(due testimonianze autorevolissime sull’economia turca, un esempio da seguire permigliorare i rapporti tra Turchia e Italia: buoni a livello governativo e imprenditoriale, disastrosi a livello di opinione pubblica. l’articolo è già stato pubblicato qui)
I rapporti diplomatici, economici e culturali tra Turchia e Francia hanno origine antica e hanno giocato un ruolo decisivo – tra Ottocento e Novecento – nel processo di modernizzazione dell’Impero ottomano e nel passaggio alla Repubblica: si guardava a Parigi come modello di democrazia e poi di laicismo di stato, le stesse élites tradizionali turche sono francofone (ad esempio, era in francese persino la corrispondenza interna del ministero degli esteri ottomano), nel turco contemporaneo sono evidenti e molteplici i prestiti lessicali. La presidenza Sarkozy, però, li ha messi a dura prova in virtù di un approccio considerato a Istanbul – a Istanbul capitale culturale ed economica, prima che ad Ankara – non solo ostile, ma antistorico e offensivo: la Turchia giudicata incapace e indegna di entrare nell’Unione europea perché diversa, incompatibile, non europea.
Le manifestazioni di reciproca antipatia – e persino gli sgarbi protocollari – hanno animato le cronache e i talk show a ciclo continuo. Per continuare invece a coltivarli, un gruppo molto influente di imprenditori, intellettuali, diplomatici e politici – francesi e turchi – ha creato e lanciato nel 2009 l’Institut du Bosphore: più lobby che think-tank, con sede a Parigi ma attivo su tutto il territorio francese e anche in Turchia, in cui è determinante il peso dell’organizzazione imprenditoriale TÜSİAD (una sorta di Confindustria turca che raggruppa le grandi holding del paese).
Giovedì e venerdì si è tenuta – in riva al Bosforo, per l’appunto – la quarta edizione del seminario annuale dell’istituto: un’occasione per discutere di Francia, di Turchia e di Europa (il tema scelto: “L’Europa in crisi: impatto, sfide e opportunità per la Francia e la Turchia”), con ospiti di assoluto prestigio e quasi tutti francofoni. Il clima, dopo il cambio di inquilino all’Eliseo, era palpabilmente più rilassato rispetto all’anno scorso: sorrisi, reciproche congratulazioni, l’alba di una nuova era; l’orientamento è mutato dal limitare i danni all’invocazione di un rilancio in grande stile della partnership franco-turca, che secondo molti degli intervenuti deve necessariamente passare per una visita – nel primo semestre del 2013 – del presidente François Hollande (l’ultima visita di Stato è stata quella di Mitterand nel 1992) e per la revoca del veto su cinque capitoli negoziali nel processo di adesione all’Ue.
Ulteriore segnale di buon auspicio, almeno sul versante anatolico, la recentissima e lungamente attesa promozione da parte dell’agenzia di rating Fitch del sistema economico turco fino al livello “investment grade”: diventa così legalmente possibile investire da parte dei fondi pensione e dalle assicurazioni, i benefici previsti a lungo termine sono enormi.
Il vice premier e coordinatore dei ministeri economici, Ali Babacan, ha approfittato della cena di gala per tratteggiare un bilancio entusiasta – almeno sul piano economico – dei dieci anni di governo dell’Akp, a cui ha contribuito personalmente anche come ministro dell’economia (salvo nel biennio 2007-2009, quando gli sono stati assegnati gli esteri) dal 2002 al 2011: un decennio fatto di grandi riforme, di stabilità macroeconomica, di ottime percentuali di crescita, di costante aumento del reddito pro capite.
Per Babacan, il fattore decisivo per questi ottimi risultati – oltre alla stabilità politica – è stato l’integrale rispetto dei parametri di Maastricht, il bilancio dello stato in perfetto ordine: e ha sottolineato come “l’incremento del Pil è integralmente dovuto al settore privato e non alla spesa pubblica in deficit”; una considerazione che lo ha portato a parlare direttamente di Europa: anche alla luce delle recenti dichiarazioni del premier Erdoğan in visita a Berlino, contrario all’ingresso della Turchia anche nell’eurozona – assumendo una posizione simile a quella britannica – nel caso diventasse membro a pieno titolo dell’Ue.
Babacan ha espresso apprezzamenti per le riforme decise, che però secondo lui non sono ancora sufficientemente incisive: sostanzialmente perché ritiene necessario un vero e proprio governo economico dell’Europa, con gli strumenti per imporre un’unica politica non solo monetaria ma anche fiscale; ha confessato di essere stato definito da qualche collega “più europeista degli europei”: la sua idea di Europa è quella di un insieme molto più coeso rispetto a oggi, di cui non devono necessariamente far parte tutti gli attuali membri che invece potranno procedere a differenti velocità o aderire solo ad alcune iniziative di più stretta integrazione.
Non ha taciuto sulle fragilità strutturali dell’economia turca: bassissima propensione al risparmio, influenzata dalla diminuzione dell’inflazione e da tassi d’interesse più bassi negli ultimi anni; dipendenza dalle importazioni di fonti energetiche fossili e dai prodotti semi-lavorati, che provoca squilibri notevoli della bilancia delle partite correnti; una dotazione infrastrutturale – strade, ferrovie, porti, aeroporti – ancora insufficiente; un livello di disoccupazione ancora alto (ma in diminuzione, sotto la soglia del 10%) e una non ottimale distribuzione della ricchezza. Tuttavia, ricordato nuove riforme appena decise e altre in preparazione: riforma dell’istruzione con obbligatorietà portata a 12 anni; incentivi per l’innovazione e per gli investimenti produttivi nelle zone depresse del paese; un vasto piano per la costruzione – anche in project financing – di nuove infrastrutture; passaggio al nucleare e investimenti nelle energie rinnovabili. Ma è evidente come la Turchia potrà mantenere la sua ottima performance solo se verrà mantenuta la stabilità politica interna, se la crisi globale verrà riassorbita, se l’Europa non si sfalderà, se le periferie turbolente – Siria, Iran, Iraq – troveranno un minimo di equilibrio.
L’operato del governo e di Babacan – il giorno dopo – ha riscosso il pubblico apprezzamento di Kemal Derviş: membro del partito di opposizione Chp e già deputato, economista, oggi vice presidente della Brookings Institution dopo aver guidato lo United Nations Development Programme, autore nel 2001-2002 – in qualità di ministro – di quelle prime e indispensabili riforme che hanno offerto all’Akp una solida piattaforma su cui costruire. Derviş ritiene l’attuale crisi la pià grave nella storia dell’Ue, “una crisi dell’Europa come progetto per l’avvenire”: una crisi che però – paradossalmente – “rappresenta una grande opportunità per risolvere i problemi dell’integrazione”, per escogitare “un meccanismo con legittimità democratica per prendere insieme le decisioni”.
Le sue idee sono molto simili, in sostanza, a quelle di Ali Babacan: anche per quanto riguarda i successi, le fragilità e i possibili rimedi per l’economia turca. E’ anche convinto che il destino virtuoso della Turchia è intimamente legato all’orientamento europeo: che non è una novità ma ha radici profonde che risalgono al primo riformismo già in epoca ottomana, quando anche l’economia e la cultura erano intrise di francofilia e francofonia; “bisogna ricostruire il legame tra la Turchia e l’Europa”, ha esclamato: perché la Turchia è ad un punto di svolta e perdere l’ancoraggio europeo significherebbe andare paurosamente alla deriva. Ma anche l’Europa deve fare la sua parte, in modo costruttivo e neutralizzando i pregiudizi.
40.980141 29.082270