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La strage di noi tutti

Creato il 02 agosto 2011 da Nicola Mente

La strage di noi tuttiMi trovo qui, succinto e appiccicoso, in una notte d’agosto. Agosto è un mese strano, sembra che tutto all’improvviso rallenti, o addirittura si fermi. Durante questo mese molti di noi sono soliti vivere la realtà fuori dal suo martellante e ripetitivo contesto quotidiano.
Il mio primissimo e inconsapevole agosto raccontò, invece, una delle più grandi tragedie che la breve storia di questo paese ricordi. Una sciagura che dilaniò il sabato mattina di mezza estate, fatto di calma surreale o di entusiasta frenesia pre-partenza.
Il 2 agosto 1980, alle ore 10.25, un ordigno fa crollare un’intera ala della stazione centrale di Bologna, provocando un eccidio: 85 morti e 200 feriti.
Da quella mattina iniziò un tortuoso percorso giudiziario, pieno zeppo di ombre e depistaggi, che si concluse sommariamente condannando come responsabili del massacro Valerio Fioravanti, la sua compagna Francesca Mambro e l’allora diciassettenne Luigi Ciavardini, esponenti di spicco del nucleo terroristico di estrema destra dei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari).

Il processo, durato più di vent’anni, si concluse con la condanna definitiva dei tre come esecutori materiali della strage. Tuttavia, la travagliata vicenda giudiziaria, a 31 anni dalla sciagura, non è del tutto chiara.
I tre attivisti neofascisti furono accusati dalle dichiarazioni di Massimo Sparti, che fu uno dei teste chiave nel processo. Sparti era un individuo poco raccomandabile, un estremista neonazista con alcune devianze mentali, un personaggio violento, pregiudicato per alcune rapine e per qualche rissa, un balordo legato agli ambienti della Magliana, organizzazione fulcro della delinquenza romana tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80.
Sparti dichiarò che il 4 agosto 1980 venne contattato da Fioravanti, affinché potesse procurargli documenti falsi, in quanto il capo dei Nar e la sua compagna avevano paura che qualcuno avesse potuto riconoscerli sul teatro della tragedia.
Sulla base di queste dichiarazioni, sebbene fornite da un elemento tutt’altro che affidabile ( e che oltretutto non godeva neanche della fiducia dello stesso Fioravanti), la procura di Bologna si mosse con estrema decisione sulla pista dell’eversione nera.
Nonostante i due Nar dichiararono di essere estranei ai fatti, dimostrando di essere a Treviso durante quei giorni, ben presto divennero gli unici indiziati. Eppure Sparti venne smentito dal figlio Stefano: «Mio padre nella storia del processo di Bologna ha sempre mentito. Si è contraddetto più volte. Ha sempre affermato di essere a Roma per ricevere richiesta di documenti falsi da parte di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro. In realtà eravamo tutti a Cura di Vetralla, vicino Viterbo, nella casa di campagna pronti a partire per le vacanze, nei giorni precedenti, nei giorni successivi e nel giorno stesso della strage». Poco importa che Sparti venne scarcerato nel maggio 1982 su richiesta dei sanitari del penitenziario di Pisa per un presunto tumore al pancreas in stadio avanzato: una situazione clinica talmente compromessa che permise a Sparti di vivere per altri venti anni. Nel 2007, nella stessa intervista al Gr1 dalla quale emrsero le dichiarazioni sovracitate, il figlio Stefano tentò di spiegare anche questa faccenda: «Mio padre  si è sempre vantato, di fronte a noi, con altre persone, di avere le lastre di un’altra persona, relative a una malattia che in realtà lui non aveva, cioè il tumore. Un’altra cosa a cui aveva fatto più volte riferimento è che aveva trovato una via per riuscire ad avere in carcere anfetamine così da simulare il dimagrimento da tumore».

La strage di noi tutti
Quegli anni erano anni di violenza barbara, nelle strade, davanti alle sezioni di partito. Giovani di sinistra e di destra erano i principali protagonisti di uno scempio quotidiano di vite umane.
All’indomani della strage, la sete di giustizia dell’Italia perbenista era insaziabile: bisognava trovare al più presto un colpevole, un mandante, meglio se fosse stato un appartenente alla destra, secondo le diaboliche logiche dell’antifascismo militante. L’antifascismo cieco e assetato, l’antifascismo d’approssimazione. Poco importava se l’attentato (per la modalità dello svolgimento) non ricalcava la strategia omicida dei Nar, autori di efferate uccisioni, tutte segnate però da una logica mirata, seppur discutibile.
Poco importava che Fioravanti e la Mambro si fossero dichiarati colpevoli di decine di delitti, arrivando addirittura ad autoaccusarsi anche di omicidi per i quali non entravano neppure nei registri degli indagati.
È difficile pensare come un uomo che ha ucciso barbaramente decine e decine di persone, che ha collezionato svariati ergastoli alle spalle, si batta così energicamente per dichiarare la propria innocenza riguardo ai fatti di Bologna.

