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La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa Mannetti

Creato il 05 novembre 2011 da Alessandro Manzetti @amanzetti

La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa Mannetti
Per chi non ha ancora scaricato Arkana-Racconti da Incubo (Il Posto Nero Free eBooks), il primo titolo eBook gratuito realizzato da Il Posto Nero Free eBooks, una raccolta di racconti horror di grandi autori internazionali curata dal sottoscritto insieme a Daniele Bonfanti, oggi potete godervi un gustoso assaggio leggendo il racconto integrale Castello, 985 di Lisa Mannetti.
Ci saranno poi altre occasioni per conoscere la narrativa di questa autrice: il suo racconto Vincono Tutti, tradotto da Luigi Musolino, sarà pubblicato sul numero uno del nuovo Web Magazine del Posto Nero Maman Brigitte, di prossima uscita, mentre il prossimo anno il suo romanzo The Gentling Box, vincitore del Bram Stoker Award, sarà pubblicato in italia da Edizioni XII, nella collana Eclissi.
Il racconto che trovate qui, Castello, 985, è ambientato a Venezia durante il Carnevale, ed  è stato scritto dall'autrice durante un suo soggiorno  in questa affascinante e nello stesso tempo oscura città. Il racconto è caratterizzato da grandi atmosfere, dai dettagli di strade e di canali in cui si mescolano maschere, colori, visioni, danze oscure, mentre la folla percorre affannata la pancia della città senza accorgersi della vita sotterranea e arcana di Venezia, dei suoi misteri, di leggende senza tempo. La bellezza, l'arte, l'amore, l'ossessione e l'orrore più profondo sono i pennelli che Lisa Mannetti usa per coinvolgerci in una gotica e imprevedibile storia. Dietro le maschere, tra le mura di antiche case e negli angoli più remoti delle emozioni umane, Castello, 985 scopre per noi un'altra Venezia, convincendoci, con grande sensualità, a scendere molti gradini verso l'Inferno. Poi sarà troppo tardi per tornare indietro.
Castello, 985di Lisa Mannetti(traduzione di Alessandro Manzetti)
L’enorme tavolo della cucina di Tom conteneva un umido guazzabuglio di fotografie, pagine dattiloscritte e illustrazioni. Alcuni dei pennelli e delle penne di Tom erano ancora nel supporto di ceramica bianca, altri giacevano sparsi nella deriva di carte zuppe e asciutte e quello che restava di una bottiglia di vino rovesciato.  Dal computer in camera da letto in fondo al corridoio, il tema giungla dello screen saver urlò con il verso di un elefante. Per quanto ne sapeva Tom, lo screen-saver aveva continuato a strillargli addosso ogni istante per più di due settimane.  «Sta’ zitto», disse al computer; ma non si mosse dal piccolo divano del salotto dell’appartamento, né tolse lo sguardo dal televisore che mostrava due ragazze che si ficcavano la lingua giù in gola a vicenda. C'erano due canali televisivi a Venezia che propagavano una serie continua di messaggi pubblicitari per sesso telefonico – perlomeno Tom pensava che fossero per sesso telefonico –, quello sul quale era sintonizzato in quel momento era il più conservatore: le ragazze mantenevano sempre le loro mutandine. Sull'altro canale, le ragazze a volte erano nude, ma non facevano mai altro che fingere di toccarsi l'un l'altra. Nessun uomo era mai presente; c’erano solo le due pollastre e l'occhio della telecamera  Guardò verso la cucina e il disordine sul tavolo; una delle sedie di legno bianco ospitava due delle tre telecamere che Tom Breede aveva portato dall’America con tante belle speranze. E così come non era sicuro se quelle ridotte scene di sesso fossero annunci per vendere qualche chiacchierata spinta al telefono, non sapeva nemmeno dove fosse finita la sua terza telecamera. Immaginò che avesse fatto la stessa fine del libro che avrebbe dovuto stare scrivendo; si strinse nelle spalle e parlò ad alta voce: «In mezzo al nulla, amico. In mezzo al nulla!» Iniziò a ridere, poi si fermò. Fu preso dal timore che se avesse lasciato uscire un rumore dalla sua gola, sarebbe stato un singhiozzo.
La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa Mannetti     ***     Per la cinquecentesima volta – no, era ormai la millesima – si disse che poteva ripulire tutta la merda, tornare in pista. «Chiama Jefferson», sussurrò a se stesso, «Chiama», nello stesso tempo, con il braccio teso, fece scattare il pulsante del telecomando sintonizzandosi sull’altro canale di annunci sessuali dove le ragazze si artigliavano a vicenda la biancheria intima. In quel momento, si trovavano in uno spogliatoio femminile, guardandosi l’un l’altra – anche se avrebbero potuto benissimo essere in un ristorante, un bar, un bagno, un soggiorno, un cortile, in realtà quasi ovunque – come Tom sapeva bene. Comprese di aver visto ormai le stesse serie di annunci su questi canali cento o – prendere o lasciare – duecento volte. «Non ti sei ancora annoiato o spaventato abbastanza, Tommy?» si chiese. «Sei in alto mare, amico, e stai annegando».  Guardò lo schermo, la ragazza bionda possedeva seni artificiosamente grandi stava togliendosi la camicetta da palestra color lavanda facendola passare sopra la testa. Sapeva fin troppo bene cosa gli avrebbe detto Jeff Lang: Amico, Margaret ti ha già azzoppato, ora non spararti nelle palle. Sapeva anche ovviamente come sarebbero andate a finire quelle scene provocanti, e quello che avrebbe detto il suo migliore amico. Ma se lui era venuto a Venezia per guarire, forse aveva bisogno di sentirlo. Dal vivo, a voce alta e dalla bocca stessa di Jefferson – anche se quel buon consiglio era dall'altra parte dell'Atlantico. Forse. Guardò l'orologio e vide che erano le cinque della mattina. Ciò significava che erano le undici di sera sulla costa orientale – il lavatoio delle Puttane, Jefferson aveva sempre definito così quell’area, affermava che anche le montagne là erano stanche, sudice e depresse, non certo come nell’ovest, da dove Jefferson proveniva. Jeff, pensò sogghignando; era passato così tanto tempo, avvertì l’espressione innaturale sul suo volto. Quella sensazione, per quanto la cosa fosse insignificante, funzionò. Tom si alzò improvvisamente e prima di lasciar spazio al sabotatore che viveva dentro la sua mente, era già cucina per comporre un numero telefonico.
