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La vecchina con l’ombrello (una storia vera) posted by Luisa Bolleri

Da Parolesemplici

La vecchina con l’ombrello (una storia vera) posted by Luisa BolleriMi è tornata in mente all’improvviso, senza un reale motivo. Come un flash che ti esplode in testa senza un’apparente ragione. Un contrasto stridente con tutto il cinismo che impregna ogni attimo della nostra moderna quotidianità.

Teneva accanto a sé un ombrello chiaro, ormai logoro e antiquato. Non lo abbandonava mai, non avrebbe potuto. Qualcuno negli anni aveva cercato più volte di toglierglielo, ma lei ogni volta si era opposta con tale veemenza che l’ombrello aveva finito per rimanere al suo fianco.Era una donna minuta, leggera e piccola di statura, quando per la prima volta la vidi affacciata alla finestra. Stava lì, appoggiata con i gomiti al davanzale, in attesa, con un’aria smarrita.

Ero un giovanotto di circa vent’anni nel 1975. Io e i miei amici stavamo percorrendo in auto la strada per Le Vedute, diretti alla discoteca “Don Carlos”. Quando passammo davanti a quella casa, i miei compagni mi indicarono quella vecchina e mi raccontarono la sua storia. Lei, come sempre, era lì: aspettava qualcuno.

Molti anni prima, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia era entrata in guerra. Il suo fidanzato fu richiamato e dovette partire per il fronte. Quel giorno lei lo accompagnò alla stazione. Pioveva. Lei aprì il suo ombrello e insieme si ripararono dalla pioggia. Forse proprio lì sotto, lui le dette l’ultimo bacio, prima di salire su un treno diretto chissà dove.

La guerra avrebbe distrutto ancora molte vite prima di placarsi, ne erano ben consapevoli. Il loro amore però alimentava la speranza di sopravvivere e di ritrovarsi presto. In quel bacio racchiusero una promessa che avrebbe potuto vincere mille guerre, mille sofferenze, mille distanze. Forse mille vite.

“Ti aspetterò per sempre…” giurò lei tra le lacrime, prima di lasciarlo andare. Erano ormai solo mani e volti tra la folla che si diceva addio.

Quando il treno scomparve all’orizzonte, lei si ritrovò sola con il suo ombrello. Quello divenne di colpo il simbolo che l’avrebbe tenuta legata a quel bacio, a quell’ultimo saluto e alla speranza. Lo strinse a sé come un talismano, come un filo immaginario che poteva collegarla a lui in ogni momento, forse persino capace di trasmettergli i suoi pensieri.

Poi fu l’attesa. Di una notizia, una lettera, un comunicato, di qualunque cosa. Ma non ce ne furono, mai. Dopo molti anni e sessanta milioni di morti, quando tutto fu distrutto, l’orrore ebbe termine.

La guerra finì, i soldati divennero reduci e iniziarono a tornare. In paese ci fu chi poté riabbracciare i propri cari: figli, mariti, fidanzati, fratelli. Quei combattenti ormai inutili però non tornarono tutti insieme. Molti erano lontani, altri prigionieri, altri ancora furono dichiarati dispersi. Per alcuni occorsero mesi di viaggio.

Lei guardava le famiglie che si ricongiungevano, felice per loro, e diceva a se stessa che presto sarebbe toccato anche a lei. Immaginava la scena, la propria gioia, la festa che avrebbe organizzato in suo onore. Sorrideva e le batteva il cuore.

Ma non andò così. Il destino aveva deciso diversamente per lei. Rimase sola, in quella grande casa, ad aspettare davanti a quella finestra il ritorno dell’unica ragione di vita, sempre più disperata. Gli anni trascorsero inutilmente. Lui non tornò.

Nessuno le disse cosa fosse capitato a quel ragazzo, dove avesse trovato la morte, quale arma concepita dalla barbarie umana l’avesse ucciso, se avesse sofferto oppure no, in quale fossa avessero gettato il suo corpo, se facesse freddo o caldo, se fosse giorno o notte, se avesse pensato a lei in quell’ultimo straziante momento o non ne avesse avuto il tempo, perché mai non fosse tornato a casa da lei. Né seppe mai dove potesse piangerlo o portargli un fiore.

Niente. Silenzio, straziante silenzio… per anni, decenni, per una vita!

La spensieratezza giovanile ci costrinse, chiusi in un’auto, a non dilungarci troppo a parlare di quella vecchina. Quel che avevo appreso, però, mi emozionò e mi rimase scolpito in maniera indelebile in quella parte delegata al sentimento che ognuno di noi ha e che troppo spesso tende a trascurare.

Da allora, ogni volta che viaggiavo per quella strada, alzavo lo sguardo verso il primo piano di quel vecchio palazzo. E ogni volta riconoscevo la sua immagine, lo sguardo perso sulla strada o verso l’orizzonte, nell’inverno celato dal vetro della finestra, impassibile nei confronti del mondo e della vita che scorreva intorno a lei, con quell’inquietudine evanescente che avvolge sempre con il suo manto chi aspetta inutilmente.

Negli anni successivi, quando mi capitò saltuariamente di passare sotto quella finestra, mi ricordai di alzare gli occhi. Lei era sempre lì, con le braccia appoggiate al davanzale, l’ombrello accanto.

Trascorse ancora molto tempo, la mia vita aveva preso strade diverse e non ero più stato da quelle parti. Mi capitò ancora una volta, dopo alcuni anni, di percorrere quella strada. Mi accorsi subito che dietro quei vetri non c’era più nessuno. Provai una grande tristezza e sentii la mancanza di quella figura sfumata. Capii che era andata a raggiungere il suo amore e mi commossi.

A tutti noi capita di non riuscire a reagire ad alcune difficoltà cui la vita ci sottopone. Ognuno a suo modo ci prova.

Lei semplicemente aveva fatto una promessa: aveva donato il suo amore e la sua vita a un uomo, senza riserve, senza se e senza ma. Per continuare a vivere aveva bisogno che lui tornasse perché, in sua assenza, non riusciva a farlo.

Se potessimo fare un parallelismo tra quel comportamento e certi atteggiamenti spregiudicati di alcune ragazze di oggi, le quali sicuramente deriderebbero quella vecchina, marchiandola come pazza, io mi sentirei di difenderne la memoria. Secondo me è proprio il sentimento, e non l’intelligenza come certuni affermano, a discriminare l’uomo dalla bestia.

Questa storia, toccando corde nascoste e profonde dell’anima, per molti della zona è divenuta una vera e propria leggenda… La leggenda della vecchina con l’ombrello.


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