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La verità del serpente

Creato il 23 marzo 2012 da Povna @povna

La ‘povna aveva letto questo romanzo poliziesco qualche settimana e una stagione fa, al tempo della neve e di questa iniziativa di Marsilio. Poiché le sembra in buona consonanza con la mèta del suo viaggio, lo ripropone qui prima di salire sul treno che la porterà sulla laguna. Lo dedica agli amici del Venerdì del libro, tutti quanti, scusandosi in anticipo se potrà passare a leggerli soltanto al suo ritorno (per l’appunto da Venezia), domenica sera o lunedì.

In una Venezia palesemente idiosincratica – teatro del cinema, crocevia di riferimenti letterari, regno esplicito del sogno e dell’illusione – Farinetti costruisce una trama poliziesca lieve, classica (tutti i personaggi che convergono verso un luogo destinato a diventare ‘del delitto’), che riprende, riadattandola al contemporaneo, la grande tradizione di Agatha Christie, contaminandola (del resto, piemontesi si nasce) con pennellate fin troppo ovvie di Fruttero e Lucentini (e la Donna della domenica è lì a fare da sottotesto, tant’è che la soluzione dell’enigma si può trovare, prima ancora che nella “verità del serpente”, nelle pieghe palesi dell’intertestualità). Cherchez la femme, dunque; e anche la famille, secondo le indicazioni di Dame Agatha. In mezzo, variazioni (un po’ superficiali) sul tema artistico, che si succedono l’una dopo l’altra (talvolta, sin troppo telefonate – come se l’autore sospettasse nel suo lettore implicito una sostanziale ignoranza di fondo, che rende necessario sottolineare con didascalie puntuali ogni singola agnizione letteraria). Con bella precisione, sfilano dunque la tradizione della storia dell’arte (più volte citato Tintoretto, e poi tutto il vedutismo: Canaletto, Guardi); quella cinematografica (Sebastiano Guarenti [che potrebbe avere prestato l'assonanza del suo cognome al Guarnieri di Carofiglio] – alter ego dell’autore e quasi autore implicito, sul quale si concentra la maggior parte della focalizzazione interna – del resto, fa lo sceneggiatore); la musica: si parla a lungo di Cajkovskij; e, ovviamente, la letteratura. Nelle prime cinquanta pagine, così, i riferimenti ci sono già tutti: si parte da quello un pochino più di nicchia (Genet), e poi giù, a cascata, arrivano Proust (citato direttamente), Brodskij e Thomas Mann (e, se il motivo omossessuale della Morte a Venezia viene evocato esplicitamente, in maniera fin troppo didascalica, il riferimento ai Buddenbrook, cui allude la decadente casa di famiglia della Leonella, è, quanto meno, lievemente più sottile).
Dopo aver dispiegato un tale sistema di codici – che serve a sottolineare l’idea di fondo: una Venezia come metafora e simbolo dello scontro tra sostanza e apparenza, realtà e sogno, verità e finzione; e che occupa tutta la prima parte, disegnando una ricco, ma sfumato dramatis personae – il romanzo prova, timidamente, a dipanare anche un intreccio, nella forma del suicidio di uno dei personaggi che (va da sé) forse non è tale. Ma si tratta di dubbi vaghi (consumati nel suggerimento del compagno di Guarenti, e nella passeggiata di una notte), che non danno seguito a nulla. Con il secondo tempo si esaurisce così, apparentemente, la vicenda: l’estate giunge al termine e anche il Festival, e tutti tornano a casa. La soluzione dell’enigma viene affidata al ritorno del protagonista sui suoi passi. Torna l’idea di Venezia come labirinto, e degli incontri determinati dal caso. Alla fine, la soluzione è classica; e sostanzialmente plausibile. E – se i dubbi, sollevati da più parti, di pertinenza di genere (il poliziesco vero e proprio si dipana molto lentamente) sembrano tutto sommato superabili – il lettore, chiudendo il libro, non può evitare tuttavia di farsi alcune domande più generali. Prima di tutto, sulla costruzione dell’intreccio (con una serie di personaggi inutili, ai quali viene regalata, quasi forzatamente, una comparsata di ritorno per giustificare la loro presenza in scena) e poi sulla qualità linguistica e stilistica della scrittura. Colpisce infatti l’esplicita scelta di uno linguaggio ricercato, ad alta densità metaforica. Che tuttavia mal si coniuga con alcuni faux pas (un paio di esempi per tutti: “ravvivare” per “ravviare” i capelli; oppure un ibrido anglo-francese, inesistente, come “conversation pièce”) sui quali si potrebbe anche sorvolare con un sorriso comprensivo, se non fosse per l’ostentato lirismo di una prosa che vorrebbe (ma non riesce a) essere compiutamente letteraria.
E sono proprio questi due elementi – uniti alla scansione in quadri, come atti – a suggerire la possibilità di una commistione di genere: La verità del serpente è un tentativo di romanzo che, in realtà, non ha mai davvero smesso di essere sceneggiatura.


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