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La Turchia e il dilemma curdo tra istanze democratiche e Realpolitik

Creato il 14 marzo 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La Turchia e il dilemma curdo tra istanze democratiche e Realpolitik

Dopo anni di repressione e lotta armata, il governo di Ankara e il PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito dei Lavoratori Curdi) hanno riavviato i dialoghi di pace interrotti nel 2011. A riaccendere le speranze curde è la nuova congiuntura regionale: se da un lato la crisi siriana ha trascinato Damasco in una sanguinosa guerra civile, dall’altro ha rafforzato le fazioni della minoranza etnica, costringendo Erdoğan a rivedere la propria strategia verso i curdi per salvaguardare la sicurezza nazionale. L’attentato di Parigi, costato la vita a tre attiviste curde lo scorso 9 gennaio 2013, ha tuttavia messo in luce le numerose resistenze interne ad un compromesso storico tra l’AKP e i “turchi della montagna”, sottolineando che una risoluzione è ancora dura da raggiungere. La svolta è comunque storica: da carta giocata dai diversi attori regionali nelle loro guerre per procura, ora la minoranza curda potrebbe diventare l’ago della bilancia del nuovo assetto della “Mezzaluna Fertile”.

 

Aree a maggioranza curda

L’attentato di Parigi: non chi, ma perché?

Lo scorso 9 gennaio 2013 tre attiviste curde sono state uccise a Parigi: Sakine Cansiz era stata una delle fondatrici del PKK, insieme al leader storico Abdullah Öcalan1, nel 1978; le altre due erano Fidan Dogan e Leyla Soylemez, del Centro d’Informazione del Kurdistan di Parigi. Le ipotesi sui responsabili dell’attentato sono diverse: da una faida interna ai curdi alle frange più oltranziste del PKK, dallo “Stato profondo” turco2 ai servizi segreti iraniani e siriani, che vorrebbero punire Ankara per la sua opposizione al regime di Damasco3, fino al gruppo estremista nazionalista turco dei bozkurtlar, i Lupi Grigi.

Ciò che conta, tuttavia, è capire il motivo di questi omicidi: secondo il Professor Sedat Laçiner, esperto di terrorismo, è importante considerare la coincidenza temporale delle uccisioni con gli accordi curdo-turchi4. L’esecuzione coincide, infatti, con la ripresa dei negoziati tra il governo turco guidato dall’AKP di Erdoğan e il PKK sulla cosiddetta “questione curda”5: l’intento dei mandanti era molto probabilmente quello di sabotare il dialogo. Il Professor Mehmet Özcan, un altro esperto di terrorismo, ha spiegato che il PKK è frammentato al suo interno in diverse ideologie e conta diverse sigle, dalle più moderate e aperte al dialogo alle più estremiste ed intransigenti. Può essere diviso in tre gruppi: quello ideologico, quello che opera tramite attività illecite e quello controllato dai servizi segreti stranieri. Gli ultimi due non supportano il processo di negoziazione, ritenendolo lesivo dei propri interessi.

La questione curda e l’apertura al dialogo

I curdi, definiti “popolo transnazionale”6, sono la più grande nazione al mondo senza Stato. Circa 20 milioni di curdi vivono in Turchia (il 18% della popolazione), 10 in Iran, 7 in Iraq e 3 in Siria; ad essi vanno aggiunti i circa due milioni di rifugiati politici in Europa. I curdi hanno creato propri movimenti di rappresentanza e hanno fatto ricorso alla violenza, come il PKK turco. L’obiettivo originario del PKK era quello di creare, anche ricorrendo alla forza, uno Stato curdo indipendente riunificando tutti i territori divisi tra Turchia, Siria, Iran ed Iraq; accanto ad esso vi sono diverse associazioni sorelle, come il PYD, fondato nel 2003 in Siria e il PJAK in Iran nel 2004. Soltanto in Iraq i curdi hanno ottenuto un’ampia autonomia dal governo di Baghdad in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003, e il KRG (Hikûmetî Herêmî Kurdistan, cioè “Governo Regionale Curdo”) controlla un governatorato con capitale Ebril, oggi guidato da Massoud Barzani, presidente e leader del Partito Democratico Curdo (KDP).

