivo della strage: un comizio antifascista, organizzato dalla sinistra stessa. Fu anche scartata in partenza l’ipotesi di un gesto isolato di un folle con manie di protagonismo, come è stato detto dal questore di Brescia nel corso della conferenza stampa il giorno stesso della strage. Le indagini, quindi, furono da subito orientate sull’estremismo di destra e a supportarle fu il Capitano dei Carabinieri del Nucleo Investigativo, Francesco Delfino, detto lo Squalo, discusso personaggio della cronaca italiana. Lo scenario in cui è ambientata la strage di piazza della Loggia, ha dichiarato l’ex sindaco di Brescia, Paolo Corsini, scampato alla strage, è estremamente complesso perché a Brescia giocano fattori di lunga durata, elementi di continuità con tradizione di Salò, la permanenza, dopo la caduta del fascismo, di personaggi che ruotano intorno al MSI e alla destra radicale, molto presenti anche nei gruppi neofascisti, animati da ideali di violenza e morte! Durante la prima indagine, nel ‘76-‘77, gli inquirenti hanno ipotizzato anche il supporto dei Servizi Segreti deviati nei confronti degli esponenti di Ordine Nero, che hanno provocato l’attentato. Sconosciuti il mandante o i mandanti. Tale ipotesi è stata confermata mesi dopo la strage da un ex militante neofascista, Roberto Cavallaro, il quale, al giornale L’Europeo, il 17 ottobre 1974, rivelato l’esistenza di un’”organizzazione” parallela che esiste di per sé, ha una struttura legittima il cui scopo è di impedire turbative alle istituzioni. Quando queste turbative si diffondono nel paese (disordini, tensioni sindacali, violenze e così via) l’”organizzazione” si mette in moto per creare la possibilità di stabilire l’ordine. E’ successo questo: che se le turbative non si verificano, esse vengono create ad arte dall’”organizzazione” attraverso tutti quegli organismi di estrema destra (ma ce ne sono anche di estrema sinistra) ora sotto processo nel corso delle inchieste sulle cosiddette trame nere (Rosa dei Venti, Ordine Nero, La Fenice, il Mar di Fumagalli, i Giustizieri d’Italia e tanti altri). Parole pesanti come pietre, aggiunge la Limiti, che sembrano aprire uno spiraglio preoccupante su possibili connessioni tra quella “organizzazione”, come la chiama Cavallaro, e alcuni dei principali movimenti eversivi dell’epoca. Il tenente colonnello del SISMI, Amos Spiazzi ha confermato quanto detto dal Cavallaro, durante un interrogatorio avvenuto il 3 marzo 1975: L’organizzazione ha carattere di ufficialità, nel senso che è istituzionalizzata, pur con elasticità per quanto riguarda metodi e personale, di volta in volta definiti con disposizioni orali […]. E’ sempre stata un’organizzazione anticomunista (S. Limiti, op. cit., 2009, pp. 13-14). La figura del capitano Delfino nella strage di Brescia è molto controversa, perché è risultato subito strano agli inquirenti come mai non abbia fatto i dovuti collegamenti tra gravi fatti precedenti alla strage e la strage stessa. Nel marzo del 1973 (Primavera del 1973), i carabinieri del Capitano Delfino hanno arrestato due esponenti di Avanguardia Nazionale: Chimbo Romeo e Giorgio Spedini. Il primo, nel 1973, aveva partecipato all’attentato contro la Federazione provinciale del PSI; condannato a 3 anni, dopo 10 mesi è uscito in libertà provvisoria. Gli uomini di Delfino li hanno fermati in Val Camonica (uno dei canali più importanti di smistamento di armi verso Milano, Padova e Brescia), a bordo di una 128 con 8 Kg di plastico, 364 candelotti di tritolo e 5.000 di lire in contanti. Dov’erano diretti? Seguendo questa pista il Capitano Delfino giunse ad una officina di Segrate, gestita dall’ingegner Carlo Fumagalli, nome di battaglia Jordan, fondatore del MAR (Movimento di Azione Rivoluzionaria), nel 1962). “A partire dagli anni ’60”, ha dichiarato il giudice Giovanni Arcai, “Fumagalli è un nome che ha fatto tremare le Caserme e le Questure di Milano; latitante d’oro era comunque in stretto contatto con il generale Palumbo e con il commissario Calabresi. Fumagalli è stato protetto dall’Anello per i segreti che custodiva e per i suoi rapporti con l’alta borghesia lombarda […]. Secondo il giudice Arcai tutta l’organizzazione del MAR […] era stata sempre monitorata”. Successivamente Giovanni Maifredi ha veicolato l’inchiesta giudiziaria a Brescia, ambiente più “amichevole” per gli imputati, sottraendo al giudice Arcai l’indagine. “Tutta la regia dell’operazione fu del capitano Delfino, il quale, per far fuori il giudice Arcai dall’indagine contro Fumagalli, coinvolse il figlio del giudice, Andrea, all’epoca dei fatti studente liceale, perché conoscente di vista del neofascista Silvio Ferrari. “L’ufficiale non poteva non sapere che Jordan in realtà era Fumagalli”, ha detto il giudice Arcai, “i verbali di Delfino erano manipolati, perché è lui stesso, già nel 1972, a tampinare Carlo Fumagalli”. (S. Limiti, op. cit. 2009, p. 127). Andrea Arcai, oggi avvocato, ha dichiarato che c’era un evidente interesse da parte di qualcuno di allontanare suo padre dall’inchiesta sul MAR di Fumagalli e di far sì che questi fosse assolto in altra sede processuale. L’inchiesta di suo padre, infatti, era a buon punto: oltre alla “manovalanza”, il giudice Arcai era arrivato alle coperture politiche. Per intorbidare maggiormente le acque sulla strage di piazza della Loggia, fu