La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa Mannetti     ***   «Sei appena barcollato in casa?» esplose allegramente Jefferson al telefono dopo la serie di bip e toni cinguettanti che collegarono Tom al suo migliore amico per qualcosa come un dollaro e cinquanta al minuto. «Nottatona, eh?»  «Non è proprio così», disse Tom. Una parte di lui voleva improvvisamente mentire – anche a Jefferson – perché non poteva sopportare l'idea di sentire la delusione nella sua voce.  «Be’, com’è allora?» Sentì, lungo i fili del telefono, Jefferson accendersi una sigaretta. «Dalle email che hai inviato, sembra tutto incredibilmente bello».  Voleva mentire, dire che era proprio così; anzi, meglio. Perché, in un primo momento, a Tom Venezia aveva davvero fatto bene. Aveva davvero pensato che la salvezza fosse volata su antiche ali di marmo atterrando sulle sue spalle. Una bella fetta di ottimo lavoro era stata compiuta. Tom si era sentito completo – per poco; poi, a pezzi e dannato. «è così», Tom respirò nel telefono. «Se c’è un Dio, è il figlio di puttana più malvagio che sia mai vissuto».  «Non riesco a seguirti» riprese Jeff, ma Tom lo interruppe.  «Ero su un ponte, in piedi sopra la più bella opera d’edilizia mai concepita da un essere umano. Mi trovavo proprio nel bel mezzo di una specie di… sì, una preghiera di ringraziamento, e, giuro su Cristo e sugli Apostoli – in quel preciso istante, ho sentito la maledetta voce di Margaret trapanarmi la testa. Tutta la discussione, tutta la scenata della rottura, è tornata in prima linea nella mia dannata testa».  Ci fu una breve pausa, mentre ai due amici singolarmente tornavano in mente immagini della relazione logora e pasticciata in cui si era trovato Tom e che l’aveva infine condotto a Venezia, nella miseria e nella disperazione dopo due anni di tentativi di superare il tradimento di Margaret. Jefferson era già stato là – “prima e dopo l’operazione”, come amava dire – e conosceva bene com’era la storia.  «Be’ come sta la Super Puttana dell’industria editoriale, cosa ti ha detto sua Merdosa Signoria?»  «Bah, solo sei parole». Tom accese una sigaretta. «Per essere esatti». La sua ira si stava accendendo, esalò scompostamente: «Mi ha detto, cito testualmente: Dov’è quel cazzo di manoscritto, Breede?»  «Sono sette parole, ragazzo – o non sai nemmeno contare?» Con grande sorpresa di Tom, Jefferson iniziò improvvisamente a ridere. «E questo romanzo breve è arrivato per fax, per posta dall’Italia, o per email magari – oppure ha tagliato il budget e usiamo il telegrafo?»Ora Jeff era riuscito a far ridere anche lui. Non è che Jefferson avesse mai apprezzato granché Margaret: A nessuno di noi piaceva neanche un po’. Abbiamo sopportato le sue stronzate, perché sapevamo che eri innamorato di lei, Tom. Il “noi” era rappresentato da un gruppo di docenti aggiunti di Arte e di Inglese all’Università di New York. Gli interessi accademici di Tom, infatti, erano la causa – apparente – del suo lungo periodo sabbatico trascorso a Venezia.  «Come sedicente scrittrice e signora dell’editoria, di sicuro scrive poco o un cazzo», Jefferson continuò a lungo… e quando alla fine riattaccarono – circa quaranta minuti e sessantacinque dollari dopo – Tom sentì di poter far tesoro del tempo che ancora avrebbe trascorso a Venezia, dopotutto. «Sei tu quello con il talento, Tom», Jeff aveva concluso così. «Margaret è come un parassita, assorbe quello che può da chi le sta intorno».  Jeff aveva ragione, Tom si decise, scaricando nella bocca aperta del cestino il piatto della cena pieno di mozziconi di sigarette. Sentiva le parole di Jeff nella sua testa, e Jeff rappresentava la voce della ragione – lui non è certo il tipo da coccolarti troppo, se dovesse pensare che stai sbagliando lo direbbe senza mezzi termini. Sicuro come l'inferno che l’aveva detto a Margaret. La voce di Jeff – Tom sorrise mettendo a posto il disordine, organizzando le carte e le pagine ancora utilizzabili – «D’accordo lo scorso autunno ti sei messo nei casini, le hai dato una sinossi che hai tirato fuori di sana pianta per pura disperazione, e adesso la Regina Margaret protesta perché non le hai ancora mandato il fottuto libro. Tutto qui. Goditi il sapore di Venezia, assaporalo come farebbe un conoscitore di vini con un Rothschild», disse Jeff Lang. «O come sbaverebbe un feticista davanti a un paio di scarpe di Bruno Magli misura trentasette e mezzo. E non chiamarmi di nuovo – finché non ti sarai portato a letto qualcuna».  Accatastati i piatti nella lavastoviglie, Tom rise di se stesso.  Per Dio se poteva farlo. Il Harry’s Bar era a uno sputo dal suo appartamento, il Carnevale era imminente. Avrebbe potuto agganciare qualcuna e godersi con lei due settimane di brillante divertimento. C’erano feste e balli in maschera… Stipò una manciata di forchette e coltelli nel cestello delle posate. E non aveva davvero senso guardare alla televisione le fantasie masturbatorie di qualcun altro – non quando tutto il mondo e Venezia animavano luci e magie appena fuori dal mogano e dal bagliore d’ottone delle sue finestre da vecchio mondo – dalle lunghe persiane di legno dipinte di verde che lo avevano tenuto rinchiuso per più di una quindicina di giorni.
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Si fece una dormita di alcune ore, si lavò e cacciò la testa fuori dalla porta alle cinque del pomeriggio. Tom fu sorpreso dai cambiamenti, avvenuti nel suo quartiere mentre era rimasto avvolto nel bozzolo del suo appartamento come un insetto troppo cresciuto. Luci colorate ornavano Via Garibaldi – un insieme di occhi di gatto verdi e mascherine blu, estrose signore che mostravano rosse silhouette; in cima alla strada, un grande arco composto di luci gialle al neon accendeva la scritta “Il Vecchio Carnevale”. Sulla passeggiata di Riva degli Schiavoni, erano decuplicati i venditori ambulanti e decuplicata era la mercanzia in marionette, maschere, mantelli, parrucche, cappelli piumati e a tre punte. Si sorprese di se stesso quando si fermò a provare una spettrale maschera bianca, mentre il vento passava ferocemente attraverso il bacino e la cupola blu di una chiesa che si stagliava su di lui. Guardò in uno specchio, si tolse la maschera – ci vorrebbe un cappello, forse, ma non qui… la merce dei venditori ambulanti era scadente e kitsch.  Tom camminava svelto, sbattendo i tacchi sul marciapiede e, pochi minuti dopo, stava già spingendo la porta girevole per accomodarsi tra le calde mura gialle dell’Harry’s. Già che siamo in ballo… si disse, e chiese al cameriere in giacca bianca di portargli un Bellini.  Non trovò molto coraggio liquido nel bicchiere, la gradazione alcolica era troppo bassa, visto anche che si trattava di una bevanda che combina succo di pesca con champagne – ma abbastanza per spingere Tom, pochi minuti dopo, a parlare con una donna dai capelli scuri appollaiata su uno sgabello del bar.  «Ah, mi chiedevo se avresti parlato con me». L’allegria gli brillava addosso dagli occhi scuri e scintillanti della donna. L’accento italiano nell’inglese di Rita Zaccaria era del tipo che Tom associava a raffinatezza e cultura. Sembrava molto istruita, d’alta classe. Nello stesso tempo, c'era qualcosa di volgare e felino nei suoi movimenti – come se vestisse una gonna da flamenco che costantemente si agitava e frusciava attorno ai suoi fianchi, al posto della stretta guaina di seta grigia che aveva addosso. Tom sorrise accennando con il suo bicchiere verso la donna. «Ciao», le disse in italiano.  «E sapevo anche che mi avresti pagato da bere», ribatté lei, prima ancora che lui avesse la l’opportunità di offrirle qualcosa. Rise in modo gutturale quando lui alzò le sopracciglia in un’espressione solo in parte buffamente sorpresa.Scivolarono in una semplice conversazione. Lei aveva vissuto negli Stati Uniti per due anni – capì che doveva essere stato qualche tempo fa, perché era sulla quarantina, no? Ma quel tipo di quarantina, pensò Tom cercando di tenere in qualche maniera sotto controllo l’attrazione che sentiva, che combinava gioventù e sofisticatezza, audacia e mistero. Le raccontò del suo anno sabbatico e del suo appartamento a Castello, numero 985.  «Così sei venuto a Venezia il primo di ottobre, hai visto molte cose, ti sei innamorato di una città così bella… e poi?» Stavano bevendo cognac ora, gli occhi di giada scura di Rita apparivano molto grandi sopra l’orlo del bicchiere. Tom pensò che il cristallo ingrandiva la pelle lucente attorno alle sue labbra e ai bordi delle guance. Una delle sue mani aveva leggermente fiorato il suo polso e Tom capì che lei aveva inteso che dopo un certo momento a Venezia le cose per lui avevano preso una brutta piega. Niente Margaret, pensò. Non voglio parlare di Margaret, non voglio dare ancora importanza a quella cagna. Jeff l’avrebbe detto meglio, “Che diavolo stai facendo lì anche solo a pensare ancora a quel vampiro succhia-energia?”  Si accesero le sigarette, Tom raccolse i suoi pensieri: Niente Margaret. No, lui avrebbe raccontato a Rita, invece, della strana serie di eventi e di impressioni che si erano intrecciati tra i fili delle consumate reti da pesca della Venezia andata a male. Ricordò il momento in cui tutto improvvisamente prese cattivo odore, la puzza dei liquami trattati che aleggiava nell'aria umida, perfino il suo respiro era fetido. Questa sozzura aveva rivestito la sua gola e la sua lingua, lasciando un sapore così terribile, che non solo l’aveva fatto svegliare una notte, ma l’aveva costretto anche a restare a lungo sdraiato con gli occhi aperti nel buio. Aveva ritrovato quel sapore anche nella menta del dentifricio americano. Non riusciva a mandarlo via né spazzolandosi i denti né facendo i gargarismi. Quella maledizione l’aveva accompagnato per giorni, Tom notava le persone arretrare da lui, per repulsione verso la puzza che viaggiava insieme alle sue parole. Ma no, si corresse dentro di sé, un’altra volta. In realtà era iniziata con i bambini – e da lì avrebbe iniziato lui. Prese un rumoroso respiro e attaccò.  «Mi sembra che gli italiani amino i bambini», disse, guardando l’assenso di Rita, i suoi lunghi capelli immersi verso il rigonfiamento dei suoi seni.