Il governo turco ha sempre percepito non solo le richieste di autonomia, ma anche di riconoscimento dei diritti come una minaccia per la stabilità e l’integrità territoriale e ha sempre reagito con durezza alle richieste del movimento curdo, negando persino la sua identità etnica e culturale (ad esempio proibendo i festeggiamenti per il Capodanno curdo lo scorso 21 marzo). Il PKK, da parte sua, ha deciso di utilizzare la lotta armata per rivendicare i diritti del popolo curdo, trascinando il Paese in un vortice di violenza e tensione7. Soltanto negli ultimi 14 mesi ci sono stati circa 700 morti negli scontri tra esercito turco e separatisti del PKK8. Nel luglio 2012, al culmine della scia di violenze che hanno insanguinato la Turchia, Erdoğan ha dichiarato pubblicamente di voler riprendere la road map interrotta l’anno precedente, nel luglio 2011, dopo che in giugno l’AKP9 aveva vinto le elezioni conquistando più del 50% dei voti.

Consapevole dell’importanza della soluzione della questione curda in termini nazionali e regionali, Erdoğan ha tentato fin dal 2005 di aprire un dialogo con il PKK. Il 12 agosto 2005, in visita ufficiale a Diyarbakir, roccaforte dei curdi, il Premier riconobbe pubblicamente i curdi e parlò dell’esistenza di una “questione curda” nel Paese. Già nel 2009 vennero inaugurate le trasmissioni di TRT6, con programmi in lingua curda; fu l’anno dell’iniziativa di “apertura democratica”, una nuova politica di riforme volte a migliorare la condizione dei curdi in Turchia anche attraverso un riavvicinamento al Kurdistan iracheno10. Il 2011 è stato un anno difficile per il dialogo curdo-turco, con diversi episodi di violenza che hanno fatto fallire il piano di pacificazione11. La scia di sangue è continuata anche nel 2012 a causa degli attentati di matrice terroristica legati al PKK, soprattutto nel sud-est del Paese12.

Costretto dalla situazione regionale e dall’escalation di violenza entro i confini nazionali, Erdoğan ha iniziato a cedere alle richieste dei militanti curdi13. Nel giugno 2012 il governo turco ha concesso la possibilità di introdurre il curdo come insegnamento opzionale nelle scuole pubbliche14: un passo significativo, se si considera che verso i curdi è sempre stata portata avanti una politica di assimilazione. A fine novembre Erdoğan ha dichiarato ufficialmente di voler riaprire i colloqui con il PKK, dopo il fallimento delle trattative tra il MIT (i servizi segreti turchi) e Öcalan tra il 2009 e il 2011 a Oslo: questa decisione ha evidenziato la nuova presa di coscienza di Ankara sull’urgenza di una soluzione della questione curda15. Alla fine del 2012 l’intelligence turca ha dunque ripreso i contatti con Öcalan16, segnando una svolta nell’approccio di Ankara alla problematica. Il 25 gennaio 2013 Il Parlamento turco ha approvato una legge che permetterà ai curdi di usare la propria lingua per difendersi in tribunale17, dando una risposta forte agli attentati di Parigi che avrebbero voluto far deragliare i negoziati, i quali dovrebbero proseguire fino alla fine dell’estate. Nodo cruciale è innanzitutto la riforma della Costituzione18, con la rimozione dei riferimenti etnici per la cittadinanza turca e il turco come lingua “ufficiale” ma non come “unica riconosciuta” della Turchia19.

Il governo turco sembra dunque impegnato a voler raggiungere quello che Yalcin Akdogan, il consigliere del Primo Ministro sugli Affari Curdi, ha definito “accordo finale”. Esso prevede il disarmo del PKK e il reintegro dei suoi militanti a patto che venga eliminata ogni forma di discriminazione dal sistema normativo e garantita l’istruzione in lingua curda; che vengano rilasciati i migliaia di attivisti curdi arrestati fin dal 2009 ed attuato un reale decentramento politico; altra condicio sine qua non è l’abbassamento della soglia di sbarramento per entrare in Parlamento dal 10% al 5%, per consentire al Partito Curdo di competere effettivamente nell’arena politica. Il PKK vorrebbe inoltre ottenere il libero accesso ai mass media, migliori condizioni di prigionia per Öcalan ed il riconoscimento legale dell’organizzazione-ombrello del PKK chiamata “Congresso Nazionale del Kurdistan”. I curdi chiedono non solo diritti civili e politici, ma anche migliori condizioni di sviluppo: il “Kurdistan” turco, infatti, ha un reddito pro-capite decisamente inferiore rispetto alla media nazionale, un’economia essenzialmente agricola e rurale e i servizi, in particolare per la salute e l’istruzione, sono assolutamente carenti.