tirato in causa Andrea, perché era insieme a Silvio Ferrari, la notte prima che morisse. Il 9 maggio 1974, a 20 giorni dalla strage, Fumagalli fu arrestato dai Carabinieri di Brescia, mentre stava trasportando, insieme al cofondatore del MAR, Gaetano Orlando, un carico di esplosivo, armi, tra cui un bazooka, documenti falsi, targhe false, uniformi militari e due tende cabina insonorizzate, utilizzate per nascondere le vittime di un sequestro. Mentre Brescia piange i suoi caduti, il 30 maggio, a Pian del Racino, in provincia di Rieti, alle 7:00, i carabinieri e la guardia forestale, comandati da un maresciallo del SID, circondano un campo paramilitare, dove vengono addestrati giovani di estrema destra, affiliati anche a Gladio. In quel blitz rimasero feriti due carabinieri, mentre Giancarlo Esposti, uno dei leader di Ordine Nero ed addestratore del gruppo, rimase ucciso in circostanze ancora oscure: fu freddato con un colpo dritto alla nuca. Gli estremisti arrestati dichiararono ai carabinieri che erano addestrati alla guerriglia armata e per uccidere. I giornali dell’epoca titolarono: All’indomani dall’eccidio di Brescia, un altro allarmante episodio rivelatore… . Scoperto all’Aquila un commando di attentatori. Un neofascista ucciso e due catturati./ In un campo paramilitare sui monti di Rieti, i fascisti sparano ai carabinieri. […] Dovevano compiere un attentato alla parata del 2 giugno. Due carabinieri gravemente feriti nel conflitto a fuoco con le SAM. Nonostante avesse una pista evidente, il capitano Delfino ha puntato su un’altra direzione, in particolare su un uomo di 35 anni, residente a Brescia, Ermanno Buzzi, che si fa chiamare il Conte di Blancherie. Ai carabinieri era noto come trafficante di oggetti d’antiquariato, come confidente e come omosessuale; paranoico, ipomaniaco, sulla mano aveva tatuato il simbolo delle SS e si dichiarava neofascista convinto. In realtà, Buzzi era un personaggio di secondo piano nell’ambiente dell’estrema destra, ma faceva al caso del capitano Delfino per portare a termine il “piano di protezione” in favore di Carlo Fumagalli, studiato dal gruppo di Titta, il “noto servizio”: Buzzi rappresentava una perfetta vittima da immolare sull’altare per allontanare la magistratura e l’attenzione dei media dal MAR e dalla sua attività. Fu lo stesso Buzzi a creare il pretesto al capitano Delfino, dichiarando di essere amico di Silvio Ferrari e di essere passato da piazza del Mercato poco dopo la deflagrazione della bomba che trasportava Ferrari sulla sua vespa. A rafforzare la tesi di Delfino è la denuncia contro Buzzi del signor Papa, padre di Angelo e Raffaele, due ragazzi bresciani. Il 31 maggio 1975, il padre dei due ragazzi dichiara ai carabinieri di Brescia che Buzzi è un uomo molto pericoloso e che ha corrotto i suoi figli, approfittando della loro ingenuità. Angelo Papa, in seguito indagato con Buzzi per la strage di Piazza della Loggia, aveva dichiarato al padre che Buzzi aveva compiuto la strage con 6 bombe. Dopo l’arresto di Ermanno Buzzi e di Angelo Papa, La Stampa, il 6 febbraio 1976, ha titolato: Si sta seguendo una nuova pista. Per la strage c’è un nuovo accusato, è un fascista quarantenne, amico di Fumagalli, già in carcere per furto di quadri. Non è stato ancora rivelato il nome dagli inquirenti. Convinto dal capitano Delfino, Angelo Papa accettò di parlare con i magistrati per raccontare la sua verità sulla strage di Brescia; prima accusa Buzzi, poi ritratta, poi ancora accusa Buzzi, per ritrattare di nuovo. Alla fine, Papa dichiarò ai magistrati che a mettere la bomba nel cestino sotto al loggiato della piazza, prima dell’inizio della manifestazione, era stato Ermanno Buzzi. Papa ha detto anche che quel giorno c’era pure lui in piazza della Loggia e che Buzzi, il giorno prima, gli aveva detto: “C’è una manifestazione antifascista e voglio fargli uno scherzetto!”. A confermare le parole di Angelo Papa, Ombretta Giacomazzi, amica di Silvio Ferrari. La Giacomazzi ha dichiarato agli inquirenti che Buzzi, subito dopo la strage, si era vantato anche con lei di aver messo la bomba in piazza della Loggia e di aver ammazzato “otto rossi maledetti”. I magistrati e il capitano Delfino, però, non hanno tenuto conto di un dato importante: quando Buzzi ha parlato con la Giacomazzi i morti erano ancora sei e non otto, perché Luigi Pinto e Vittorio Zambarda sono morti in seguito. La dichiarazione più importante contro Buzzi arrivò agli inquirenti dopo 12 ore di interrogatorio di Ugo Bonati, amico e “collega” di Ermanno Buzzi. Bonati ha ricostruito, secondo gli inquirenti, la verità sulla strage di Brescia. Secondo quanto dichiarato da Bonati, Buzzi preparò la bomba con alcuni candelotti di dinamite da lui visti a casa di Buzzi. La mattina della strage anche Bonati si trovava in un bar vicino a piazza della Loggia, insieme ai fratelli Papa, a Nando Ferrari, il fratello di Silvio, e ad altri 3 camerati, tra i quali Andrea Arcai, il figlio del magistrato che si è occupato dell’inchiesta Fumagalli. Intorno alle 8:00, quando il vicequestore Amari e il tenente Ferrari controllavano la piazza, Buzzi si è fermato alla fontana che sta vicino al cestino sotto al porticato dell’Orologio e da sotto la giacca ha tirato fuori un pacco avvolto da carta da imballaggio. Ha passato la bomba ad Angelo Papa, che