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  «Certo», rispose in italiano lei, non per interromperlo ma per incoraggiarlo, annuendo«Ho sempre osservato le donne anziane, i vecchi sorridenti per le loro buffonate. In Via Garibaldi potevi vedere un padre con suo figlio, mentre i due prendevano pigramente a calci un pallone, o una giovane madre che teneva per mano la sua bambina, magari fermandosi per pulirle la bocca mentre la ragazzina teneva saldamente in mano un grande cono gelato gocciolante».  Con gli occhi della mente, lui vide quelle scene circonfuse di luce solare – la luce, ricordò più o meno accuratamente, rappresentava radiosità, lui lo sapeva. Era la contropartita per l’armonia emotiva che aveva avvertito dentro di sé a Venezia i primi tempi, il barometro della sua interiorità soleggiata. Raccontò questo a Rita, sembrava che lei lo stesse seguendo ma non poteva esserne sicuro. Continuò comunque.  «Poi la luce è scomparsa», disse Tom, accendendo un altro giro di sigarette per entrambi. «All’inizio era soltanto tutto grigio, poi la completa oscurità»  «E gli incidenti, gli eventi?» Ora era seria, solidale; non c’era alcun movimento nei suoi occhi, il suo viso era fermo, stava ascoltando concentrandosi su quello che lui stava dicendo. Si sentì sollevato; aveva capito, dopo tutto.  «Sì, sono cambiati. Hai proprio centrato il problema». Esalò, sorseggiando ancora cognac. Nell’istante in cui abbassò il bicchiere, le dita di lei avvolsero i suoi polsi. «Ho sentito gridare una notte – un bambino che piangeva nell’appartamento accanto. Notte dopo notte, è diventato sempre peggio, fino a quando" – fece una pausa. «Non ci furono altro che gemiti spezzati, una sofferenza da straziare il cuore. E poi»  «E questa non è la parte peggiore, vero?»  «Esatto», sibilò lui di nuovo. «Colpi», la sigaretta era adesso nel posacenere, Tom si coprì con le mani gli occhi e il viso, «botte. Ho sentito schiaffi, poi un orribile silenzio…», le sue mani abbandonarono il viso, ma non riusciva a guardare Rita negli occhi, «poi iniziò il pianto, in un primo momento leggero e irregolare, per poi crescere di tono». Fece una pausa, cercò di afferrare goffamente la sigaretta facendola rotolare contro il bordo del posacenere e poi sul bancone. Rita la riprese e gliela porse, lui tirò una lunga boccata. «Alla fine», disse Tom, con la voce affievolita dalla tristezza, «mi parve il rumore di un corpo – il corpo di un bambino piccolo – agitato e sbattuto contro il muro». Tom toccò la bolla di vetro del bicchiere, facendo segno al cameriere; poi lo sollevò prima che quello arrivasse con qualcosa di fresco da bere, lasciando che il resto dell’Hennessy gli lavasse la lingua e la gola. «E dopo quella volta», disse, «è iniziato quello che ho visto nelle strade. Genitori che urlavano ai loro figli, colpendoli… e»  «E questo non è ancora il peggio…» – stavolta lui alzò davvero le sopracciglia per la sorpresa, si rendeva conto che i suoi occhi riflettevano disagio, ma prima che potesse chiederle qualcosa, lei lo anticipò – «non c’è nessun bambino che vive nell’appartamento accanto». Smorzò la sigaretta nel bordo azzurro cielo del posacenere. «è così, vero?»  «Come fai a saperlo?» Tom cercò di mantenere stabile la sua voce.  Lei si strinse nelle spalle. «Quasi tutti qui a Venezia conoscono questa storia».  «Quale storia? Nessuno mi ha mai detto niente»  Lei sorrise appena. «Nessuno parla abbastanza bene in inglese per potertelo raccontare». E Tom dovette darle ragione, il suo italiano era mediocre e l’inglese dei suoi vicini quasi inesistente. «Ma c’è un motivo ancora più importante», disse Rita, «sono superstiziosi. Non ne parlano perché non vogliono sentire i bambini piangere».  «Bambino», Tom la corresse  «Bambini», insisté lei. «Molti bambini. Nessuno ne parla perché ognuno pensa tra sé, Lasciamo pure che l’americano li ascolti, li senta piangere, gemere e supplicare. Il nostro sonno così non sarà disturbato, i bambini devono piangere e qualcuno li deve ascoltare – quindi meglio lasciarli a lui».  «Ma cosa stai dicendo?» Aveva intuito i contorni del suo racconto, e non poteva crederci. Le infestazioni avevano a che fare con le morti premature, era la storia di fantasmi più vecchia del mondo – gli balenarono nella memoria quegli odori fetidi e soffocanti.  «Ti sto dicendo che dei bambini sono stati uccisi lì, e gettati in un pozzo – è questo il pianto che senti».  Si sentì deriso – giustamente, gli parve. «Oh, andiamo. Le pareti sono di carta velina. Se io scoreggio, sento la gente dall’altra parte del muro accendere le candele per sbarazzarsi dei miei odori».  Lei ridacchiò. «Sì, ora, perché gli appartamenti sono stati divisi», e aggiunse in italiano: «Capisci?» Tenne sollevate tre dita separate. Lui era nell'appartamento di mezzo. «Ora», disse Rita, «tre. Ma, cinquant’anni fa, erano una casa sola».  «Le finestre», disse Tom stancamente, «vanno praticamente dal pavimento al soffitto»
«Sì, sono così», annuì Rita. «Adesso», disse in italiano. «Oggi. Negli ultimi dieci anni, il comune ha fatto ristrutturare l’edificio dai proprietari per far entrare aria e luce. Le persone si trasferivano da Venezia a Mestre e a Treviso in cerca di abitazioni più moderne. Erano stanchi di ambienti d’altri tempi – “d’altri tempi” significava umidità e buio e freddo»Durante le sue ricerche su Venezia aveva letto di questo fatto, e le parole della donna cominciarono a suonargli vere. Quello che diceva iniziò a prendere senso. Bambini assassinati e murati dietro spesse mura di vecchi mattoni, il loro grido soffocato dalle pietre… Anche sentendo le grida, sarebbe stato difficile individuare la loro provenienza in quel dedalo di vicoli. Le finestre chiuse e morte di edifici abbandonati, la città che sanguina la sua popolazione sulla terraferma… Sì, senza essere mai preso qualcuno avrebbe potuto intrappolare e massacrare bambini per un lungo periodo di tempo, allora