Tra i curdi, nonostante le fazioni più estremiste e violente, si sono formate nel tempo delle correnti più moderate, favorevoli ad un piano di ampia autonomia nel quadro dell’integrità territoriale turca (la cosiddetta “autonomia democratica”, la cui definizione è tuttavia alquanto vaga); tra queste, il Partito della Pace e della Democrazia (BDP), il più grande partito filo-curdo legale rappresentato da 29 deputati alla Grande Assemblea Nazionale. Nelle trattative è coinvolto tutto il movimento filo-curdo riconosciuto: oltre al MIT ed Öcalan vi sono Selahattin Demirtas, leader del BDP, e parlamentari indipendenti provenienti dal disciolto partito DTP, tra i quali Ahmet Türk, un leader moderato che guarda ai modelli autonomistici europei per i curdi. La road map, tuttavia, sta incontrando l’opposizione dei separatisti curdi, contrari a qualsiasi compromesso con la Turchia, e ha generato una vera e propria faida interna tra i diversi gruppi. Questo canale di dialogo, comunque, rappresenta un momento storico per la Repubblica turca: per la prima volta, infatti, il governo centrale ha aperto ad un partito considerato un’organizzazione terroristica. I curdi, che Ankara ha persino proibito di chiamare così definendoli “turchi della montagna” o “turchi orientali”, ora guardano con speranza al processo di pace.

Sicurezza nazionale e contesto regionale: l’impasse siriana e il KRG iracheno

L’apertura di Erdoğan non è stata dettata soltanto da motivi di sicurezza nazionale, ma anche dal mutato contesto regionale, che si è reso pericoloso per Ankara. La politica degli “zero problemi con i vicini”20, elaborata dal Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, è stata messa a dura prova dalla crisi siriana. Essa, infatti, ha inaspettatamente riaperto la questione curda e ridestato i mai sopiti rancori tra i vicini della Mezzaluna. Per la Turchia la guerra civile che sta sconvolgendo Damasco desta più di un motivo di preoccupazione: il riaccendersi dei sentimenti nazionalisti curdi, il flusso dei profughi, il freno all’economia galoppante dell’Anatolia e le crescenti divisioni etniche.

Ankara, impossibilitata ad agire militarmente contro la Siria sia a causa del veto russo e cinese in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sia dalla ferma opposizione di Teheran e frenata anche in ambito NATO, è stata costretta a correre ai ripari giocando la carta curda; da una risposta essenzialmente difensiva, la Turchia è ora passata ad un’azione proattiva21, aprendo il dialogo al PKK per prevenire eventuali azioni dei suoi nemici al confine. In particolare, l’obiettivo di Ankara è quello di scongiurare che il collasso di Damasco si traduca nella creazione di una federazione curda in Siria. Il timore turco, infatti, è che i curdi siriani possano costituire, anche grazie all’appoggio del KRG iracheno, un’enclave all’interno della Siria, portando ai confini della Turchia ben due entità curde autonome, che potrebbero risvegliare i sentimenti separatisti dei “turchi della montagna” e costituire una nuova base per il PKK. In Siria è attivo il Partiya Yekîtiya Demokrat (PYD, Partito dell’Unione Democratica), una sorta di ramo siriano del PKK; nell’ottobre 2011 è stato inoltre fondato il KNC (Consiglio Nazionale Curdo) sotto la guida dell’iracheno Barzani, che riunisce una decina di partiti filo-curdi.