l’ha fatta cadere nel cestino al segnale di Buzzi. Buzzi tornò in piazza della loggia alle 9:45 circa, per fare un ulteriore sopralluogo, mentre Bonati ha aspettato in macchina, sentendo il boato dopo 20 minuti circa, intorno alle 10:12. Le indagini dei giudici Trovato e Vino e del capitano Delfino si conclusero il 17 maggio 1977 con il rinvio a giudizio di Ermanno Buzzi e dei suoi accoliti. Il processo avvenne nella Corte di Assise di Brescia e si protrasse per 15 mesi con 178 udienze. Il 2 Luglio 1979 arrivò la sentenza: Ergastolo per Ermanno Buzzi; 10 anni e 6 mesi per Angelo Papa. Tutti gli altri imputati furono prosciolti, compreso il figlio del giudice Arcai. Il tribunale di Brescia liquida la strage dichiarando che l’attentato in piazza della Loggia è stato organizzato e compiuto da due balordi con simpatie neofasciste. Secondo Andrea Ricci già prima della sentenza, si aveva l’impressione che i giudici avessero deciso l’esito del processo. Il processo in Corte d’Assise ha mantenuto, sembra quasi volontariamente, la contraddizione delle indagini. Il processo di Appello cominciò nell’aprile del 1981 e per i parenti delle vittime della strage sembrò aprirsi la speranza perché finalmente i PM fecero notare le continue reticenze e le contraddizioni dei testimoni chiamati a deporre. Hanno fatto notare i metodi poco ortodossi e le incongruenze delle indagini del capitano Delfino sulla strage di Brescia e, in particolare, della dichiarazione resa da Angelo Papa ai magistrati, riguardo la possibilità di Buzzi di nascondersi in un vespasiano vicino a piazza della Loggia, che invece era stato rimosso 13 anni prima della strage! Bonati ha dichiarato nella prima indagine che Buzzi era tornato in piazza della Loggia per fare un sopralluogo ed azionare l’innesco della bomba con un telecomando, ma un innesco con telecomando sarebbe stato troppo artificioso per uno “sprovveduto” in materia come Buzzi. Bonati, processato a Brescia in un altro processo a suo carico, sparì prima di poter rilasciare un’altra testimonianza in Appello. Ancora oggi non è dato sapere come abbia fatto a scappare essendo sorvegliato a vista dai carabinieri. Non si è mai capito perché Bonati si sia allontanato volontariamente, essendo stato assolto nel processo che lo vedeva imputato. Nonostante le ricerche degli inquirenti e gli appelli televisivi di Manlio Milani (18-03-1980), Bonati non si è più trovato. Le domande che il presidente dell’Associazione familiari delle vittime di piazza della Loggia ha posto a Bonati, qualora fosse stato in ascolto sono state: Per conto di chi ha fatto quelle dichiarazioni ai giudici Trovato e Vino nella prima indagine sulla strage? Da chi è stato costretto a fare quella testimonianza? Secondo il giudice Arcai, Bonati incontrò in un aeroporto del sud Italia un uomo venuto da Milano, che gli avrebbe consegnato un passaporto falso e 1.000.000 di lire incontanti. Andrea Ricci a nome dei parenti delle vittime ha dichiarato che la testimonianza di Ugo Bonati sarebbe stata decisiva e avrebbe costituito una svolta per la strage di piazza della Loggia e ha concluso: “La ragione per la quale Bonati non si è trovato è proprio questa: rimanendo a Brescia, avrebbe avuto modo di dire la verità!” In attesa della sentenza d’Appello, l’11 aprile 1981, Ermanno Buzzi venne trasferito dal carcere di Brescia al carcere di Novara, dove si trovavano i personaggi più in vista del terrorismo nero. Buzzi aveva paura anche perché il suo arrivo era stato preceduto da un annuncio della rivista Quex, rivista semiclandestina dei detenuti politici di estrema destra, che l’aveva indicato come confidente dei carabinieri e, quindi, infame. Buzzi era consapevole di avere i giorni contati in quel carcere e che qualcuno dall’alto l’avesse spedito nel carcere di Novara per chiudergli definitivamente la bocca in vista del processo d’Appello. In un primo momento, Ermanno Buzzi rifiutò l’ora d’aria ma poi, stanco di rimanere in cella, il 13 aprile, decise di uscire e fu quella decisione a costargli cara la vita. In cortile c’era una bella giornata e, mentre i detenuti erano intenti a una partita di ping pong, Buzzi fu avvicinato da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. Il primo, fondatore del Fronte Nazionale Rivoluzionario, movimento di estrema destra che ha agito soprattutto in Toscana, è in carcere perché, nel 1975, ha ucciso due carabinieri e ferito un altro, quando i militari erano andati a casa sua con un mandato di arresto nell’ambito di un’inchiesta sull’estremismo di destra. Scappato in Francia, Tuti venne arrestato dalla gendarmeria e estradato in Italia. Concutelli è un importante esponente dell’estrema destra ed è uno dei fondatori di Ordine Nero, si trovava in carcere a seguito dell’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, avvenuto il 10 luglio 1976, al momento dell’arresto aveva dichiarato ai giornalisti: “Sono un soldato politico e quindi sono un prigioniero politico”. Tuti e Concutelli attirano Ermanno Buzzi in un angolo del cortile e, approfittando del chiasso dei detenuti e della “distrazione” delle guardie, con un laccio da scarpa lo strangolano. I giornali nazionali titolano: Esecuzione nera. Gli assassini Mario Tuti e Pierluigi Concutelli./In carcere a Novara strangolato Ermanno Buzzi, condannato all’ergastolo per la strage