  Rita interruppe, in italiano, i suoi pensieri.  Adesso, aveva detto Rita. E all’improvviso lui comprese che il libro che avrebbe dovuto scrivere avrebbe riguardato i bambini di Venezia – avrebbe scritto di loro, li avrebbe fotografati nella luce del sole –, questi bambini, i figli di oggi, sarebbero stati una sorta di peana per quelli scomparsi. Ma non avrebbe trascurato quegli altri. Pensò alle decine di fotografie che aveva scattato di strade vuote; di nebbia che cresceva da canali bui e silenziosi. Il contrasto sarebbe stato perfetto per mostrare e simboleggiare Venezia e i suoi figli, perché Venezia era, senz’altro, una città di contrasti: tormentata e aperta, silenziosa e rumorosa, antica e moderna… sì…  Tom sorrise a Rita di colpo, come se l’oscura memoria del pianto terribile che aveva ascoltato fosse stata spazzata via come inquietanti vortici di nebbia inseguiti dal sole attraverso il canale. Gli occhi scuri di lei si illuminarono come colti da un bagliore di fiamma incontrando i suoi. Tom sentì guarire una ferita dentro di lui.  «Sì. Carnevale è in arrivo – giusto in tempo per ridere e festeggiare», la mano sottile di lei scivolò nel palmo della sua. «Ho incontrato spesso americani che non sanno gustarsi l’allegria, la assumono solo in piccole dosi», il suo volto brillava divertito, «proprio nello stesso modo in cui in Italia si prende un cucchiaio di qualche medicina».  Tom rise. Aveva ragione. «Nessun senso di colpa per i piaceri», concordò. «Solo divertimento».  «Adesso comincia a vivere, a diventare un italiano, eh?»Lasciarono il bar subito dopo, e si spostarono a braccetto sui ciottoli usurati della riva. La luna era vestita dello stesso bianco dei merletti incerati che aveva visto a Burano. Le facciate illuminate a giorno della chiesa della Salute, del Redentore e di San Giorgio Maggiore si irradiavano su di loro. Rita si voltò e nascose la testa sotto l’incavatura del mento di Tom. Lui fissò oltre la donna, l’acqua increspata. La prima volta che Margaret era rimasta incinta, quando poi abortì lui si era sentito triste, si era accartocciato su se stesso. Un anno dopo, quand’era rimasta di nuovo incinta, si era scagliato invece contro di lei. Ma lei aveva già rotto con lui una volta, e al tempo della seconda gravidanza aveva capito che lei lo tradiva. Si era sentito gridarle contro: «Ma che diavolo ti aspetti da me, Margaret, io non so nemmeno se è mio». Aveva poi abortito anche quella volta. Il rapporto aveva zoppicato avanti per qualche altro mese fino a quando Margaret aveva chiamato per chiudere la storia. Quel giorno gli aveva fatto sapere al telefono che il suo rivale aveva avuto la meglio su Tom, Non volevo perdere la testa per John, è successo e basta, si lamentò con lui Margaret. Ma doveva proprio menzionare il tizio? Margaret lavorava con lui, Tom sapeva solo ciò che Margaret gli aveva riferito – al diavolo, aveva visto quel tipo solo, mah, una o due volte, quando Margaret lo aveva trascinato a una festa in ufficio, o a una festa del quattro luglio dagli Hampton? Eppure, lei aveva fatto vivere Tom nell’ansia della gelosia per più di un anno, negando qualsiasi coinvolgimento con ’sto John del cavolo, per poi alla fine gettarglielo in faccia lo stesso, come una bella sorsata d’acqua di mare sporca. Ma che senso aveva tirare fuori John… Al telefono, poi…  «Non piangere per questa donna, chiunque lei fosse», sussurrò Rita nella pelle della sua gola.  «Come fai a sapere che c’era di mezzo una donna».  «Gli uomini non piangono per i bambini e»  «Mi sento come se tu potessi guardare attraverso di me fino all’anima», sussurrò lui, avvolgendo le braccia più strettamente intorno alla sua schiena e premendo insieme i loro corpi .  «Perché le nostre anime sono la stessa cosa», disse Rita, e Tom capì che lei aveva percepito il suo momento oscuro, quando si era rintanato in casa smarrito come uno dei bambini sepolti nelle stanze accanto a casa sua.  «Mi sento come se ti conoscessi da una vita», rispose Tom. Una delle sue mani scorse attraverso la curva morbida dei capelli di Rita, poi trovata la sua piccola mascella la sostenne dolcemente nel palmo della mano inclinandola verso l’alto.«Tom caro», disse, e in italiano: «Mio bel ragazzo…» La sua bocca era deliziosamente vicina. «Niente più infelicità, eh?» I polpastrelli dell’uomo sfiorarono l’orecchio di lei, poi si baciarono a lungo. Si sentì bene e poi ancora meglio, sì, perché avvertì la voglia della donna, la sua attrazione nei suoi confronti. Le sospirò nella bocca e sentì le mani di lei stringersi più forte. Ma faceva troppo freddo sulla riva con il vento umido che soffiava lungo tutto il canale. «Bella ragazza», ricambiò lui in italiano quando il bacio si interruppe.  Cominciarono a passeggiare, le braccia attorno ai fianchi; le loro orme battevano il marciapiede e non c’era bisogno di aggiungere parole a quel suono, pensò Tom. Era un po’ su di giri – per gli alcolici e la crescente marea di sentimenti dentro di lui.  La luna, il bacio, la passeggiata sulla riva, questi sarebbero stati tra gli ultimi momenti completamente spensierati e innocenti che Tom Breede avrebbe conosciuto.
La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa Mannetti
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«Immagino che finalmente te ne sei portato a letto una», Jefferson rise e Tom udì il familiare scatto dell’accendino d’antiquariato sotto il pollice dell’amico, e il suono sfiatato di Jeff che esalava il fumo.  «Mi avevi detto di non chiamare prima». Erano le due di mattina negli Stati Uniti, Tom lo sapeva. Sentì un debole mormorio di una voce femminile sullo sfondo. Un rumore scricchiolante simile al movimento delle molle del letto, Tom era abbastanza sicuro che Jefferson avesse appena messo un braccio intorno a Bebe, la sua donna fissa e fedele. A Tom piaceva Bebe, erano amici indipendente dalla sua relazione con Jeff. Una vera amicizia, non come quella farsa con Margaret. Certo che no, gli aveva detto una volta Bebe dopo qualche birra di troppo all’Helter Skelter, il bar del Village dove giravano allo stesso modo studenti e docenti aggiunti, Margaret non è in grado di essere amica di un uomo, gli uomini sono solo conquiste. Punto. Bebe era stata presente durante tutta la squallida pantomima di Margaret, come amava definirla, e Tom si era chiesto se Bebe fosse un po’ gelosa – finché si rese conto Bebe era altrettanto attraente, probabilmente due volte più intelligente, e una donna con un cuore vero. «Sembri bello sveglio», disse a Jeff, «che cosa state combinando voi due a quest’ora?»«Cosa ci fai tu in piedi così presto», replicò Jefferson.  «Lo stesso di te con Bebe», disse Tom, con un’occhiata verso la porta aperta della sua camera da letto. Dal bagno in fondo al corridoio sentiva il sibilo della doccia; Rita mormorava dolcemente.  «Allora, com’è lei?»  «Oh, Jeff. Penso che sia proprio quella giusta. Come te e Bebe, mi capisci? Le somiglia anche un po’ – lunghi capelli lucenti e scuri, occhi verdi, snella. È semplicemente fantastica e»  «Uh, certo». Ci fu una pausa, Tom resto in ascolto nell’attesa del suono di un’altra sigaretta accesa, ma gli giunse solo silenzio dall’altro capo, o forse semplicemente non udì il magico gesto a una mano, inconfondibile marchio di fabbrica del suo amico Lang, nell’atto di accendersene una.  «Scherzi a parte, Jefferson. Io sono innamorato di questa donna»  «Da quanto tempo la conosci?»  