La versione di Barney al cinema è un grossa occasione sprecata. Diretto da Richard J. Lewis, regista che si è fatto le ossa nella serie tv C.S.I., il film parte svantaggiato. La solita storie delle attese eccessive, della troppa responsabilità per la trasposizione cinematografica di un grandissimo romanzo.
Il capolavoro di Mordecai Richler, che in Italia è diventato un cult grazie ad una forsennata campagna stampa del Foglio, è un condensato di decenni e decenni di letteratura ebraico americana, da Saul Bellow e Philip Roth, una summa dell’umorismo ebraico postmoderno, pieno zeppo di trovate geniali e battute fulminanti. È la storia spericolata di Barney Panofsky, produttore televisivo di Montreal specializzata in programmi spazzatura, coinvolto nel caso dell’omicidio dell’amico Boogie, reduce da tre matrimoni e una giovinezza vissuta a Parigi in mezzo agli artisti (che nel film diventa Roma, ma poco male: Roma sta al cinema come Parigi sta alla letteratura).
Il film corre troppo dietro al romanzo, ecco il problema. Troppo grande è il complesso d’inferiorità, troppo piatto e convenzionale il risultato. Non che sia un brutto film, per carità. La prima parte è spumeggiante, battute a raffica, situazioni surreali. Poi si ammoscia. Viene enfatizzato il lato romantico, l’amore tra Barney e la terza moglie Miriam. Tutto viene ricondotto, dopo il primo tempo “politicamente scorretto”, entro i classici canoni del cinema hollywoodiano. Poi la regia è banale, televisiva. E alcune scene (Barney soffre per la perdita di Miriam e spacca tutto nella stanza. Barney che guarda – musica di sottofondo – le foto di Miriam) sono francamente trite e ritrite. Però non è un brutto film. Si lascia guardare. Diverte. Commuove. Su tutto spiccano le prove del protagonista Paul Giammatti, che rende in modo credibile il Barney letterario, ma soprattutto Dustin Hoffman, che interpreta meravigliosamente il padre Izzy, scapestrato poliziotto in pensione, rude ignorantone del proletariato ebraico canadese, commovente nella sua ingenua sessuomania.
Il problema è la sceneggiatura, che non trova il coraggio di operare scelte dolorose ma necessarie. Che non riesce a trasformare il film in un prodotto autosufficiente. Bisognava tagliare personaggi, per esempio, come quelli di Solange e della figlia Chantal, abbozzati malissimo, inutili e fastidiosi. Bisognava, per rispettare veramente lo spirito del libro, creare un’opera estrosa e anticonvenzionale, costruire una storia contorta ma comprensibile, andare a fondo nei personaggi, nelle loro idiosincrasie, rancori, odi e dolcezze. Insomma, ci voleva un vero autore. Ci volevano i fratelli Coen. (Nino Fricano)