di Brescia./ E’ stata effettuata la perizia microscopica sulla salma di Ermanno Buzzi […]/ A Novara, nel braccio di massima sicurezza, Tuti e Concutelli ancora assassini. […] I due si sono poi presentati alle guardie carcerarie e hanno detto di avere eseguito una sentenza nazional rivoluzionaria. L’omicidio sotto gli occhi di un gruppo di terroristi neri./ Nello stesso super carcere di Novara, il 20 marzo scorso, “la notte dei lunghi coltelli” di Vallanzasca. Con l’uccisione di Buzzi sono 12 in due mesi, i detenuti giustiziati dentro le sbarre. I feroci assassini dei compagni di pena spesso si erogano ad esecutori per interposta persona […]/ Lo hanno strangolato. Concutelli lo teneva fermo mentre Tuti lo uccideva, coperti dalla confusione dei detenuti per una partita di ping pong. Dopo averlo ucciso, Tuti e Concutelli sfregiarono il viso di Buzzi, spingendo con i pollici gli occhi dentro le orbite. La motivazione ufficiale dell’omicidio, a detta dei due assassini, era che Buzzi doveva pagare per essere un confidente dei carabinieri, millantatore e un omosessuale. Il nome di chi ha realmente commissionato l’omicidio non è mai stato scoperto. Il 2 maggio 1982, dopo 193 ore di camera di consiglio (record della storia giudiziaria) la Corte ha assolto dall’accusa di strage Angelo Papa ed Ermanno Buzzi, perché “un cadavere da assolvere”. La sentenza di Appello ha confermato le assoluzioni di I grado, compresa quella di Andrea Arcai, che è stato assolto pure in Cassazione. Nel 1985, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di Corte di Appello, assolvendo definitivamente tutti. Per i giudici il fatto non sussiste ma, come ha detto l’ex sindaco di Brescia, Cesare Trebeschi, che nella strage ha perso il fratello Alberto e la cognata Clementina, quegli 8 morti e quei 102 feriti esistono eccome ed esistono anche le loro famiglie! Nel marzo del 1984, in seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, tra i quali Angelo Izzo e Sergio Calore, il sostituto procuratore Michele Besson e il giudice istruttore Giampaolo Zorzi hanno aperto il secondo filone di indagine sulla strage di piazza della Loggia, che ha portato all’arresto di alcuni esponenti nazionali della destra eversiva. Sergio Calore, romano, ex estremista di destra, è fondatore del gruppo Costruiamo l’azione, ha chiarito un nuovo aspetto agli inquirenti sulla strage di Brescia, mettendola in relazione con alcuni ambienti del neofascismo milanese. Il 6 ottobre 2010, un mese e dieci giorni prima della sentenza sull’ultimo processo della strage di Brescia, è stato sgozzato nella sua casa di Guidonia. Angelo Izzo, noto alle cronache come uno dei mostri del Circeo, disse di aver saputo che la strage l’avevano portata a termine i milanesi con l’aiuto di alcuni neofascisti bresciani, tra i quali Giancarlo Rognoni e Cesare Ferri, affiliato al MAR di Fumagalli. Ferri è un nome noto alla Procura di Brescia, perché compariva tra gli indagati della prima inchiesta: una sua fotografia era stata rinvenuta a Pian del Racino, tra gli oggetti personali del neofascista Giancarlo Esposti. I prete della parrocchia di Santa Maria in Calchera a Brescia aveva visto un a foto di Ferri sul giornale, dopo l’arresto del neofascista, e lo aveva riconosciuto in un uomo che, il 28 maggio 1974, tra le 8:30 e le 9:00, era passato sul sagrato della chiesa. Cesare Ferri ed Alessandro Stepanof, neofascista milanese del gruppo di Ferri, vengono rinviati a giudizio. Stepanof fu accusato di aver fornito un falso alibi a Ferri la mattina della strage, sostenendo che erano insieme per un esame universitario. Venne rinviato a giudizio anche Sergio Latini, direttore di Quex, perché avrebbe fatto a tramite tra Ferri, Tuti e Concutelli per eliminare Ermanno Buzzi. I giudici Besson e Zorzi, nel corso delle loro indagini, si sono imbattuti anche nel neofascista Gianni Guido, la Mente del massacro del Circeo. Guido è stato compagno di cella di Ermanno Buzzi a Brescia e, per avere uno sconto di pena, ha raccontato agli inquirenti di sapere la verità sulla strage di piazza della Loggia. “Sono stati i neofascisti bresciani del gruppo di Silvio Ferrari, insieme al MAR di Fumagalli”, avrebbe detto Buzzi a Guido, “e a coordinare la strage è stato Cesare Ferri”. Prima ancora che il giudice Zorzi potesse parlare con Gianni Guido, condannato a trent’anni per l’omicidio di Rosaria Lopez e il tentato omicidio di Donatella Colasanti, il mostro del Circeo è evaso dal carcere di San Gimignano, dove era detenuto, per rifugiarsi in Argentina. Quando Besson e Zorzi hanno ottenuto dalle autorità argentine il permesso di poter interrogare il detenuto Guido perché informato sui fatti della strage di Brescia, un telefax arrivato in Procura annunciò la seconda evasione del mostro del Circeo. “Un qualcosa che fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia”, ha scritto il giudice Zorzi negli atti istruttori, “in quanto si propone come riprova, se mai ve ne fosse bisogno dell’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo”. A questo proposito Andrea Ricci ha dichiarato: “Le indagini sui depistaggi riguardo piazza della Loggia potranno essere fatte ancora. Il problema più importante sarebbe stato conoscere l’autore materiale della strage di piazza della Loggia, cosa che non verrà mai fuori. Oggi, invece, è fondamentale