Tom esalò un fiotto di fumo. «Va bene, ti seguo, ma Jeff»  «No, voglio dire che se dici che è proprio quella giusta, allora devo crederci. È solo che»  «è solo che non conoscevo neppure Margaret da molto tempo, questo è quello che mi volevi dire».  «No, ma»  «Ma»  «Solo una sensazione, Tom». Jefferson stavolta accese una sigaretta, a Tom piaceva provare questa condivisione del momento e delle sigarette pur attraverso i tanti chilometri che li separavano. «Solo una sensazione, ma mi suoni come allora – come la prima volta che mi hai detto di esserti innamorato di Margaret»  «Be’, questa è da tenersela stretta. Lei ha cuore, è fedele. Pensa a Bebe».  «Lo faccio. Lo farò. Se lo dici tu, lei è come Bebe».  «Le somiglia anche», ripeté Tom. «Scura e incantevole…»  «Sì, l’hai già detto. E sì, Bebe è così», la voce di Jefferson si abbassò a un deciso suono d’avvertimento: «Ma entrambi sappiamo che è così anche Margaret».Non era si poteva negare che Margaret avesse tratti e colori simili, e tutti e due si arrangiarono a smorzare lo scossone che la sensazione di Jeff aveva dato alla conversazione, ma attaccarono il telefono prima di quanto avrebbero dovuto fare, pensò Tom. Non era infastidito, solo meno che soddisfatto della sua chiacchierata transatlantica con Jeff. Al diavolo, uno chiama qualcuno per un dannato dollaro e mezzo al minuto per dargli buona notizia, ci si aspetta, be’, vorresti insomma che un amico condivida l’entusiasmo.  Si strofinò la fronte, premendo in modo da attenuare la tensione o cancellare i pensieri negativi – che cos’aveva detto Jefferson? Tu lo sai, amico, se non si impara bene la lezione bisogna ripassarci di nuovo. Il lato sarcastico di Tom voleva rispondere con: Stiamo parlando di storia, Jeff vecchio amico mio – di come il passato si ripete? Oppure stiamo parlando fuffa Zen? Perché l’unica lezione che ho imparato è stata che il tizio che sparava tutte quelle cazzate in Il prodigio celeste – o come cazzo s’intitolava – ha riscritto esattamente le stesse stronzate nel libro successivo e ha fatto un sacco di soldi. Ma aveva lasciato perdere il suo lato maligno e aveva detto a Jeff d’accordo, Lang aveva ragione e sarebbe stato attento.  Il dolore sopra l’arcata nasale di Tom si attenuò e, al tempo stesso si disse di non pensarci più, Rita arrivò a grandi passi nella stanza portando l’odore pulito dell’umidità della doccia sulla pelle nuda. Sdraiato sul letto, Tom aprì le braccia e lei cadde nel suo abbraccio
La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa Mannetti
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Era Sabato, il quarto di marzo. Il Carnevale stava nello stesso momento innestando una nuova marcia e esaurendosi, pensò Tom giocando con il drink che aveva di fronte sul tavolo basso in legno del Florian. Era tutto vero ciò che accadeva tra lui e Rita Zaccaria? si chiese guardando l’espressione fissa del suo piccolo viso. Lei stava guardando la gente, ignorandolo.  Come se – almeno in parte – lei avesse ascoltato i suoi pensieri, i suoi occhi verde scuro si sollevarono per incontrare i suoi, si appoggiò allo schienale della seggiola e disse: «è sempre così poco prima della fine del Carnevale, eh? Il fine settimana arrivano più turisti, ma alcune delle persone che sono state qui a lungo sono stanche di tutto questo…»  «Un po’, credo». Lui si sporse avanti lungo il tavolino, prese la sua mano per cercare il suo sguardo. Non voleva stancarsi di lei, o che si stancassero l’uno dell’altro. Sicuramente la loro relazione non poteva già essere logora – come i bordi strascicati delle ampie gonne femminili di una volta… Seguì il suo sguardo fisso. Intorno a loro, la gente festeggiava con costumi elaborati, beveva caffè e liquori, mangiava spuntini o cene vere e proprie. Si riusciva a riconoscere chi era qui da un po’, e chi era appena arrivato, proprio come – si sorprese completando il pensiero ad alta voce: «Proprio come sarebbe facile distinguere una coppia appena sposata da chi invece si trova nel mezzo di un matrimonio che è diventato stantio e triste».  «L’eccitazione nasce e poi svanisce», disse Rita. «Anche la temporanea eccitazione del Carnevale». Stinse le sue dita brevemente, poi le lasciò andare. «Sarà ancora meglio – poco prima della fine».  Alla fine? Voleva dire della loro?  «Beviamoci qualcos’altro». Stava cercando di sviare la sua inquietudine? Lei sorrise, ma non c’era molta luce nei suoi occhi; ciò che attirò lo sguardo di Tom fu la lucentezza della sua carne sopra il seno. Aveva indossato costumi per la maggior parte delle precedenti due settimane – era persino riuscita a convincere Tom a travestirsi a sua volta un paio di volte. Attraverso la sua mente si proiettò un replay. Rita vestita con un abito argento costellato di lustrini, frange fruscianti marroni, un cappello da cowgirl come Annie Oakley – ma con lo scherzo di due enormi seni falsi che ribollivano sotto il gilet in pelle.  Stasera, indossava un abito tradizionale – del diciottesimo o diciannovesimo secolo, Tom non ne era sicuro – ma aveva stretto sulla vita un sottile nastro di raso color oro, che si spandeva in cerchi incredibili attorno ai suoi fianchi. Il vestito brillante scintillava lasciando per metà i suoi seni in mostra lungo la scollatura.  «Hai tenuto da parte il migliore per la fine», disse lui, indicando il costume. Chissà quanto costava. Il mantello di velluto nero con la stessa pesante bordatura in raso dorato giaceva sulla schiena della sedia di Rita.  «Lo si fa spesso – tenere il meglio per la fine».  Si chinò verso di lei, sussurrando. «E stasera le tue tette non sono uno scherzo».«Non si scherza stasera», assentì lei. Lui pensava che le piacesse che si stuzzicassero a vicenda, giocando in mezzo alla gente. Gli sembrava aver catturato la sua attenzione alla fine… Ma era troppo presto per tornare nel suo appartamento. Alzandosi – con la rendigote blu, la parrucca e calze di seta bianche – si sentì all’improvviso stretto e teso.  «Andiamo all’Harry’s», disse di colpo, pensando che rivivere certi momenti li avrebbe catapultati di nuovo in un irragionevole trasporto. Avrebbe voluto strappare dalle spalle quello splendido, eccessivo vestito e spogliarla nuda. La cintura dei suoi pantaloni neri che arrivavano al ginocchio stringeva troppo, il cavallo spintonato dal primo irrigidirsi della sua erezione. Pregustare era metà del divertimento  «Ritorno alle origini», annuì Rita, poi si alzò con grazia. Sporse fuori la mano come una principessa in attesa di essere accompagnata alla sua carrozza e Tom la afferrò con la sua. Ma prima, si chinò in basso sfiorando le sue nocche con le labbra, come avrebbe fatto il gentiluomo che fingeva di essere.
