Tutto questo ci parla di una cosa ancora peggiore: del fatto che il Pd non ha più una vera e propria linea politica, ma più che altro una propria linea retorica, un patchwork di sapore vagamente progressista abbastanza vago da essere girato a 180 gradi a seconda del vento e degli equilibri interni. Non un programma propriamente detto ma un elenco di ingredienti: anzi a dire la verità le famose primarie non sono servite a scegliere linee e uomini in grado incarnarle, ma sono state esse stesse l’unico reale programma . Il corpo del partito, separato dal suo elettorato, mentre escludeva una partecipazione concreta della base elettorale alla cosa pubblica, l’ha riesumata ritualmente come succedaneo. Naturalmente con questo non voglio cancellare, l’esistenza di aree di buona volontà e men che meno aggredire uno strumento di democrazia, quanto deplorare il suo uso improprio di riserva indiana di partecipazione, dentro un’oligarchia di fatto.
E questo diventa chiaro nel momento in cui il Pd rinuncia come se nulla fosse al suo programma, ai suoi otto punti che evidentemente erano una scenografia disegnata senza convinzione e senza passione: il foglio del programma è finito subito nel cestino della carta straccia come se fosse soltanto un temino destinato all’elettorato. Ora l’unica cosa che importa alla casta dirigente è di non perdere la faccia facendo il governo con gli stessi personaggi di prima. L’inciucio va bene – Letta ne è stato del resto un fautore appassionato – purché non sia fisiognomicamente evidente, non restituisca l’immagine della realtà. Che non è quella di una sconfitta nelle urne, ma di un tracollo interiore, di una disfatta delle idee e delle speranze maturata lenta e inesorabile negli anni. Rimane il potere da conservare a costo di qualunque compromesso. Basta che lo si possa nascondere.