Parallelamente all’inchiesta sui Nar emersero però vari e inquietanti scenari. Il più tenebroso contemplava una pista palestinese, secondo la quale si riscontrò che la notte tra l’1 e il 2 agosto del 1980 due terroristi tedeschi confluiti nell’Olp da poco tempo, Thomas Kram e Margot Frohlich,  pernottarono rispettivamente all’Hotel Centrale e al Jolly Hotel di Bologna. Questa allarmante quanto clamorosa coincidenza pare essere confermata da atti di polizia.
Cominciò ad emergere quindi l’ipotesi della rottura di un patto segretamente stipulato dal governo italiano, guidato da Aldo Moro, e l’Olp di Arafat nel 1973. Questo accordo permetteva ai militanti palestinesi di transitare liberamente sul territorio italiano, in cambio di una garanzia di “incolumità” italiana nelle strategie eversive dell’Olp. Il patto sarebbe saltato definitivamente il 13 novembre 1979, in seguito all’arresto del militante palestinese Abu Anzeh Saleh, arrestato proprio a Bologna mentre trasportava due lanciamissili Stela diretti in Libano, accompagnato da due esponenti dell’Autonomia Romana.

Questa pista, appoggiata dalla Commissione Mitrokhin, fu però inspiegabilmente trascurata, nonostante avesse preoccupanti riscontri, come l’effettivo pernottamento dei due terroristi tedeschi quella notte a Bologna.
Furono esaminate sommariamente anche le posizioni del terrorista internazionale Carlos (pseudonimo di Ilich Ramírez Sánchez), leader dell’organizzazione Separat, che combatteva per la liberazione palestinese.
L’Italia in quegli anni era il fulcro di una strategia politica a scala mondiale: oltre ad essere l’ultima “potenza” del Patto Atlantico prima della cortina di ferro, rappresentava un Paese strategico, in quanto il Pci era allora il partito comunista più forte d’occidente.
Questo rendeva lo scontro tra i due poli – da una parte gli Stati Uniti e dall’altra l’Unione Sovietica – sempre più aspro.

Emergono dunque agghiaccianti restroscena, secondo i quali i servizi segreti italiani, spalleggiati dalla Cia e dalle forze anticomuniste come la loggia massonica P2, si resero autori di stragi non rivendicate, tra le quali anche quella di Bologna, secondo la folle lucidità della cosiddetta strategia della tensione, che prevedeva di destabilizzare l’opinione pubblica e diminuire i consensi verso la sinistra riformista. La stessa sinistra riformista che nel frattempo aveva visto nascere vari nuclei eversivi extraparlamentari di stampo comunista che, appoggiati dei sovietici, contemplavano la lotta armata come unico mezzo possibile sulla via della rivoluzione.

La strage di Bologna è dunque strage di Stato, proprio perché voluta e organizzata da organi statali e parastatali che passarono come un rullo su 85 vite per “regolare” gli equilibri del potere.

La strage di noi tutti
Un quadro molto complesso, un nodo ancora irrisolto. Molti, ancora oggi, a distanza di anni, chiamano quel massacro “una strage fascista“. In realtà questa è una nomenclatura non corretta, o quanto meno impropria. I Nar furono il più classico dei capri espiatori. E dentro questo nido di bocche affamate, non è da escludere neanche la stessa associazione delle vittime, che nella sua parte più “squisitamente” politica ha sempre spinto più per una soluzione rapida, piuttosto che per una reale ricerca della verità. La verità omessa, la verità non ascoltata, la verità che gioca a nascondino tra parole a denti stretti e numeri ricorrenti. «Andai a trovare mio padre tre giorni prima della sua morte -spiega Stefano Sparti- Quando gli chiesi come mai si fosse infilato in quella situazione mi disse “mi dispiace ma non potevo fare altrimenti”». Dichiarazioni pesanti come il piombo, chiuse nel baule per ventisette anni. Perché? Perché «sebbene io stia pensando di andare dai magistrati (maggio 2007, ndr) non credo che questo possa cambiare la situazione, perché ho visto come sono state trattate le tre persone che hanno sempre detto la verità: mia madre, mia nonna e la tata. Non sono mai state credute».

È per questo che è importante non dimenticare. Non dimenticare che noi siamo figli di decenni di guerra civile a bassa intensità, di preoccupanti ingerenze tra politica e malaffare, i cui effetti devastanti si sono abbattuti sulla nostra società, sul nostro zoppicante senso di democrazia di cartapesta.
Occorre riflettere sulla nostra costante tendenza a creare un nemico a destra o a sinistra, in logiche che viaggiano su percorsi orizzontali e senza alcuna profondità, senza mai alzare gli occhi e capire che sulle nostre teste non ci sono colori né posizioni, ma solo fili che regolano poteri e anti-poteri in un gioco ributtante e infetto.

In questi giorni stiamo vivendo il massacro norvegese come uno squarcio terribile nelle nostre civilissime coscienze dal sapore d’Europa. Eppure, trentuno anni fa, Utoya eravamo noi. Diverso il movente (non si sa fino a che punto), diverse le modalità, diverso il metodo di gestione, diverso il contesto. Identico senso d’impotenza, nel cercare (senza troppa convinzione) un senso umano per spiegare la tragedia. Per digerirla. Per cercare una via d’uscita dal labirinto. Una via d’uscita che non c’è. Una fitta nebbia che non si alza, come in quelle mattine d’autunno in pianura padana. Dunque, annaspando nella fosca impotenza, non ci resta che ricordare, interrogare, interrogarci. Sebbene la ricerca di verità sia sforzo umano, tra numeri e denti stretti, in meandri che di umano hanno poco o nulla, alimentati dal silenzio. Quel silenzio surreale e distratto. Il silenzio stagnante e appiccicoso. Il silenzio di un’infinita giornata d’agosto.



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