La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa Mannetti***
Tom stava in piedi, da solo, in un turbolento e convulso momento di eccitazione e di impazienza proprio di fronte ai giardini di palazzo affacciati sul canale e sulla Chiesa della Salute. Stavano chiudendo l’Harry’s per la notte proprio mentre Tom e Rita stavano arrivando. Rita aveva detto qualcosa in italiano al direttore in smoking sul marciapiede che stava tirando giù grate di metallo davanti a solide imposte di legno scuro e serrandole – ma parlava con voce troppo bassa e veloce e Tom non poteva sentire. «Sì, signora», rispose l’uomo sorridendole, per poi passare alla finestra successiva, continuando a ridacchiare. «Buon divertimento. E buona notte», aggiunse, quando Tom e Rita se ne andarono invertendo la direzione.  Tom l’aveva sentito fischiare mentre si avvicinavano al primo ponte, giusto a pochi passi da dove attendeva Rita. I suoi sospetti avvamparono – perché il Signor Direttore Dal Vestito Nero del Cazzo sembrava conoscerla? Erano usciti insieme? Peggio ancora, lei se l’era già scopato? Era stata lì per quello, lei, quella notte all’Harry’s – in attesa di farsi portare a letto da Cavalier Pezzo Grosso – prima che lui la rimorchiasse?Si accese una sigaretta e cercò di mettere una parvenza d’ordine ai suoi pensieri. Si trovavano a soli quindici minuti a piedi dalla casa di Tom nel sestiere di Castello, ma Rita aveva dovuto fare pipì e ora stava in un bagno pubblico nascosto in un angolo appena fuori dai giardini. Era stata via per quello che gli pareva parecchio tempo, ma lui non aveva dubbi che sarebbe tornata. Lei non lo avrebbe piantato in asso. Non se ne sarebbe andata via in quel modo. Lei non era Margaret…  Faceva freddo sotto i pini che costeggiavano la balaustra di pietra bianca; Tom bloccò la sigaretta tra le labbra, tirò su il colletto e guardò fuori verso l’acqua ghiacciata. Spontaneamente, si riprodussero nella sua mente i ricordi del Carnevale: era stato così affollato la domenica, il giorno di apertura ufficiale, che erano stati stipati spalla contro spalla in piazza San Marco. Era stato spaventoso. E quando lui e Rita avevano cercato di tagliare proprio verso il ritaglio di terreno dove lui era adesso – con l’intento di fermarsi solo un attimo per fumarsi una sigaretta – l’ondata della folla li aveva spinti oltre. Non erano stati in grado di fermarsi fino a quando avevano raggiunto il primo spazio aperto a quasi mezzo chilometro di distanza, in campo Santo Stefano. Spaventoso era stato anche, ripensò, abbracciandosi il petto con le braccia, il passaggio di corsa di una processione con le torce lungo via Garibaldi, con quella vecchia che scattava tutt’attorno e urlava in italiano che questa o quella persona doveva fare attenzione: «Gianni, guardati le spalle! I tuoi capelli, Rossella, attenta ai tuoi capelli!»Le torce erano lunghi e fragili coni di carta, i corridori abbastanza vicini per darsi fuoco l’un l’altro. Tom e Rita si erano dovuti allontanare dalle fiamme due o tre volte – Rita gridando, Tom sentendo il suo cuore sobbalzare all’improvviso calore e alla luminosità delle fiamme, che lo facevano lacrimare affondate quasi addosso al suo viso. Lo spavento – come per l’Halloween americano – avrebbe dovuto far parte del divertimento, pensò Tom battendo un piede, poi l’altro per far tornare il sangue nelle dita dei piedi. Ma era diverso a Venezia. C’era una corrente sotterranea qui, che appariva pericolosa e fuori controllo.
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A quel pensiero avvertì il movimento, passi silenziosi dietro di lui. Tom si voltò e vide la terza delle immagini del Carnevale che l’avevano inquietato: una figura mascherata oscillava – per metà sotto la luce di un lampione e l’altra metà nell’ombra – a tre o quattro metri di distanza. Era il tipo di maschera, tra quelle sfoggiate dai festaioli, che faceva gelare il sangue a Tom: un volto pieno con delle fessure al posto degli occhi completamente inerte...inespressivo, asessuato. Anche una maschera funebre esprime personalità ed emozioni, perfino i manichini sembrano diversi l’uno dall’altro. Ma queste maschere – realizzate sempre in color argento, oro o bianco fluorescente – erano disumane; quasi come insetti nella monotonia dei loro tratti. Quelli che indossavano queste maschere erano immancabilmente celati sotto pesanti veli e cappelli con il turbante, lunghe vesti fluenti – solo l’altezza li distingueva, e l’altezza può essere simulata, come Tom sapeva. Si riusciva solo a percepire un sorriso compiaciuto dietro quelle maschere, l’intento di terrorizzare o di adescare.
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  La maschera alzò le braccia sottili e le dita guantate iniziando una silenziosa danza da serpente, invitando Tom ad avvicinarsi, lasciarsi sedurre in un abbraccio sconosciuto. La mancanza di suoni, di musica, anche di linguaggio umano era terrificante – e Tom mosse un passo indietro. La figura velata di bianco, rosso e argento si spostò verso di lui – Tom guardò verso l’entrata dei giardini, i suoi occhi volteggiarono verso il bagno: dov’era Rita? Era troppo rapito dal costume, della mimica delle mani della maschera, del lento minuetto dello spostamento dei suoi piedi. I ciuffi velati del suo abito – bianco, argento, rosso – leggero come stelle filanti – si agitavano e vagavano preda di un vento invisibile. Era come guardare nel cuore di una fiamma fredda, pensò Tom; i suoi occhi seguivano i movimenti ritmici di mani e piedi e stoffa. Si sentiva ipnotizzato da quel dolce ondeggiare avanti e indietro.  La maschera era più vicina ora, a portata di mano. L’abito vaporoso era come fili di ragnatela dove le sue frange scivolavano sulle sue braccia o sfioravano le sue gambe. Un cobra, una fiamma argentata di candela, la sua mente prese a intonare – il suono di una suola di cuoio che raschiava un ciottolo (il suo piede? il piede della maschera?) lo fece trasalire riportandolo alla realtà.«Rita!», gridò proprio mentre sentiva il fruscio del raso e emergeva alla vista l’ampio arco dorato della gonna d’epoca. «Rita», gracchiò di sollievo. «Io»  Si sentì un sottile sogghigno dietro la maschera d’argento, una mano gli bloccò il polso. «Oh, Tom, tu non sai cos’è il divertimento!» Si voltò verso Rita, verso l’onda della grande gonna. La risata era più forte. Per un istante, Tom si sentì tanto confuso quasi da mettersi le mani sulle orecchie e gridare; ma all’ultimo momento, la sua mente riuscì a riordinarsi, focalizzandosi sulle informazioni a disposizione e ancorandole al luogo e al momento.Rita rise di nuovo, e spinse la maschera d’argento fino a sollevarla sulla sua fronte nello stesso momento in cui una donna con la gonna dorata si spostò sotto la luce. Rita batté le mani di gioia. «Oh, te l’abbiamo fatta, te l’abbiamo proprio fatta. Non avevi capito che ero io a ballare per te per la strada». Finse di imbronciarsi, poi iniziò in italiano: «Sì, credo che ancora un attimo e», si fermò e cominciò a ridacchiare di nuovo. «Sì, un altro momento ancora e penso proprio che il mio Tom sarebbe svenuto – sopraffatto dal fascino della ballerina. Tu vorresti un’altra donna, forse», gli disse sprezzante, ma toccandogli il viso con la punta di un dito guantato di rosso.  «Due donne», disse l’altra figura in italiano. Due donne.
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  La sua testa pulsava. «Vi siete scambiate i costumi», la sua voce era cupa, sentì che le sue parole contenevano rabbia, anche se non era ancora emersa nella sua mente. «Nel bagno delle signore». Naturalmente, il saggio e intelligente asino dentro di lui prese la parola, o pensavi che stesse vuotando la vescica per venticinque minuti? Forse credevi che avesse trovato un copia eccezionale – l’ultimissimo numero davvero ricco e succulento – di Vanity Fair e ci stesse dando una bella occhiata? Idiota… scemo…. Tom scosse la testa – forse per rifiutare di ascoltare la sua critica interiore, oppure era solo esasperato per la sua credulità, la cosa non gli era chiara. Nell’ultima mezz’ora la sua mente a quanto pareva era stata appannata da una combinazione di alcol, freddo, ansia e intorpidimento mentre aspettava che Rita tornasse. Adesso era più concentrato e si calò nella constatazione che le due donne, fronteggiandosi, stavano discutendo in lingua italiana. Tom non riusciva a seguire la conversazione; ma gli sembrava la donna con l’abito dorato insistesse per averla vinta con Rita su qualcosa. Ma le espressioni sui loro volti erano abbastanza chiare, come lo furono anche le ultime parole di Rita: «Va bene! D’accordo, va bene, va bene! Basta, basta!»
