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Non una telefonata attesa come quella di Dorothy Parker, no. Una telefonata inaspettata di quelle che ti fanno andare indietro di anni. Al '92 (93?), una ragazzina con gli occhialetti rotondi e una giacca a vento improponibile con cui ho appuntamento davanti a Sant'Ambrogio. Parecchio, ma parecchio diverse noi due. E poi cene e pulizie e spese al Pam e racconti e amici e ragazzi e ospitate e sacchi a pelo e coinquiline strambe. E la lezione della leggerezza e della necessità, talvolta, di bluffare con il sorriso, cosa di cui le sarò per sempre grata. Poi la distanza fisica e le scelte, i mondi, le vite diversissime e lo sfilacciamento e i fili tagliati come di solito faccio io, che sono tremenda con il passato e resistono in pochissimi. Le riconoscevo una capacità quasi magica, però, quella di rifarsi viva dopo molto tempo in momenti cruciali, di passaggio nella mia vita. Senza sapere nulla pareva che "sentisse". Non che parlare con lei al telefono fosse questa grande illuminazione, ma era una specie di epifania e in qualche modo serviva, portava bene. Come interpretare la telefonata di questo pomeriggio? Sono in una fase di passaggio? sì. Mi è servito parlare con lei? no. Anzi mi ha messo tristezza. Non per il tempo che è passato e per le cose superficiali che abbiamo condiviso, ma per la distanza enorme che ci separa ora nel modo di vedere il mondo, di vivere le cose. Una distanza tale da rendere il nostro dialogo ormai finto, non stimolante per entrambe. L'allure un po' magica si è persa, ci siamo perse e lo saremmo anche se dovessimo sentirci più assiduamente.
A me capita con le persone di avvertire un momento spontaneo, naturale in cui -tac- ci si perde, magari per una stronzata. Non è colpa di nessuno e forse è la mia naturale propensione alla fuga. In quei casi non sono brava, non lo tengo il filo sottile lo lascio andare o lo taglio bruscamente... Sono davvero poche le persone per cui ho la forza di arrabbiarmi o che mi riacciuffano, mi riannodano. Sono quelle che mi vogliono davvero bene.