Il mio omonimo Giorgio Fontana, giovane amico, scrittore e giornalista milanese. Ci siamo inventati questo giochino: Giorgio Fontana intervista Giorgio Fontana che intervista Giorgio Fontana, un sequel….
Ciao Giorgio. Come si vive da intellettuali sui generis, non troppo schierati, un po’ defilati, un po’ troppo giovani nel cuore infartuato della Padania?
Ciao Giorgio. Dunque: la prima parola che mi viene in mente è: isolati. Anche se decisamente non sono “un po’ troppo giovane” — almeno, non mi sento tale a trent’anni.
Ciò detto, l’essere nato e cresciuto in un posto che di intellettuale e culturale ha meno di zero — Caronno Pertusella, paese industriale sotto i 15.000 abitanti dell’hinterland fra il milanese e il varesotto — mi ha anche dato subito una sana dose di realismo molto crudo e molto cautelativo. Più una lezione da non dimenticare: la “cultura” e il “pensiero” non stanno nell’iperuranio del fighettismo intellettuale, ma devono funzionare nel mondo di tutti i giorni. Importano i lettori, solo quello.
In ‘La velocità del buio‘ c’è qualcosa di emozionante e nuovo che risalta, secondo me, il fatto che sia finalmente un giovane di trent’anni a parlare di qualcuno che è sicuramente uno dei suoi padri politici, Silvio Berlusconi.
Perché i trentenni di oggi sono maturati con questo padre scomodo che ha dettato l’agenda del paese per 15 anni, incidendo sui loro padri veri a prescindere dalla loro collocazione e scelte politiche.
A un certo punto dico che la mia generazione è nata senza nostalgie. Anche qui: da un lato è triste e un po’ traumatico, perché non hai riferimenti: dall’altro ti concede un margine di libertà assoluta, uno spazio di movimento invidiabile. Anni fa Marco Mancassola scrisse una sorta di elogio dell’inquietudine (ora lo trovate qui). Diceva che “L’inquietudine è questo stato di chi si trova nel limbo, oggi, tra un’epoca storica e un’altra. È come correre nudi in un’immensa prateria. È tutto già visto, tutto sconosciuto, è tutto spaventoso e tutto bellissimo.” Forse non tutto è bellissimo, ora come ora, ma sicuramente questo stato di febbre e di limbo può essere anche qualcosa di positivo — uno strumento di conoscenza, come diceva ancora Marco.
La seconda emozione del libro è trovarvi incastonato il ricordo del mio conterraneo Piero Gobetti. Anzi più di un ricordo. Come se quel ragazzo eterno di venti anni fosse l’italiano che non è mai nato.Gobetti ucciso a vent’anni per le sue scelte politiche è un paradigma forte, come lo è quello che in pochi intensissimi e compulsivi anni ha scritto e fatto.
Già. Gobetti è un pensatore straordinario. Tutta “La rivoluzione liberale” è un libro che andrebbe letto e riletto più volte, e indubbiamente è uno dei padri spirituali del mio lavoro — forse il padre spirituale per eccellenza. A livello etico ancora prima che di ricerca, o di analisi.
Il berlusconismo è un cul de sac dentro al quale ci sono vittime che hanno deciso di non parlare più, come i giovani, ad esempio.
Guarda, è veramente difficile fare una radiografia delle “vittime” e dell’eventuale silenzio. I giovani secondo me parlano eccome, il problema è che a volte si parla male: si copiano senza volerlo gli stilemi del berlusconismo (penso a Beppe Grillo, to’), e li si spacciano per rivolta del pensiero. Ma la rivolta del pensiero è il pensiero critico, accidenti. È l’amore per la verità. Non urlare più forte del tuo avversario…
Ma i responsabili di tutto questo non sono soltanto i sostenitori del cavaliere…
Assolutamente no.
Siamo dentro un sacchetto di plastica? Dove la plastica è il il prodotto finale del nostro rifiuto di porci il problema dell’autenticità, della verità?
Moriremo soffocati o abbiamo uno spiraglio?
Eh, saperlo. Sì, la plastica è quella: quanto alla domanda, io credo di no. Altrimenti non avrei nemmeno scritto questo libro, non avrei nemmeno cercato di dare un minimo di pensiero positivo, con lo sguardo al futuro. Tocca come sempre a noi: la plastica in faccia, in fondo, possiamo levarcela quando vogliamo. È sempre più difficile, ma possiamo farlo.
Come interpreti i segnali che invadono il mediterraneo, come un marketig virale della democrazia?
Bella definizione! Sicuramente sono ottimi segnali — per loro senz’altro, visto che vengono da decenni di oscurantismo, tirannia e diseguaglianza sociale mostruosa. Per quanto riguarda l’Occidente, resta da capire se al di là del virale si possa agire concretamente: se si possa trovare un modello davvero sostenibile per la rivoluzione contemporanea dal basso, dalle strade, anche i paesi democratici. Senza fare violenza totale alla democrazia stessa, insomma. Naturalmente penso a Puerta del Sol e al Movimiento M 15: il fermento è quello giusto, ora si tratta di tirare le somme — il compito più difficile.
Scrivere per la carta e scrivere per il web, ha creato una tipologia nuova di intellettuale, più consapevole meno chiuso in una torre d’avorio ed anche meno organico agli schieramenti?
È uno dei temi più cari. Credo che il web abbia dato uno scossone significativo all’idea dell’intellettuale come tizio un po’ strambo e arroccato nel suo sapere — soprattutto, credo abbia dato uno scossone all’aura che circonda questa figura. Ma non basta. Le cricche e gli egocentrismi della pagina di carta sono sempre riproducibili, in maniere diverse, sul formato digitale: quello che ci vuole è smetterla una volta per tutte di pensare al nome e alla firma, e concentrarsi unicamente sul contenuto. Su questo ho scritto un pezzo che si chiama Passare dall’intellettuale al pensiero. E se dovessi scegliere una frase-manifesto, sarebbe quella dei giovani Hoelderlin, Hegel e Schelling: “non più lo sguardo pieno di disprezzo, non più il cieco tremare del popolo davanti ai suoi saggi e ai suoi profeti”. (Citazione da nerd, lo so, lo so).
La velocità del buio è anche una metafora per cercare un equilibrio tra necessità del progresso tecnologico e limiti umani nel comprenderlo e assecondarlo?
Credi che dovremmo fermarci tutti a riflettere e capire se vogliamo veramente crescere in questo modo?
Sì, può essere una metafora calzante anche per questo — sebbene il progresso tecnologico non spinga, di per sé, a una crisi nera come quella dove ci ha portato il berlusconismo. In ogni caso mi sembra sempre più urgente “fermarsi a riflettere”, in ogni campo, compreso quello dello sviluppo delle macchine. Viviamo un periodo di estrema velocità, di continua corsa all’innovazione — come se il pensiero critico e l’analisi siano di per sé una zavorra, e comunque inadatti al regime iper-informativo cui siamo sottoposti.
Se dovessi chiosare la legge di Moore — per cui i transistor sui circuiti integrati raddoppiano, senza aumentare di prezzo, ogni due anni — direi che a questo aumento corrispondere anche un incremento di comprensione della tecnologia in quanto tale. Ma così non è. Credo abbia ragione Kevin Kelly, quando si domanda “cosa vuole la tecnologia“. La sua risposta può non essere condivisibile, ma la questione è quella giusta.
Grazie Giorgio, il tuo libro merita di essere comprato, letto e consigliato.