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«Chi è questa donna? L’hai appena incontrata? Sapevi che l’avresti trovata in bagno?» Tom si fermò e strattonò il braccio di Rita per farla fermare sul pianerottolo di una larga rampa di scale di pietra. «Era al Florian?» Tutti e tre camminavano lungo la Riva degli Schiavoni, intasata dai turisti; avevano appena passato il Palazzo Ducale e si trovavano praticamente presso il Ponte dei Sospiri – il marmo bianco brillante non aveva mai mancato di risollevare Tom, ma stavolta non lo notò nemmeno inarcarsi sopra la spalla sottile di Rita. «Chi è, Rita?» Si accorse appena che il rumore della folla e la musica da piazza San Marco si erano arrestati di colpo e che sempre più persone arrancavano verso il ponte. «Chi è lei, una puttana?», e in italiano: «Una puttana?» Poi riprese: «Una puttana amica tua? Siete tutte e due delle puttane?»  «Lasciami andare», sibilò lei; lui le stava strizzando forte la carne sopra il gomito, abbastanza forte da lasciare segni? si chiese. Arretrò di un passo, si vergognò; era già pentito per i suoi sospetti alimentati dall’alcol e dalla rabbia. Poi il suo tallone scivolò improvvisamente attraverso l’aria sottile fino a sbattere sul marmo della scala ormai dietro di lui. La sua caviglia si girò goffamente, il piede scivolò fuori dalla scarpa; Tom oscillò, afferrando la balaustra in pietra alla sua destra. Si chinò – il bordo del suo lungo soprabito che penzolava sulla pietra – per recuperare il suo mocassino nero dalla punta squadrata. In quel secondo un’enorme ondata di gente in festa salì i gradini e lui, appuntato contro il corrimano, vide Rita e l’altra donna trascinate avanti e lontano da lui. Tom tentò di ficcare il suo piede nella scarpa stretta, urlando: «Rita, Rita! Aspetta. Fermati! Fermati e aspettami!» La calca mulinò spingendo tutti contro tutti, muovendosi come una densa e inesorabile mareggiata umana. «Rita», gemette, finalmente calzando la scarpa e raddrizzandosi. «Rita!»  Ma lei era già sparita dalla sua vista. Tom lottò per muoversi attraverso la massa di corpi sulle scale, con la Riva degli Schiavoni di fronte a lui, ma non riusciva più a vederla, era sparita.
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Tom trascorse i giorni successivi alla ricerca di Rita. Quando aveva provato a telefonare al suo appartamento, non aveva risposto nessuno. Per due volte il telefono aveva dato il segnale di occupato, ma quando si era precipitato da lei per bussare alla sua porta o – quando nessuno lo aveva lasciato salire fino al secondo piano – per suonare al citofono, di nuovo non aveva ottenuto risposta. Le finestre di Rita non erano visibili dalla strada, era già uscita mentre lui copriva il breve tratto che separava casa sua da quella di lei? Non aveva la segreteria telefonica – non erano per nulla comuni in Italia – e forse le sue chiamate l’avevano allertata, pensò, mentre camminava pigramente da San Marco al Ponte di Rialto, con un occhio che la cercava e l’altro proiettato sulla vasta gamma di dolci e scarpe e vetro e abbigliamento e tutto quello che era in mostra vetrina dopo vetrina. Sapeva quali negozi lei preferiva, i cappotti che le facevano perdere la testa, le collane che avrebbe voluto a tutti i costi. Quante cose le aveva comprato in un posto o nell’altro?
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Era inutile chiedere ai negozianti; ci aveva già provato e rinunciato quando quelli avevano fatto spallucce – che fosse perché non lo comprendevano o perché non lo sapevano, decise Tom, non aveva alcuna importanza. La sua bocca si rivolse verso il basso mentre il cinismo ribolliva dentro la sua mente: «Notizie da Rialto?» sussurrò. Nessuna. Nessun segno di Rita e della sua amica puttana. Oh certo, con l’occhio che cercava Rita, cercava anche quella. Camminava lentamente con le mani giunte dietro la schiena, un inconscio Amleto, rimuginando sulla linea di condotta migliore. Era lunedì pomeriggio, avrebbe aspettato il buio per cercare di entrare nel palazzo senza farsi annunciare. I negozi del quartiere – macellerie, panetterie e chioschi di verdure – avrebbero aperto per il turno pomeridiano alle quattro e mezza circa; tutto quello che avrebbe dovuto fare era aspettare un’ora o giù di lì, fin quando le ombre si sarebbero allungate nel crepuscolo, poi il calar della notte – qualcuno sarebbe uscito o entrato dalla porta e lui avrebbe potuto scivolare nell’atrio. Avrebbe anche potuto vedere, pensò – e fu sorpreso della connessa erezione – Rita stessa sul marciapiede preserale.
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Era proprio davanti alla sua porta di lucido mogano. Una donna che indossava stretti pantaloni verdi, alle prese con una carrozzina e coi sacchetti della spesa, aveva lasciato socchiusa la porta d’ingresso, e in un lampo Tom si era trovato nell’ingresso e poi al secondo piano. Mise una mano intorno alla maniglia rotonda d’ottone al centro dell’uscio – pensando a come quella stranezza, tanto in contrasto con le porte americane, l’avesse in principio affascinato; ora, naturalmente, sapeva che si trattava di una cosa comune a Venezia. Non aveva senso bussare, pensò, spianando l’orecchio destro contro il massiccio legno fresco della porta e trattenendo il respiro. Gli parve di poter sentire chiacchierare piano là dentro. Tom lasciò andare lentamente un respiro, poi ascoltò di nuovo. Lei era lì – e non era sola.Si fracassò il palmo della mano contro la porta, schiaffeggiando il legno ancora e ancora fino a farsi bruciare i polpastrelli. «Rita, apri questa cazzo di porta! Rita!» urlò.  All’interno della stanza calò il silenzio.  Tom riprese a bussare, le sue nocche colpivano seccamente il legno; poi voltò la mano di lato e cominciò a battere. «Rita. Rita. Rita!»  Una porta lungo il corridoio si aprì. Un uomo con la barba sfatta, folti capelli neri e occhi grigi e tempestosi lo fissò, con una mano sullo stipite. La sua voce mostrava collera. «Che stai facendo?»  «Rita Zaccaria», iniziò timidamente Tom, continuando nel suo miserabile italiano: «Lei vive qui, la sto cercando».  «Nessuno vive qui. Capito? Mi capisci?» La sua voce era sempre rabbiosa, ma parlava più lentamente, scandendo ogni sillaba. «Nessuno», tentò in inglese. «Nessuno vive lì». Chiuse la porta così forte che il rumore risultò penetrante, come blocchi di legno che sbattono l’uno contro l’altro. «Turista. Pazzo americano», sentì dire Tom dall’uomo con la barba sfatta a qualcuno nel suo appartamento.  Tom si appoggiò alla porta, «Rita», sussurrò, e ora grattava dolcemente. Ma non c’era nulla, solo il mortale silenzio. Dov’era, perché non voleva rispondere? Non aveva importanza ciò che quell’uomo aveva detto, lei viveva lì. Non poteva averla occupata abusivamente – c’erano cose in quell’appartamento, segni di vita.  Si voltò e diede una raffica di calci sulla porta di quell’uomo. «Te la stai scopando, è lì con te?»«Vai via», disse l’uomo facendo risuonare la sua voce da quelli che parevano i recessi dell’appartamento. Non venne alla porta. «Vai via o chiamiamo la polizia!»  Tom si trascinò attraverso il pianerottolo sentendosi ferito e sciocco come la zitella piantata in asso in The Daemon Lover di Shirley Jackson. Rita era forse proprio questo? Il modo in cui era scomparsa lo faceva sentire come se non fosse mai esistita, come fosse solo una fantasia miscelata nel bicchiere della sua mente. Peggio ancora, si sentiva ormai lui stesso irreale. La raucedine che preavvertiva dell’arrivo di lacrime amare gli grattava la gola secca. «Oh Cristo», mormorò con voce impastata.  Il suo piede non aveva ancora toccato il primo scalino per scendere quando sentì una debole risata. Un ridacchiare. Andò come in testacoda. Il suo sguardo si spostò come quello di una lince da una porta di legno all'altra. Altre risate, ora con toni più alti. Qualcuno che faceva sssh. I suoni a Venezia erano bizzarri, quel sibilo allegro e quel crepitio potevano provenire dall’alto, dal basso oppure da un calorifero a un isolato di distanza – ma adesso era troppo stanco per indagare. Venire qui gli aveva lasciato una sensazione di rabbia e di vuoto e nello stesso tempo lo aveva completamente prosciugato. Le ghignatine salirono fino a una serie di risa trattenute, poi un’ondata di risate fragorose che qualcuno trovò impossibile mettere in sordina.  Se ne andò, stancamente, senza sapere da quale appartamento provenisse quel coro di latrati sprezzanti.