sapere come sia stato possibile che apparati dello Stato abbiano partecipato ad allontanare la ricerca della Verità da quello che avrebbe dovuto essere accertato”. Nell’inchiesta si inserì anche Ivano Bongiovanni, un delinquente comune con simpatie neofasciste. “Il Siluro Bongiovanni” lo definì il giudice Zorzi: “Un siluro scientificamente programmato, allestito e poi sparato”. Bongiovanni ha soggiornato in diverse carceri italiane e si è proposto agli inquirenti come informatore. Ascolta i colloqui tra i detenuti neofascisti per riferirli poi ai titolari dell’indagine; fornisce alcune informazioni anche su Giancarlo Rognoni e Cesare Ferri,, finché, improvvisamente, ha un rigurgito di “coscienza”. Tutte le cose che ha detto contro i suoi camerati sono false, sono state dette da ladri neofascisti, che si definiscono pentiti soltanto per farsi belli con i giudici. Così tutto ciò che ha dichiarato Bongiovanni ai giudici Besson e Zorzi ha perso di credibilità, facendo crollare l’inchiesta. Il 25 maggio 1987, in I grado, gli imputati sono stati assolti per insufficienza di prove e, nel 1989, in Appello, prosciolti per non aver commesso il fatto. Lo stesso anno, la sentenza di Cassazione conferma quella di Appello e assolve gli imputati con formula piena. Tra la seconda e la terza inchiesta sono passati 15 anni. Il giudice Zorzi ha dichiarato che la Verità sulla strage di Brescia è a portata di mano, ma è come se fosse coperta da una velina opaca e translucida, che impedisce di portarla in superficie”. Come si fa a guardare dentro questa bolla? E’ cosa nota e comprovata che ci siano state delle connessioni tra settori delle istituzioni e il terrorismo stragista. A parlare chiaro sono state le condanne definitive per depistaggio di alti ufficiali dei carabinieri e dei Servizi Segreti: il Generale Gian Adelio Maletti e il Capitano Antonio Labruna, accusati di depistaggio per la strage di piazza Fontana (indagati anche per l’uccisione del giornalista Mino Pecorelli). Il Generale Dino Mingarelli e il Capitano Antonio Chirico, accusati di aver insabbiato indizi per la strage di Peteano. Il Generale piduista Pietro Musumeci e il Colonnello Giuseppe Belmonte per la strage di Bologna (già coinvolti nelle indagini sul rapimento Moro e, in seguito, in quello dell’on. Ciro Cirillo). Il giudice Zorzi, alla fine della sua istruttoria, chiusasi il 27 maggio 1993, ha dichiarato che “pur non essendoci state condanne certe sulla strage di piazza della Loggia, elementi di verità sulle responsabilità sono state acquisiti. E’ certo che ci sono le prove della attribuibilità della strage ad una determinata area politica; si è trattato di una strage nera! Ho dovuto firmare una sentenza di proscioglimento istruttorio che però non pregiudicherà l’eventuale ripresa delle indagini, dove nuovi elementi dovessero emergere. Elementi di verità sulle responsabilità sono state acquisite” I giudici Besson e Zorzi infatti, non hanno solamente cercato i responsabili ideologici e materiali della strage, bensì hanno cercato di delineare il contesto in cui essa è avvenuta, definendo concretamente l’aria politica da cui provenivano gli attentatori. Ciò non è comprensibile se non ci si immerge completamente negli anni di piombo, fatti di lotte politico-sociali, cambiamenti culturali tutt’altro che marginali e scontri violenti tra neri e rossi, dove i protagonisti sono i giovani, che cercano disperatamente di affermare le proprie idee e di far valere i propri diritti. La terza inchiesta è stata riaperta dai sostituti procuratori Roberto Martino e Francesco Piantoni, il 19 maggio 2005. L’inchiesta porta ad un’altra pista rispetto a quella battuta dal giudice istruttore Zorzi. Il giudice Giampaolo Zorzi aveva puntato direttamente al gruppo ordinovista veneto, coinvolto anche nelle indagini dei giudici di Milano sulla strage di piazza Fontana e sull’attentato alla questura di Milano, il giorno dell’anniversario della morte del commissario Calabresi (). Alla base della riapertura sul caso di piazza della Loggia, ci sono state le dichiarazioni del terrorista Carlo Digilio, esperto di esplosivi, personaggio di rilievo del gruppo ordinovista veneto negli anni della strategia della tensione e anche agente segreto della CIA con il nome in codice di Erodoto (lo stesso che aveva suo padre quando collaborava con la CIA durante la II guerra mondiale). Digilio, arrestato negli anni ’60 in Italia, era riuscito ad evadere ed a scappare in sud America con un passaporto falso. Catturato dai carabinieri nel 1992, durante un soggiorno clandestino in Italia e condannato a 10 anni con l’accusa di attività stragista, possesso di armi illegali e di esplosivo; Digilio, per avere ridotta la pena, ha accettato di collaborare con gli inquirenti, dicendo cose molto importanti sulle stragi di piazza Fontana e di Brescia. Importanti per i giudici Martino e Piantoni sono anche le dichiarazioni rese dal neofascista padovano e informatore del SID Maurizio Tramonte, nome in codice Tritone. I Giudici ritengono attendibili le sue dichiarazioni perché, nelle carte dei servizi, compare diverse volte “la fonte Tritone”. Secondo i due neofascisti, la strage di piazza della Loggia è stata organizzata e messa in atto dalla cellula ordinovista veneta che fa capo al medico Carlo Maria Maggi. Digilio ha dichiarato ai Giudici