Il tappeto del soggiorno si alzò a mezz’aria vorticando, la pendola batté impazzita, il televisore si accese e si spense per l’ultima volta.
«Aaaaaaahhhh!»
In strada i clacson si misero a suonare tutti insieme, i semafori a lampeggiare. I vigili gettarono all’aria il blocchetto delle contravvenzioni e scapparono inorriditi, con le mani fra i capelli.
Urlarono le cassette della posta, i bidoni dell’immondizia e i tombini.
I passeri e le rondini, gli aironi e le garzette dalle risaie, le civette e i barbagianni dai solai delle cascine si alzarono in volo in un unico stormo, coprirono il cielo e oscurarono il sole.
Dall’ombra strisciarono fuori gli appestati e i lebbrosi e i poveracci che non avevano più fede. Camminavano a passettini, sorretti dai loro bastoni e avvolti in mantelli color ruggine.
La gente non faceva caso a loro, non li guardava neppure. Erano tutti troppo impegnati a strillare, i cani ad abbaiare, i gatti a miagolare. Le orecchie di tutti sanguinavano e non c’era più tempo per mangiare, per dormire, per soffrire e per morire. Si gridava, e basta, mentre gli astri vorticavano impazziti e le foreste si incendiavano. (Da "La tragedia del latte versato")
Alle nostre tragedie quotidiane siamo, tutto sommato, abituate. Al lavoro che non c'è, alla nostra solitudine - oppure alle mancanze di chi vive insieme a noi e non è mai abbastanza vigile, abbastanza attento, abbastanza simpatico. Nel dolore quieto dei giorni che trascorrono dimentichiamo di ridere (non il sorriso... ma quelle risate a gola aperta, che sono coloratissimi terremoti nella routine delle nostre quiete settimane), dimentichiamo la gentilezza, l'importanza delle parole sincere.
Siamo infelici senza averne il diritto. Ci sentiamo protagoniste di un dramma tutto nostro - al di là della nostra forza, del nostro coraggio ostentato.
E poi capita qualcosa. Qualcosa che si rompe, che va inaspettatamente in frantumi. Non avrebbe dovuto accadere. Non succede mai, non intorno a noi, almeno. E invece. Non riusciamo a crederci, eppure è così. Ci rendiamo conto all'improvviso di ciò che è davvero orribile, di ciò che non può essere ammesso - mai.
C'è una linea sottile tra il sospetto e la violenza, psicologica intendo.E ci ritroviamo a rimpiangere le frasi che non verranno mai scritte, i giorni che non saranno vissuti, tutte le cose e le persone e i singhiozzi che non potremo mai (non più!) comprendere.
Va da se che rompere telefoni cellulari o computer faccia parte di una violenza psicologica ben definita anche penalmente.
Ma anche tenere sotto pressione una persona facendole credere di essere controllata non è un'azione che può passare così, senza colpo ferire. Dire a una persona ''ti controllo il telefono e le mail tramite un investigatore'' è una pressione che a lungo andare logora e sfibra chiunque.
Non sentirsi sicuri al telefono, sapere che un ex potrebbe in un futuro incerto scrivere una mail mette in allerta, anche se non si ha nulla da nascondere.
Trovare telecamere in casa messe ''per controllare se qualcuno entra'' potrebbe anche essere lecito, ma se sono in casa mia e nessuno mi ha mai avvertito della loro esistenza la trovo un'intrusione altrettanto fastidiosa rispetto alle precedenti. Andare a cena fuori e sentirsi dire ''ti ho fatta seguire per sapere se quel maniaco del tuo amico ti seguiva'' mi pare un arzigogolio inutile, mi hai fatta seguire? Ma siam pazzi.
Ma c'è un altro grado di violenza. Quella velatamente fisica. Se dico che non ho voglia di rapporti e mi tocchi non una, ma più volte ripetutamente, oltre a darmi un fastidiosissimo senso di repulsione, penso rientri tra le molestie sessuali. Poi mi dici che vuoi essere chiamato amore...(Dal blog Latte versato - Ultimo post, 3 giugno 2013)
Altro non so dire, se non che è orribile, orribile, orribile, quello che ti ha fatto.
A S.C.