Dopo un decennio di cooperazione con la Siria22, la politica di Ankara è cambiata radicalmente in seguito alla crisi di legittimità del regime di Bashar al-Assad e la guerra civile. Christopher Phillips ha parlato di quattro fasi dell’approccio politico turco alla crisi siriana23: in un primo momento, la Turchia ha indotto Assad ha cercare di aprire alle riforme; in seguito, ha chiuso i rapporti diplomatici; ha poi appoggiato soluzioni politiche regionali ed internazionali; infine, ha aiutato l’opposizione armata siriana. Da quando Erdoğan ha rotto i rapporti con Damasco, secondo autorevoli fonti, Assad ha riallacciato quelli con il PKK, utilizzando i curdi per colpire il nemico di Ankara per l’appoggio logistico, militare e finanziario ai ribelli siriani e violando gli accordi di Adana. Nonostante il regime baathista di Damasco abbia tollerato alcune forme di attività paramilitare (essenzialmente in chiave anti-turca), i curdi siriani, circa il 10% della popolazione, sono sempre stati repressi, discriminati e privati dei loro diritti fondamentali. Questa minoranza, concentrata soprattutto nella regione di al-Hasakah nel nord-est e in altri punti lungo il confine con la Turchia, oltre che nelle città di Aleppo e Damasco, non gode di continuità territoriale24 e spesso non è neanche riconosciuta legalmente: si calcola che vi siano circa 300 mila apolidi curdi in Siria, senza alcun tipo di tutela o diritto, registrati come maktumin (letteralmente “nascosti”) o ajanib (stranieri).

Le reazioni curde alla rivolta siriana sono state molteplici. Inizialmente la maggioranza della comunità non ha partecipato attivamente alle proteste anti-regime, ma in seguito si è spaccata tra i fedeli ad Assad e i nazionalisti che speravano di poter approfittare della crisi di Damasco per acquistare maggiore autonomia25. Bashar al-Assad ha quindi tentato di assicurarsi la neutralità dei curdi dichiarando di voler risolvere il problema dell’apolidia e concedendo la cittadinanza siriana a migliaia di curdi. Messo alle strette dall’aggravarsi delle proteste, nel luglio 2012 il regime siriano ha deciso di abbandonare le aree a maggioranza curda e il PYD ha di fatto imposto la propria autorità. Questa straordinaria congiuntura politica ha portato ad un riavvicinamento tra il PYD e il KNC, che grazie alla mediazione di Barzani hanno siglato un accordo, noto come “Dichiarazione di Ebril”, nel quale si è stabilito che i due gruppi avrebbero controllato congiuntamente la regione curda siriana durante la transizione, sotto la supervisione del SKC, il Comitato Supremo Curdo. Questo accordo ha colto di sorpresa Ankara, che aveva invece puntato su Barzani per contenere le azioni del PYD, temendo che ad esso coincidesse una rafforzamento del PKK. Dal 2007, infatti, il Kurdistan Iracheno fa parte del piano di sviluppo economico turco, elemento che ha creato non poche tensioni con Baghdad. Barzani, inoltre, è l’uomo chiave per la repressione del PKK sulle montagne irachene di Qandil, quartier generale dei guerriglieri. Appena qualche anno fa, il KRG e la Turchia erano avversari; nel tempo, tuttavia, Ankara ha intuito l’importanza strategica di un’alleanza con Barzani, sia dal punto di vista economico che per la lotta al terrorismo di matrice curda.

La creazione di una zona curda de facto autonoma nel nord della Siria ha dunque spinto la Turchia a riprendere il dialogo di pace per evitare che anche le ambizioni separatiste dei curdi turchi riacquistassero vigore26. Gli eventi siriani hanno avuto pesanti ricadute per la Turchia, sia per il massiccio arrivo di profughi e le tensioni etniche che ciò ha comportato, sia per l’interruzione dei rapporti economici con Damasco. Dal 2011, circa 135 mila siriani hanno attraversato il confine turco, con un forte aumento durante l’estate 201227. Nonostante la Turchia sia meglio attrezzata per rispondere all’emergenza rispetto alla Giordania e al Libano, la situazione rischia il collasso. La crisi siriana ha anche riacceso le divisioni settarie all’interno della Turchia stessa, a causa della composizione etnica dei rifugiati nei campi profughi nella provincia di Hatay, popolata da arabi e alawiti vicini al regime di Assad e oppositori della politica di Erdoğan; senza dimenticare le simpatie tra alawiti e aleviti, un consistente gruppo religioso sciita presente in Turchia e vicino alla minoranza curda. La guerra civile siriana ha infine segnato una battuta d’arresto per le cosiddette “Tigri dell’Anatolia”, cioè le imprese del Sud-Est turco protagoniste del boom economico del Paese degli ultimi dieci anni.