che il terrorista bresciano Delfo Zorzi ha fornito l’esplosivo per la strage, mentre Marcello Soffiati, esponente secondario del gruppo veneto di estrema destra, l’ ha trasportato a Milano. La fonte Erodoto ha dichiarato, inoltre, che, durante una sosta del viaggio di Soffiati, l’esplosivo è stato in casa sua in via Stella a Verona e che lui stesso ha provveduto a mettere in sicurezza l’ordigno. Soffiati si era rivolto proprio a Digilio perché non se la sentiva di fare la fine di Silvio Ferrari con un ordigno chiuso in una 24 ore, pronto a saltare da un momento all’altro. Digilio racconta che quando aprì la valigetta aveva esclamato:”Sei matto?!! Questa può esplodere da un momento all’altro! Buttala via subito!!” e che Soffiati sudava e tremava dalla paura:”Devo consegnarla intatta ai neofascisti di Giancarlo Esposti (quello ucciso dal maresciallo del SID A Pian del Racino)! Ho fatto il viaggio in treno sino a qua con questa porcata!!”. Allora Digilio, per metterla in sicurezza, ha sollevato il perno del quadrante con molta attenzione per evitare che gli esplodesse in faccia. La bomba era composta da 15 candelotti di dinamite con innesco formato da una pila di 4 Watt e una sveglia con il quadrante in plastica e le lancette rivolte verso l’alto per facilitare il contatto. A metterla nel cestino dei rifiuti sotto al porticato centrale di piazza della Loggia, secondo quanto detto da Tramonte, fu Giovanni Melioli, ordinovista di Rovigo. Digilio e Tramonte hanno nominato anche il neofascista veneto, collaboratore di giustizia, Martino Siciliano. Dopo queste dichiarazioni, ai magistrati Martino e Piantoni torna in mente la deposizione della signora Scremin, durante la prima indagine; collegano la foto del neofascista Tramonte ad una nota del SID del 6 luglio 1974, firmata proprio dalla fonte Tritone (Maurizio Tramonte), la quale diceva di aver partecipato, qualche giorno prima della strage, ad una cena, dove c’era anche Carlo Maria Maggi. A questa cena si è parlato della costituzione di un nuovo gruppo eversivo, Ordine Nero, in sostituzione del movimento di Rauti, Ordine Nuovo; della necessità di portare a termine una serie di stragi per ricattare lo Stato; si è parlato anche della strage di piazza della Loggia, che non doveva rimanere un attentato isolato. Maggi, Tramonte e gli altri decisero anche la rosa dei capi dell’organizzazione, tra i quali anche Pino Rauti. Le informazioni di Tramonte sono state raccolte dal maresciallo Fulvio Felli, agente del SID, nome in codice Luca. Il mar.llo Felli, i primi di luglio 1974, ha trasmesso le dichiarazioni dell’informatore Tritone al Ministero dell’Interno , che non trasmise mai queste notizie agli inquirenti della prima inchiesta. “Mi sono sempre chiesto”, ha detto il mar.llo Felli, “come mai tante informazioni riferite a Roma non sono mai arrivate alla magistratura che si è occupata della strage di piazza della Loggia”. Un’ipotesi forse è possibile farla: la presenza di Giovanni Maifredi al Ministero degli Interni. I giudici Martino e Piantoni, sulla base di tutti questi elementi, hanno chiesto il rinvio a giudizio per Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, come responsabili ideologici e materiali della strage di piazza della Loggia. In un secondo momento, sulla base di maggiori elementi raccolti, hanno aggiunto: Giovanni Maifredi, ex collaboratore del ministro Taviani, già incluso nelle prime indagini perché, come Giancarlo Esposti, “sedicente istruttore” di gruppi paramilitari; il generale Francesco Delfino e l’onorevole Pino Rauti; gli avvocati Gaetano Pecorella, difensore di Delfo Zorzi, e l’avvocato Fausto Maniaci. Questi ultimi due indagati avrebbero consegnato 115.000 dollari all’ex terrorista Martino Siciliano, perché invalidasse alcune dichiarazioni rese come collaboratore di giustizia. Siciliano infatti era stato chiamato a deporre dal giudice istruttore Zorzi. La nuova indagine del 2005 sulla strage di Brescia ha dimostrato come, in quegli anni, all’interno degli apparati di sicurezza dello Stato (carabinieri, esercito, polizia e magistratura) ci fosse una vera e propria guerra, in cui un tessuto importante all’interno delle istituzioni, che operava per un golpe, controllava, veicolava, inquinava e depistava “gli organi sani” del nostro Paese, come il giudice Giovanni Arcai. Anche se “gli organi malati” dello Stato non hanno provocato le stragi, non hanno fatto in modo di evitarle, stando ben attenti a calibrare le indagini, in modo che fossero sempre una spada di Damocle per i movimenti di sinistra piuttosto che per quelli opposti. La sentenza del 16 novembre scorso (che ricorda quella della strage di piazza Fontana, in cui i parenti delle vittime sono stati condannati a pagare le spese processuali) segna la parola fine alla ricerca della Verità e della Giustizia nel nostro paese Tra il 1969 e il 1974, in Italia, sono avvenute 110 stragi, ma forse qualcuna non è riconosciuta come tale. A distanza di 36 anni dalla strage di piazza della Loggia, non è chiaro l’obiettivo dell’attentato terroristico: le forze dell’ordine, che per un caso o per un ordine dato dall’alto, si erano spostate dal luogo della bomba al portico della Prefettura oppure la manifestazione organizzata dal Pci e dal Psi in un momento in cui l’avanzata delle sinistre era ormai un dato di fatto?

