Nel 2012 la storica Marina Montesano dell’Università di Genova ha pubblicato il libro “Caccia alle streghe“ (Salerno Editrice 2012) con la quale ha evidenziato come il fenomeno dell’Inquisizione sia innanzitutto Rinascimentale e non si sviluppò nel Medioevo (che invece la vulgata definisce i “secoli bui dell’inquisizione”). Nell’intero periodo tra metà Quattrocento e metà Settecento le condanne alla pena capitale oscillano tra le 40mila e le 60mila e l’area geografia maggiormente coinvolta in questa pratica fu quella germanica e proteste. Al contrario, l’Inquisizione spagnola -cattolica, per capirci meglio- «ebbe in realtà un uso giudiziario della tortura assai moderato e un numero di vittime molto basso, se paragonato all’Europa centro-settentrionale».
In questi giorni un altro storico ha pubblicato un libro sull’argomento. Si tratta del britannico Christopher Black con il suo Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci 2013), recensito da Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Mieli spiega: «Già Adriano Prosperi — con Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori e missionari (Einaudi) — anni fa aveva sfatato la tesi, tramandataci dalla storiografia anticlericale, secondo cui l’Inquisizione romana fu nient’altro che un “tribunale sanguinario”». Ora lo storico Black «documenta meticolosamente come le sentenze di morte furono “relativamente poche” se confrontate a quelle di quasi tutti gli altri tribunali italiani, la tortura “più rara”, e si diedero ai “rei” concrete opportunità di “patteggiamento della pena”».
Quella che riguarda l’Inquisizione, prosegue Black, non fu «una storia così macabra come le leggende e i pregiudizi possono suggerire», né si può dire che assomigli «alle immagini dedicate da Francisco Goya alle ultime fasi dell’Inquisizione spagnola». Dopo il Medioevo, nell’area in cui operava l’Inquisizione, la tortura era in larga parte «più selettiva, fisicamente meno aggressiva e meno raccapricciante e fantasiosa» di quella che è oggi praticata in molti Stati moderni, o di fatto accettata, attraverso «misure legislative straordinarie di estradizione che violano in vario modo le convenzioni internazionali e i diritti dei prigionieri».
Paolo Mieli spiega che anche John Tedeschi, in Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana (Vita e Pensiero), ha
efficacemente raccontato come l’Inquisizione romana sia stata tutt’altro che «una caricatura di tribunale», un «tunnel degli orrori», un «labirinto giudiziario dal quale era impossibile uscire». E la storica Anne Schutte ha spiegato, con molti validi argomenti, che quel sistema inquisitoriale ha «offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna». La Schutte ha anche invitato a riflettere sul fatto che ci furono Papi, come Paolo III e Pio IV, i quali ebbero un approccio «morbido» a questi temi; che un discreto numero di vescovi tra il 1520 e il 1570 abbracciarono idee di «riforma», e altri si batterono per «porre un freno alla severità degli inquisitori e limitarne l’intrusione nelle credenze personali». Tra episcopato e inquisitori si ebbe, in altre parole, un rapporto più che dialettico.
Black afferma di condividere le argomentazioni di Adriano Prosperi e Simon Ditchfield secondo cui «l’Inquisizione romana,
nonostante il suo lato oscuro, è stata anche una forza creativa ed educativa, che ha contribuito a definire e influenzare la cultura italiana almeno fino al XIX secolo».
Concordiamo comunque con il suo avvertimento: «Correggendo le esagerazioni della “leggenda nera”, spero però di non alimentarne una “rosa” o “grigia”», rimane il fatto che il fenomeno in sé-come conclude Paolo Mieli, «non è certo idilliaco. Tuttavia ciò che più colpisce è che quello delle diverse inquisizioni appare come un mondo sfaccettato, incoerente, a tratti persino contraddittorio. Del quale restano impressi gli intrecci tra giustizia e politica, che si presentano assai simili a quelli tornati alla luce cinque secoli dopo».