Oro blu e oro nero al centro degli interessi economici

Altre due spade di Damocle pendono sulla questione curda in Turchia: il petrolio e il progetto GAP. La zona a maggioranza curda, infatti, è ricca di oro blu e oro nero; qui scorrono l’alto bacino dell’Eufrate e del Tigri, il lago di Van e il lago di Urmia, risorse strategiche che si trovano soprattutto in territorio turco e che sono il pivot della politica idrica di Ankara. Il GAP28 (Güneydoğu Anadolu Projesi, noto anche come Great Anatolian Project) si sviluppa nell’Anatolia del Sud-Est, di fatto interessando gran parte del territorio curdo in Turchia, tra cui Diyarbakir29. La Turchia ha costruito delle imponenti barriere idriche sul Tigri e l’Eufrate30, causando forti tensioni con la Siria (oltre che con l’Iraq). La dialettica turco-siriana “acqua contro curdi – curdi contro acqua” si è dunque drammaticamente riaperta: da un lato Ankara ha trasformato l’acqua in uno strumento strategico, dall’altro la Siria ha ospitato le basi dei guerriglieri del PKK. Il petrolio, invece, è concentrato soprattutto sul suolo iracheno, dove si trovano i giacimenti di Taq Taq e Tawke. La Turchia, che importa il 96% del petrolio, ha approfittato del nuovo assetto politico iracheno per stringere vantaggiosi accordi economici. Recentemente le tensioni tra Baghdad ed Ebril si sono riaccese a causa della vendita del petrolio curdo iracheno alla Turchia31; di fronte alle accuse di contrabbando, Erdoğan ha difeso i diritti dei curdi iracheni, che a loro volta hanno spinto per un riavvicinamento dei fratelli in Turchia e del PKK al governo di Ankara.

Criticità e prospettive

In questo complesso e delicato scenario mediorientale, l’evoluzione del “Great Game del Kurdistan”32 risulta sospesa tra principi democratici e Realpolitik, intrecciandosi con numerose variabili legate soprattutto alla caduta del regime di Assad e alle tentazioni egemoniche turche. Uomo chiave della politica estera di Ankara è Ahmet Davutoğlu, autore dell’opera “Profondità strategica”, nella quale si elencano i nuovi obiettivi geopolitici turchi33, che puntano all’acquisizione della leadership regionale soprattutto in seguito al vacuum di potere lasciato dopo la guerra di Bush in Iraq nel 2003, a discapito sia di Israele, con cui i rapporti si sono fatti più tesi34, sia dell’Iran; l’occasione si è ora ripresentata con la “Primavera araba” e la crisi egiziana. La Turchia, tuttavia, non può aspirare a diventare leader regionale senza prima risolvere la questione curda. Ankara dovrebbe innanzitutto separare il problema del PKK dal problema curdo35: le legittime richieste di riconoscimento da parte della minoranza etnica, infatti, non devono essere confuse con le azioni terroristiche delle fazioni oltranziste armate. Riconoscere i diritti dei curdi non significherebbe soltanto compiere un decisivo passo in avanti verso la pacificazione nazionale, ma anche raggiungere un traguardo fondamentale per la democrazia turca, che otterrebbe anche una maggiore legittimazione a livello internazionale. A ciò va aggiunta l’intenzione di Erdoğan di candidarsi alle elezioni per la Presidenza della Repubblica del 2014, le prime a suffragio diretto, alle quali l’attuale Premier vorrebbe arrivare con la vittoria storica personale dell’accordo con il PKK.

L’AKP, che si è reso promotore e protagonista di questa cruciale stagione di apertura verso i curdi, deve saper dialogare realmente con la minoranza e non semplicemente imporre dei diktat. Per farlo, il governo turco deve riuscire ad ottenere un vasto consenso tra i curdi, non limitandosi a dialogare con Öcalan ma anche con altri leader (come Murat Karayilan, esponente di spicco del PKK e Presidente del KCK36). Da parte loro, i curdi moderati devo riuscire ad isolare le fazioni violente e chiedere allo stesso PKK un cessate-il-fuoco. Concedere l’autonomia ai curdi non significherebbe la disgregazione dello Stato nazionale, anche perché, come risulta dai sondaggi, la maggioranza dei curdi vuole continuare a vivere in Turchia e più del 71% dei turchi e del 90% dei curdi hanno affermato che i due popoli possono costruire un futuro in comune37. Il percorso, come anche gli omicidi di Parigi hanno dimostrato, sarà complesso e non privo di ostacoli: per questo sarà necessario procedere con prudenza e gradualità, rinunciando da entrambe le parti all’odio e alla violenza che finora hanno sempre portato al fallimento del dialogo.


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