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Gli occhiali stanno tra il cervello e la realtà che ci circonda. Sono quindi il filtro attraverso il quale si vede il mondo. Simbolo della sensibilità umana, lo strumento con cui l’uomo entra in relazione con ciò che lo circonda.
I personaggi della Trilogia degli Occhiali hanno tutti gli occhiali. Che possono essere occhiali che compensano un normale difetto di vista, oppure, possono essere spia di una diversità più profonda. Di anormalità, di devianze. Un bambino con gli occhiali può essere un bambino che manifesta precocemente dei disturbi cerebrali. Oppure, semplicemente, gli occhiali sono compagni inseparabili della vecchiaia. Il momento in cui la mancanza della vista è la cosa più normale che possa capitare, mentre è proprio la vecchiaia stessa la diversità più profonda.
Emma Dante è sicuramente una delle migliori interpreti di un teatro moderno ed innovativo. Un teatro di parola e di movimento. Un linguaggio complesso fatto di gesti, parole, musiche, canzoni, costumi, oggetti. Gli arti, le bocche, le facce, le bambole, le ancore ad ombrello. Tutto si muove, si muove come fosse privo di una coscienza. Come un burattino i cui elementi oscillano senza alcuna logica. I fili non li tiene nessuno.
La Trilogia degli Occhiali, opera in 3 atti, è una sorta di sintesi della drammaturgia e della poetica dell’artista palermitana. Di una sperimentazione che è in divenire. Che si ciba e sputa la vita, la realtà. La culla del neonato e il cassonetto dell’immondizia hanno la stessa dignità per aprire e chiudere lo stesso endecasillabo.
Riso, pianto, schifo, piacere. Tutto si prova, tutto si sente in sala. Il Teatro è un momento magico di relazione tra l’artista e lo spettatore. Quel legame che il regista ha immaginato di riuscire a creare mentre metteva a punto l’ ingranaggio drammaturgico. Poi, però, quello che capita a Teatro, quando le luci si spengono e il sipario si alza, è irripetibile. Fidatevi: “Repliche a teatro nuncinné ”.
In scena va una galleria di personaggi: normali ed anormali. Veri e finti. Malati e sani. Sani e pazzi. Vecchi e giovani. L’alveo all’interno del quale Emma Dante si muove è il solco scavato da Leopardi fino a Beckett. Come dire, l’inizio e la fine del mondo. E’ vero, alcune citazioni, alcune suggestive immagini a quelli rimandano, ma un attimo dopo, alla nota successiva, al movimento successivo, ne prendono le distanze.
L’umanità di Emma Dante è sì l’umanità dei vinti, degli emarginati, degli sconfitti senza motivo. Ma mentre Beckett, ugonotto, dava la colpa all’assenza di Dio, mentre Leopardi riteneva la natura matrigna responsabile di aver lasciato all’uomo l’onere di una vita infelice, per Emma Dante la vita è comunque la cosa più bella che possa capitare. La vita, nelle sue sfaccettature, è il luogo della sensibilità. E’ successione di momenti che si consumano in istanti infinitesimi in cui uomini entrano in relazione con altri uomini. In cui gli uomini entrano in relazione con il creato, con le stelle, con il mare, con una canzone. Ogni uomo, sano o malato, intelligente o babbeo, solo o in compagnia vive. E la sua vita, come ogni vita, è degna di essere vissuta. E’ quindi rappresentata a teatro. Ecco perché u spicchiatu inizia a sputarci addosso prima che inizi lo spettacolo.
Già, u spicchiatu. Egli sputa, sbava, si dispera su di un pezzo di legno che è solo la metonimia della nave dalla quale è stato scaraventato via. Emarginato da compagni e superiori perché matto. Diverso, strano e quindi pericoloso per l’ortodossia della normalità. E’ imbrigliato a delle funi e queste a delle ancore ad ombrello. L’uomo normale è un burattino i cui fili sono regolati dalla logica che la società in cui vive impone. Per il matto quei fili non li controlla più nessuno. Ed infatti, il grido ru spicchiatu appare disperato, incomprensibile, estremo. Eppure capace di entrare in relazione con la natura. Persino con noi, se lo sappiamo ascoltare.
Carmine Maringola, l’interprete, è straordinario. Si prende, considerato che siamo a fine stagione, un ex-equo con il Gifuni de “L’ingegner Gadda va alla guerra”. E, con qualche azzardo, diremmo che ci ha ricordato il primo Manfredi.
Lasciato u spicchiatu, come in Cast Away, con il suo Signor Wilson, ci ritroviamo a Palermo. Alla Zisa. Qui ci sono croci e suore. E tanti giochi, per un bambino troppo cresciuto. Nicola. Che è malato. Troppo cresciuto e troppo malato. Due cose che sono due volte contro ragione. Contro quel facile positivismo ottimista dell’omologazione imperante. Con cui stride. E volutamente dissona. La cacofonia della realtà è cacofonia dei linguaggi. Ridotti all’essenziale. Non si parla. Si squittisce. Ci si muove freneticamente. L’ansia, l’agitazione, la concitazione sono gli spasmi con cui l’ umana sensibilità di chi assiste reagisce. Penso a mia madre che, ogni giorno, assiste quarantenni ancora alle elementari, condannati ad essere bambini da una mente che non cresce. 1000 euro al mese è il salario anonimo per gente anonima. L’emarginazione dell'assistito e di chi l'assiste. Si retribuisce il male con il male e si fanno due altri spicchiati.
L’emarginazione infatti è del malato e di chi lo deve accudire. Il primo vive nella frustrazione di una umanità che sente di avere dentro di sé ma che non riesce a comunicare verso l’esterno. Le due donne che lo accudiscono sanno in partenza di non essere sufficienti a dare a Nicola la felicità che chiede.
Infine i Ballarini. Il più poetico dei tre pezzi. Non si parla. Ma quanta cura nei dettagli! Il ballo tra i due vecchi ci racconta un’umanità, quella dell’anziano che mille parole non avrebbero mai potuto descrivere con tale struggente leggerezza. Al limite tra il dramma e la lirica. Quel complicarsi dei gesti quotidiani, quella fragilità. L’importanza di sorreggersi. Gli occhi di lui che guardano il fazzoletto di lei che glielo mostra per essere sicura che quanto espettorato, dopo quei terribili colpi di tosse, non sia peggiorato. Festeggiano il loro Capodanno i Ballarini, l’ennesima primavera. Contando l’uno sull’altro. Festeggiare per un anziano è spesso ripercorrere gli anni più belli. Il primo bacio, la gravidanza, la gioia dei balli, della vita goduta appieno.
Poi, quando assieme al rarefarsi dei ricordi, uno dei due scompare, quel gesto della fazzoletto che la donna mostra al marito per avere il di lui conforto, diventa la struggente nota che precede l’epilogo. Quanta cura nel rimettere a posto la giacca del marito. Chiunque rivede la propria nonna o mamma, ma forse, anche, la proiezione della propria vita.
Ora, termina anche la musica che ha fatto da colonna sonora al dolce e nostalgico rimembrare. E’ venuto il momento di scollegare la presa di corrente.
Quegli spasmi che all’affievolirsi delle luci di scena chiudono la piece stringono il cuore di tutti. In sala un silenzio liturgico precede l’ovazione finale. Fidatevi: “Repliche a teatro nuncinné ”.
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