Accade che spesso, durante i processi, non si tenga conto delle prove indiziarie, del coinvolgimento degli organi investigativi in frange deviate dello Stato. Non si tiene conto dei depistaggi, delle mezze verità, delle prove indiziarie fatte sparire. Non si tiene conto della vergogna di lasciare a piede libero un terrorista come Delfo Zorzi (che con il giudice Gianpaolo Zorzi non ha nessun legame di parentela), il quale si è integrato così bene in Giappone da aver mutato il suo nome di battesimo in Hagen Roi. Non si tiene conto della drammatica assurdità di vedere, assolto per insufficienza di prove, un generale dei carabinieri, che essendo all’epoca dei fatti, Capitano del Nucleo Investigativo di Brescia, quelle prove le ha probabilmente inquinate e fatte sparire non si sa per conto di chi. Un ufficiale dei carabinieri che costringe due sospetti, come Angelo Papa e Ugo Bonati, a dare dichiarazioni false per coprire i Mar di Fumagalli. Un generale dei carabinieri che, oggi, beneficia di una splendida pensione come divisionista! Considerazioni analoghe andrebbero fatte per Giovanni Maifredi, sul quale non c’è mai stata nessuna interrogazione parlamentare.. Il procedimento penale sulla strage di piazza della Loggia è iniziato con una speranza ed è finito con una amara certezza per i parenti delle vittime. Come ha affermato Carlo Lucarelli nel suo programma televisivo, Blu Notte, “il tempo gioca a sfavore della risoluzione delle stragi, perché fa scomparire le tracce, i testimoni, gli investigatori ed anche gli imputati, come Marcello Soffiati e Giovanni Melioli”. Concorde con questa affermazione anche Andrea Ricci, che non ha mai creduto alla risoluzione definitiva per la strage di Brescia, “perché il tempo e la memoria allontanano dai fatti, perché molti testimoni diretti non ci sono più. Il tempo allontana l’emozione degli eventi e li rende eventi storici che perdono di valenza affettiva!”. Il dolore e l’indignazione resta solo ai familiari delle vittime che non elaborano mai il lutto, che non si rassegnano mai alla perdita dei propri cari. “Le stragi non possono essere dimenticate”, ha continuato Carlo Lucarelli, “non possono diventare fredde, perché sono fatti importanti per la nostra storia e per chi li ha vissuti direttamente, loro non le possono dimenticare. I familiari delle vittime della strage di Brescia si ricorderanno sempre di quel 28 maggio 1974 tutte le volte che passeranno da piazza della Loggia!” In Italia sarà mai possibile conoscere la Verità? Il nostro Paese sarà sempre condannato ad accontentarsi delle ipotesi e delle voci di corridoio? Gli italiani, considerati popolo bue da certe frange deviate, sbatteranno sempre contro un muro di gomma? Come automi, gli italiani continueranno ad essere mossi da fili invisibili tenuti da Chi controlla le nostre menti e le nostre coscienze, in un Paese arido come il nostro, dove a scavare non si trova né acqua né petrolio ma solo immondizia e cadaveri. -

I ricordi

Dopo la morte degli 8 compagni della Cgil, a Brescia sono state organizzate diverse manifestazioni, che continuano da 36 anni, ogni 28 maggio. Una grande manifestazione, a seguito dei funerali, fu organizzata da Avanguardia Operaia, gruppo del quale faceva parte anche Giulia Banzi Bazoli. Stasera G7 del 31 maggio 1974, trasmette l’intervistata della signora Trebeschi, madre di Alberto, una signora anziana e composta che dice parole pesanti come macigni. “E’ talmente grave ciò che è accaduto che ancora non riesco a realizzare la perdita di due figli. Sì perché mia nuora Clementina era come se fosse la mia figliola! Ho come l’impressione, guardando verso la porta d’ingresso di vederli spuntare con i loro sorrisi, che mi salutano…. .” Paolo Corsini era amico delle vittime, di Giulia, di Livia, di Alberto e di Clementina; ricorda gli ultimi istanti insieme ai suoi amici: “Un pensiero agghiacciante, che mi ritorna negli incubi notturni e nel ricordo personale di ogni giorno! Stavo parlando con Alberto Trabeschi, vicino a lui c’era Livia Bottardi Milani, c’era anche Giulia Banzi Bazoli e Luigi Pinto. Una nostra amica, la professoressa Giovanna Gitti, la sorella dell’ex vicepresidente della Camera, Ciso Gitti, mi ha chiamato e mi sono allontanato dal gruppo degli amici di circa 40 metri. Ho raggiunto Giovanna sotto uno dei lampioni della piazza e proprio in quel momento è avvenuta la deflagrazione!” “Ci sentivamo quasi immortali e onnipotenti!”, ha detto Lucia Calzari, sorella di Clementina e sopravvissuta alla strage di piazza della Loggia, “ed era una sensazione meravigliosa quella di aver raggiunto, dopo tante fatiche, un livello così alto, partendo da quello che eravamo: semplici studenti di provincia. Ci eravamo guadagnati la laurea, il posto di lavoro, la sicurezza economica. Avevamo raggiunto anche una sicurezza affettiva, che, in quel momento, ci sembrava più che soddisfacente e, in un colpo solo, tutto questo è stato spazzato via da una bomba”. “Il dolore offusca la realtà e la mente”, ha detto con amarezza Lorenzo Pinto, fratello di Luigi, “il dolore ti inaridisce, ti fa diventare cattivo! Io ho vissuto e vivo con un enorme senso di colpa