Peppe era un repubblicano vero, amico fraterno di Nannì il deputato, anticlericale e antifascista. Non era facile essere né l’uno né l’altro durante il ventennio, specie se gestivi una cantina in un piccolo paese. La cantina, all’epoca, era sostanzialmente un’osteria, una via di mezzo tra il bar e il ristorante di oggi. Vi si mesceva il vino e si servivano pasti semplici. Nella cantina di Peppe incontravi tutte le categorie umane e molte categorie politiche: dal gerarca fascista al comunista silenzioso (ma non silente). Peppe doveva gestirli tutti, senza inimicarsi nessuno, e in questo era un artista. Era un cantiniere fermo ed esigeva disciplina nel locale, ma sapeva essere cordiale con tutti e gli affari andavano più che bene.
Peppe non aveva grande simpatia per i comunisti, ma solidarizzava con loro in quanto non liberi di esprimere il proprio pensiero. Neanche lui lo era. Il suo amico deputato, che deputato non era più, entrava e usciva dal carcere e lui non poteva permetterselo. Aveva una famiglia, per quanto piccola, da mantenere e una figlia che adorava. Per cui la politica era bandita dal suo locale. Ma fuori, lontano da orecchie indiscrete, spesso si confrontava su quei temi con amici comunisti e socialisti, anche se spesso, molto spesso, non li condivideva. La sua idea era diversa.
Su una cosa era stato inflessibile: non aveva mai voluto prendere la tessera del partito. Di quello fascista intendo. Quella repubblicana ce l’aveva eccome, ben nascosta nel cassetto del comò, insieme alla foto di Mazzini e a quella di Garibaldi. Ci era riuscito, a non prendere la tessera intendo, per via di una forma di rispetto reciproco che sfiorava l’amicizia che lo legava al Podestà, il marchese, che era uomo integro moralmente, molto affabile, estremamente intelligente. Peccato fosse fascista, ripeteva spesso Peppe.
Un giorno, però, arrivò in cantina un garzone del marchese che trasmise l’invito perentorio di recarsi in tutta fretta in municipio perché il Podestà voleva conferire con lui. La cosa parve strana e Peppe si tolse lesto il grembiule e si recò in piazza non senza una certa apprensione. Il marchese lo ricevette subito, lo fece accomodare, e andò al dunque. Stavano per venire in paese dei gerarchi dal capoluogo e venivano appositamente per verificare voci circa alcuni cittadini che non erano ancora iscritti al partito. Volevano verificare che non fossero sovversivi, nemici della patria, comunisti insomma. “Io lo so che tu tutto sei meno che comunista, Peppe” disse il Podestà “ma comunque repubblicano lo sei, lo sanno tutti, e questo non depone a tuo favore. Senza tessera ti difendo male. Ricordati che c’hai una figlia piccola….”. Peppe si alzò senza aprire bocca, girò sui tacchi e se ne andò con un secco “buongiorno”.
Non dormì tutta la notte, ma non ne parlò con la moglie per non crucciarla. Il mattino dopo la decisione era presa. Toccava fare la tessera. Andò dal marchese che lo accolse sorridente. Disse che era certo della sua ragionevolezza e che la tessera era già pronta sopra il suo tavolo. Peppe uscì dall’ufficio del Podestà con la tessera del Partito Nazionale Fascista in tasca e gli occhi gonfi di lacrime.
Arrivarono i gerarchi dal capoluogo nei giorni seguenti. Pestarono e purgarono, ma non Peppe. Per quasi un mese alla cantina mancarono diversi avventori abituali, tutti comunisti e socialisti. Poi ricomparvero, ma con lo sguardo truce rivolto al cantiniere. Uno si avvicinò al banco e chiese: “Non ti pesa quella tessera in tasca?”. La sera Peppe chiuse la cantina alla solita ora e fece per andare a casa ma, girato l’angolo, si trovò tre sagome grosse e scure a sbarrargli la strada. Due lo bloccarono e il terzo lo prese a pugni e calci finchè quasi svenne. Lo lasciarono accasciato a terra. Nessuno seppe mai chi fossero quei tre. Tranne Peppe.