Magazine Cultura
Mi imbattei in Promised Land sul finire del 1977, quando la trovai sull'album al quale dava il titolo. Letteralmente incantato, pensai oh, ecco chi è Elvis Presley! Lo penso ancora, dopo 37 anni e innumerevoli ascolti. Incisa nel dicembre del 1973, la canzone è caratterizzata dalla voce di Elvis, tanto potente da mandare a farsi benedire uno stuolo di coristi in trepida attesa, dalla ritmica serratissima e dalle adrenaliniche scariche di chitarra elettrica. Ascoltando in sequenza Baby, Let's Play House (1955), Hound Dog (1956), Reconsider Baby (1960), Whole Lotta Shakin' Goin' On (1970) e Promised Land (1973) se ne ricava l'immagine di un rocker agitato dallo stesso ardore incendiario di sempre. In quei momenti non c'è spazio per l'interprete di dozzine di love songs, che pure rappresentano una parte importante del suo repertorio. Proprio quando Elvis iniziò a servirsi della musica per piangere su sconfitte sentimentali, bei tempi andati e futuro incerto, questa spettacolare rivisitazione del classico di Chuck Berry ricollocò l'artista in un ambito strettamente rock. Nulla di premeditato, l'effetto non fu richiesto, ne desiderato. Elvis non si servì di Promised Land per invertire la rotta, aveva già dato nel 1968, spinto dalla smania di azzerare un decennio sprecato ad Hollywood. Così, piuttosto che trasformarsi in un mezzo per raggiungere un fine, il brano si rivelò fine a se stesso. Con T-R-O-U-B-L-E, era un giorno come un altro di marzo del 1975, Elvis si calò un'ultima volta nei panni che lo avevano reso una leggenda, poi lasciò perdere.
Promised Land / It's MidnightRCA SS-2418Japan 1974
Disco e immagini: Roberto Paglia
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