solo per il fatto di essere vivo al posto di mio fratello Gino! Il fatto di continuare a vivere non me lo sono mai perdonato…”. Questo non è un pensiero che riguarda solo il signor Pinto, purtroppo, accompagna ogni giorno tutti i familiari delle vittime di stragi. Lorenzo Pinto ricorda un negozio nei pressi del luogo della strage, dove ha comprato due indumenti insieme al fratello Gino: uno rosso, che conserva ancora e uno blu, che aveva il fratello il 28 maggio 1974. “”Non voglio pensare alla morte di mio fratello, ma all’acquisto di quei capi di abbigliamento in una giornata di sole. Perché io piazza della Loggia la ricordo con il sole e non con la pioggia come quel 28 maggio 1974! Io non avrei voluto raccontare questa storia. Oggi, con mio fratello Gino avrei voluto bere un caffè, avrei voluto parlare con lui anche di cose banali”. Lucia Calzari ha dichiarato che lei riesce ancora a ricordare sua sorella Clementina, “quando la sera la saluto, io la vedo… è bellissimo! E’ un regalo della mia memoria che mi rende molto felice!” Beatrice Bazoli, sorella di Alfredo, ha detto che per anni non è riuscita a passare da piazza della Loggia. “Quando ho cominciato ad uscire da sola per Brescia facevo dei percorsi alternativi, allungando a volte anche di parecchio la strada per non passare da lì. Adesso mi sforzo di passare da piazza della Loggia e provo una sensazione che non riesco a spiegare… Per me è un posto spiacevole della mia città, legato a ricordi orribili, a situazioni e a cose che veramente lasciano un segno indelebile, cose che non sono superabili, anche a distanza di anni!”. Alfredo Bazoli, figlio di Giulia Banzi, ha dichiarato di non avere ricordi di sua madre, di non possedere niente di lei, perché era troppo piccolo, quando è morta, per ricordare. “Ho solo qualche flash di mia madre. Quell’evento lontano, che per me è sempre presente, mi ha portato via non solo l’affetto e gli insegnamenti di mia madre ma anche i ricordi. Io e mia sorella siamo stati selvaggiamente privati della persona e dei ricordi! Tutto quello che so di mia madre è stato ricostruito nella mia mente dai ricordi degli altri. Ricordo distintamente che quando ero piccolo cercavo di fissare nella mia mente la voce di mia madre Giulia, perché allora mi ricordavo la sua voce. Con il tempo, per paura di perdere il ricordo della sua voce, cercavo di associarla al suono della voce di qualche altra persona, che aveva una voce simile a quella di mia madre. Con gli anni il ricordo si è perso, l’inesorabilità della memoria… ed ho completamente cancellato la sua voce…. Per noi familiari la perdita di quelle 8 persone è stata una perdita inutile, perché siamo stati improvvisamente amputati di un affetto in maniera definitiva ed irrimediabile. Se si cerca, però, di dare una valenza pubblica a ciò che è successo allora credo che queste morti non siano state vane, perché Brescia ogni anno ricorda e tutti gli anni ribadisce l’importanza di quei valori che sono stati negati da quella strage”. Manlio Milani non è più andato al cimitero dal giorno dei funerali di sua moglie Livia. “Il cimitero è un luogo che non mi dice nulla, che non mi parla di mia moglie! Vado spesso in piazza della Loggia, in quel luogo della memoria, dove ho stretto tra le mie braccia per l’ultima volta la mia Livia… .In quel luogo io cerco un raccoglimento, di ritrovarmi solo con me stesso, dove misuro quel dopo senza Livia, quei pochi passi che mi distanziavano da mia moglie quel 28 maggio 1974. In piazza della Loggia rifletto su cosa ho fatto in questi anni senza mia moglie e su ciò che stiamo portando avanti come associazione familiari dei parenti delle vittime della strage di Brescia. Lì mi chiedo anche qual è la vita e che senso abbia e la misura della sua pienezza… . A noi familiari ci è mancata la certezza di un responsabile o di più responsabili per la strage di piazza della Loggia. Questa carenza da parte delle istituzioni nei nostri confronti ci impedisce di poter perdonare e di voltare pagina; anche se lo volessimo, non potremmo farlo, perché non sappiamo chi poter perdonare e, invece, credo che abbiamo il diritto sacrosanto e il bisogno di capire quei fatti per poter superarli e andare oltre. Per dare una speranza, noi che li abbiamo vissuti, alle generazioni future, che devono costruire la propria vita non sulle menzogne bensì sulla certezza e sulla credibilità delle istituzioni. Quando lo Stato riuscirà ad affrontare concretamente le proprie responsabilità, sapendo analizzare sino in fondo cosa è veramente successo quella mattina del 28 maggio 1974, allora noi tutti conosceremo la Verità giudiziaria, storica e politica della strage. Il nostro presente non ha giustizia perché deve capire ancora i suoi legami con il passato!” La morte per strage è la cosa più ingiusta, assurda ed orribile che si possa immaginare ed è anche una morte inutile se si considera la stupidità dell’atto terroristico, che è fondato esclusivamente sulla violenza pura.

Fonti: S. Limiti, L’Anello della Repubblica, 2009.

Carlo Lucarelli, trasmissione Tv “Blu Notte”,  Piazza della Loggia.


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