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La testa di Freud

Da Paride

Avevo sempre detto ad Antonio che quel coso cresceva ogni volta.
Naturalmente non ci voleva credere. Posso capirlo quel poveraccio. La prima volta capitò proprio a casa sua. C’era anche Cesare. Antonio era mezzo ubriaco e cominciò a urlare. Eravamo nella sua casa in campagna, non c’era nessun altro. Sembrava che se la fosse fatta nei pantaloni, ma non era piscio, era sangue. Un bel po’ di sangue. Quando si tirò giù i calzoni al posto dell’uccello aveva una specie di testa di serpente che gli aveva morso le gambe, come scoprimmo più tardi a causa della fame e in quel momento ci sembrò a tutti di essere usciti fuori di senno. Erano stati i funghetti, le canne, l’alcool? No, era tutto vero. Antonio stava in poltrona e si teneva il cazzo che voleva andarsene dove pareva, ma non era più il suo cazzo, era un serpente che ci guardava con i suoi occhi rossi e neri. Da quella volta, con una scusa o l’altra, tutte le notti di luna piena ci siamo dati appuntamento in quella casa per dar da mangiare al serpente. I primi mesi bastarono pizze, spaghetti, qualche bistecca. Alla sesta luna il nostro caro amico aveva una verga-serpente che avrebbe fatto invidia a John Holmes. Superava abbondantemente il mezzo metro e non sembrava nemmeno più un serpente. Mi pareva una specie di “drago”. Quello stronzo masticava pure, cazzo.
Quella notte gli abbiamo dovuto dare la cagnetta di Cesare, Pompea. È da pazzi lo so, ma non potevamo più tenerlo e Pompea abbaiava, povera bassottina. Era simpatica, ma se l’è andata a cercare. Il serpente ci sfuggì alla presa e azzannò Pompea alla gola. Fu un attimo e ci fu sangue dappertutto. Non sputò nemmeno le ossa, le sentimmo scricchiolare sotto le mandibole. Cesare non disse nemmeno una parola. Non sapeva cosa raccontare alla sua ragazza. Antonio invece dormì di brutto e il mattino dopo fu come sempre, come se niente fosse successo.
Per un altro anno dovemmo comprare conigli, polli e capretti. Tutto sembrava filare liscio. L’anniversario del secondo anno, però, non me lo dimenticherò mai. Antonio era strano, un atteggiamento da stronzo. Insisteva che stavolta non sarebbe cresciuto, che il serpente non si sarebbe fatto vedere. Ormai avevamo una cultura in fatto di lunazioni. L’abbiamo dovuto spogliare noi e legarlo alla gabbia di plexiglass in cui gli facevamo infilare il cazzo per evitare che la bestia ci mordesse o peggio. Era sconvolto, stravolto esausto. C’è da capirlo. Ma io non credevo che il serpente non sarebbe cresciuto. Quello sembrava non averne mai abbastanza.
Quando il cazzo si trasformò quel bestione sarà stato di due metri abbondanti ed era così grosso che il buco che avevamo fatto non bastava. Antonio soffriva di brutto e quel bastardo  soffiava come una cornamusa. Sbatteva la testa sulle pareti della gabbia trasparente e alla fine la ruppe. Antonio era ormai diventato un’appendice della bestia, una specie di sonaglio, per quanto sbraitava. La bestia non gli badò e si pappò in un boccone il maialino che avevamo apparecchiato.  Carne dolce chiama carne dolce. Non ci fu il tempo di rendersene conto. Il serpente azzannò Cesare al collo sbattendogli la testa contro il muro. Ci fu un’esplosione di sangue e materia cerebrale, una macchia gigantesca si allargò sul pavimento. Il serpente si masticò Cesare per bene e poi si leccò anche il sangue per dessert. Antonio era svenuto da un pezzo e sapevo che la prossima volta sarebbero stati casini. Acquistai un bue, squartato naturalmente. Il pasto sarebbe stato più che generoso, ma non avevo calcolato le graziose sorprese della natura.
Quando il cazzo si trasformò il serpente era lungo più di cinque metri. La scatola di plexiglas andava bene, ma notavo nel suo sguardo famelico qualcosa di strano, una punta di coscienza: in fondo era il cazzo di un uomo, cazzo! Si staccò dal corpo di Antonio con un risucchio disumano. La coda si portò via metà degli intestini del mio amico. La bestia si girò nella scatola, disdegnò il bue e dal buco della scatola si fiondò direttamente nello squarcio del mio amico che urlava ancora mentre il serpente se lo pappava a morsi. Per fortuna fu una breve agonia. Dopo esserselo ingoiato non riusciva più a muoversi. Mi guardò dritto negli occhi prima di addormentarsi. Sono stato lì a fissarlo un quarto d’ora. Assomigliava a Freud, quella testa di cazzo!


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