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Era Martedì Grasso, l’ultima notte del Carnevale prima dell’inizio della Quaresima. Tom sedeva nella semioscurità del suo appartamento, fissando le tremolanti immagini sul televisore. Senza nemmeno sapere perché, aveva abbassato il volume fino al minimo. Al contrario, intorno a lui e fuori, Venezia era gravida di suoni di ogni tipo: le campane suonavano in una sorta di folle frenesia; si sentivano urla e risate riecheggiare sulle pietre di strade e edifici. Dalla bocca del Canal Grande esplodevano fuochi d’artificio. Tom sentì cantare e qualcuno che strombazzava musica jazz dall’altra parte della strada.  Si guardò intorno, in quella stanza – in due brevi giorni il disordine era all’apparenza moltiplicato con la rapidità di un esperimento di genetica sui moscerini della frutta: bottiglie vuote e altre ancora in parte piene d’acqua, latte, succhi di frutta, vino infilate attraverso strati di giornali, libri e riviste. Piatti sporchi che reggevano posate incrostate erano disseminati su ogni superficie; stoviglie impilate a casaccio, come torri cinesi in procinto di cadere. Vestiti e calzini abbandonati giacevano in ammassi puzzolenti. Il secchio della spazzatura era pieno fino a traboccare.  «Come se me ne fregasse un cazzo se qui è un porcile», disse Tom, cambiando canale alla TV. Sullo schermo, una donna dai capelli rossi ciondolava in una vasca da bagno sotto una montagna di schiuma – le dita rosa dei piedi nudi di un’altra donna stavano per entrare nell’inquadratura.  E fu allora che il suo citofono suonò, un rumore a metà strada tra un ticchettio e un squillo.Eh? Oh. Qualcuno alla porta, pensò, e se il suono fosse stato coperto dal rumore della TV, l’avrebbe perso – ma i suoi piedi si muovevano più velocemente della sua mente e lo portarono rapidamente lungo il corridoio, nell’anticamera e al citofono. Pigiò con foga il pulsante sulla cornetta bianca, premendo più volte. Pochi secondi dopo, sentì dei passi sulle scale di pietra consumata fuori dalla sua porta. È Rita, canticchiò la sua mente. È Rita. Arretrò attraverso la porta aperta del suo appartamento, per non sembrare troppo ansioso.  «Entra pure», buttò là senza voltarsi, per poi muoversi per le stanze con l’intento di sedersi con aria rilassata sul suo divanetto, comportandosi come se la scomparsa di lei fosse una cosa da poco, come un taglietto facendosi la barba. Si accomodò, sentì la porta chiudersi, alzò il telecomando e premette un pulsante che accese il volto di una valletta di un gioco a premi italiano.  Nell’istante successivo, quando guardò verso il posto in cui pensava di vedere Rita con un’espressione contrita sul viso, vide invece la donna che aveva scambiato con lei il suo costume. Indossava un bustino in pelle rosa, una gonna stretta e corta color antracite sopra i tacchi alti. Una banda stretta della stessa pelle rosa cerchiava la sua gola sottile come un collare. E solo ora, vide che teneva un guinzaglio in una mano – un guinzaglio di pelle intrecciata attaccata saldamente a un anello di metallo argenteo collegato al collare rosa indossato da Rita.
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Lei era vestita in maniera identica: il bustino, la stessa gonna e i tacchi. La donna più alta sorrise a Tom, poi trascinò Rita più vicino a lei. Quando fu abbastanza vicina, la donna iniziò a carezzare il seno sinistro di Rita. Si chinò per mettere la sua bocca sul vestito di pelle, una mano scivolò sotto l’orlo della gonna di Rita mostrando le gambe lisce e tornite della sua ragazza. La donna alta e bionda spostò da parte la parte superiore del bustino usando le dita e i denti e Tom vide il capezzolo di Rita scomparire tra le sue labbra, lui rimase senza fiato.
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Ritorno alle origini, non era quello che aveva detto Rita? E anche Jefferson, su quella questione – se non hai capito bene la lezione, dovrai ripassarci. Va bene – e allora? – se anche aveva chiesto a Margaret di andare con un’altra donna, mentre lui guardava, per poi unirsi a loro con entusiasmo? Non era stato il peggior crimine del mondo e Margaret – per quanto poi negasse furiosamente dicendo che non era una puttana né una lesbica, e nonostante i suoi continui pianti e strilli arrabbiati, dopo – di sicuro dava l’impressione di passarsela bene con lei mentre accadeva.  Si guardò intorno nella buia cantina che si trovava sotto la casa conosciuta semplicemente come Castello, 985. C’erano un sacco di macerie: travi di legno abbandonate, macchinari arrugginiti; cartoni sudici. La terra faceva da pavimento, lui si chiese se queste stanze si allagavano come i pozzi – le più profonde celle dei prigionieri nel Palazzo Ducale. Non sapeva esattamente cosa ci faceva qui. Tutti e tre – lui, Rita e la bionda – erano ubriachi di vino e cognac e lussuria. Ma ora lui era legato stretto e sdraiato sul bordo del grezzo ovale di un pozzo dal puzzo fetido. Lo strato superficiale di terra era stato scavato via e Tom poteva vedere fragili ossa. Ossa di bambini.
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  Le donne tenevano nelle loro mani lunghi coltelli. Anche se lui avesse gridato, nessuno lo avrebbe sentito – non certo con le urla di fine Carnevale nelle strade intorno.  Pensava ai bambini brutalizzati e gettati nella fossa comune. Il terrore di morire fissando la carne in putrefazione e il viscido ingiallirsi delle ossa di quelli che avevano subito la stessa sorte. Vite finite troppo presto e senza motivo.  Va bene, ripeté a se stesso, lui non aveva ascoltato gli ammonimenti di Jeff – ma che c’entravano i bambini?  I coltelli si mossero verso di lui seguendo lenti archi, sentì i primi colpi sul petto.  I bambini non avevano fatto niente; era lui il loro agnello sacrificale oppure loro erano stati il suo? Tom questo non lo sapeva. I coltelli si muovevano più in fretta, bruciando ora, e il dolore era intenso. Non era nemmeno cosciente del sangue che scorreva umido sulla sua pelle.  Intorno a lui, sentiva grida feroci e il pianto terrorizzato dei bambini morenti che risaliva dall’umida terra nera dove lui giaceva, mentre il Carnevale stava raggiungeva il suo apice. Negli ultimi secondi di coscienza ricordò solo che il nome Rita veniva usato a volte come diminutivo di Margaret. Poi, le campane suonarono per l’ultima volta, annunciando la piccola morte della Quaresima.  E nei recessi più profondi della fatiscente casa in pietra di Venezia, le lugubri grida di Tom si fusero con quelle dei bambini morti da tempo – anche le sue ossa si sarebbero mescolate con le loro. I suoi figli
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La Venezia di Arkana: Castello,985 di Lisa MannettiProfilo dell'ospiteLisa Mannetti: Il suo romanzo d'esordio, The Gentling Box, ha vinto il Bram Stoker Award.  E' anche autrice di 51 Fiendish Ways to Leave your Lover, e di numerosi articoli e racconti pubblicati su giornali, magazines e antologie. Tra i suoi lavori più recenti: Resurgam in Dead Set: A Zombie Anthology; Condemned in Legends of the Mountain State 4; 1925: A Fall River Halloween in Shroud Magazine (finalista all'edizione in corso del Bram Stoker Award), Spy Glass Hill  in Fear of the Dark Anthology. Dal suo racconto Everybody Wins è stato realizzato un cortometraggio diretto da Paul Leyden con Malin Ackerman, dal titolo Bye-Bye Sally. Il suo ultimo lavoro (2010) è Deathwatch, che contiene due novelle, Dissolution, finalista al Bram Stoker Award (Long Fiction) e Sheila Na Gig. Lisa Mannetti sta ora lavorando al suo nuovo romanzo The Everest Haunting. In ottobre il suo racconto Castello 985 sarà pubblicato in Italia nella raccolta Arkana-Racconti da Incubo, a cura di Alessandro Manzetti e Daniele Bonfanti (Il Posto Nero Free Ebooks)  Lisa Mannetti Web Site
Approfondimenti: Intervista con Lisa Mannetti su Il Posto Nero

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