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La versione di Giuseppe

Creato il 26 ottobre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da lapoesiaelospirito su ottobre 26, 2011

La versione di Giuseppe

La (s) carezza di Dio e i poeti di don Tonino

“Io sono venuto nel mondo con la mia anima nuda a portare lo spirito e il fuoco, per volontà di Dio. Non fate che la mia opera ricada su me medesimo e diventi vaniloquio, o polvere che il vento disperde”.

( Don Tonino Bello)

Di Augusto Benemeglio

Il dono di un’amica.
Una cara amica dello spirito mi dona un libro, “La versione di Giuseppe”, poeti per don Tonino Bello, Accademia di Terra d’Otranto- Neobar, 2011. Ed ecco, in copertina, una mano che carezza una maschera bianca, con incisi tutti i nomi dei poeti. La carezza perpetua di don Tonino, – mi dico – e le sue parole che ardono, che palpitano ancora negli universi che si sgranano, i suoi battiti nell’ombra, gli spazi che si animano e diventano anima mundi, madre di tutte le razze erranti che si trovano insieme sulla cima, sul pinnacolo, nell’empireo e carezzano i cieli, le galassie, e si carezzano tra loro, e ogni carezza dura un secolo, mille anni per dio e per l’uomo, un tempo identico, un identico volare, un identico franare. L’amica mi riapre, d’improvviso, una radura di memorie, verdi esclamazioni, in cui fischia il vento tra i rami di mare. Ecco Leuca, il mare che lui amava, con le sue grotte, con le sue sirene, e ci andava a nuotare, possente, il giovane Tonino, con le sue braccia ampie, tra due palme e una fanciulla scalza, e levava in alto il suo sguardo infinito, quel suo guardare senza tempo. Mi fa risalire l’istante, su, su, in cima a una colonna di stilita, nelle campagne di Ugento, dove Lui tornò al tempo della malattia e per un attimo riuscì ad issarsi lassù, come un vecchio anacoreta dell’Asia Minore che disfiora ancora, con la mano scheletrica, quel tempo lontano del Seminario, Ciao ciao, bye bye, a quel mio tempo infantile, il più stupido, il più pazzo, delirante, fecondo, l’unico che conti veramente. Era quello il mio tempo in cui “aspettavo don Tonino”, portando in giro il mio Barnum, il mio carro di Tespi, una compagnia teatrale formata da vecchi e bambini, in bilico tra Gallipoli, Mancaversa, Santa Maria al Bagno, Alessano e Leuca, e poi lungo le curve larghe della costiera, dal Ciolo alla Zinzulusa, alla grotta dei Cervi, fino a Otranto, “culla delle storie estromesse, lutto oltremare, religiosissimo bordello, casa di cultura tollerante di confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche”, come scrive Carmelo Bene, conterraneo e coetaneo di Tonino.

Abele Longo

Forse quello era lo stesso tempo in cui Abele Longo, l’ideatore e il curatore di questo libro, allievo del “fratello vescovo”, era all’Università di Bologna e recitava ancora quei versi leopardiani, ben noti a generazioni e generazioni di studenti, che oggi magari ripete in inglese: “Silvia, do you remember still/ that moment in your mortal life”. E ricordava costantemente quello strano prete della sua regione, insegnante di religione, al Liceo di Tricase, che una volta lo difese, si schierò con lui, debole inerme studente, per giunta ateo, contro il potente preside, molto credente. E da allora non se ne è mai potuto staccare, in tutte le sue faticose peregrinazioni nel mondo, lo ha sempre inseguito, da lontano, per ritrovarlo molti anni dopo nelle “lettere immaginarie”, in questa sua “carezza di Dio”. Forse anche lui, come è successo a me, a rileggere le sue parole profetiche, gli è scoppiata nel cranio una sorta di esplosione silenziosa, che non sai bene che cos’è, uno zac, un crack, un click che è illuminazione e cecità insieme, ed è difficile da risalire. Tu ti trovi solo e disperato, ai margini del dubbio (si dice che la vera fede è sempre dubbiosa), con specchi infranti, fantasmi nell’armadio e i barlumi viola della disperazione, sei arrivato “al muro/ che vien detto futuro”, e t’arresti di botto: ti senti estraneo, in permanente esilio. Esiliato dallo spazio (la tua regione, il tuo Salento di rocce a mare), esiliato dal tempo passato (i volti e i nomi della tua infanzia e adolescenza), esiliato dalla vita (quel continuo viaggio nel sogno, nella notte, nella morte, come un viaggiatore ironico, lieto, disperato, fraterno) ti senti come l’ultima rondine, l’ultima lucciola, l’ultimo pipistrello. E allora eccoti con la sfera di cristallo a scrutare il futuro (che è un muro alto e duro), rivisitando il passato, che è memoria di memoria, quando conoscemmo, forse allo stesso tempo, quest’uomo nobile e sublime, un maestro, un mito, un profeta, un santo, un amico, che, aveva lo sguardo di un falegname antico, lo sguardo di Giuseppe, che sapeva accarezzare le cose fatte con la sua mano, la mano dell’uomo…

Lei, la mia amica furlana, sa, o intuisce tutto ciò, e mi scrive nella dedica: “ Per condividere poesia e senso attorno a un nome che so esserti caro”. Una calligrafia, la sua, bella, rotonda, classica, musicale, ingenua e antica, di cui si è persa ormai la traccia. “Io sono in questo libro – sembra voler dirmi – come quando sboccia una primavera, e si è nell’amore dei semi e dei giovani rami”.

La “scarezza” di Dio

Ma leggendo meglio “questo omaggio a don Tonino, che vede la partecipazione di ventuno poeti di tutta Italia” mi accorgo d’essere completamente fuori strada. Infatti quella mano in copertina, opera di Malos Mannaja, alias “Buon contadino, Medico mediocre, Pessimo scrittore” (parole sue, tra il lusco e il brusco, tra il serio e il faceto), non è la carezza di Don Tonino, come io pensavo, ma è “ La scarezza di Dio”, il che sembra ribaltare completamente tutta la lezione di Tonino, uomo di fede, uomo tutto evangelico, che assunse su di sé tutto il “nero della vita”. Del resto i molfettesi lo ricordano bene, quel vescovo strano e folle, andarsene, di notte, con la sua scassatissima cinquecento, per le strade della città, – non con la lanterna di Diogene, ma con la croce di Cristo sul petto, – in cerca dell’uomo di oggi, del barbone, dell’alcolizzato, del drogato, del disperato e portarselo al vescovado, ripulirlo, lavarlo, rifocillarlo, e mettendolo nel suo letto, per andargli a scoprire le ali (un’ala soltanto) d’angelo sceso sulla terra. Ed ecco la veneta Fernanda Ferraresso, come se avesse visto quel film, seduta in ultima fila, seguirlo passo passo sul Golgota molfettese, coglierne il momento, il passaggio, il transito, il suo farsi “Complice” della storia, poeta cristiano, alla maniera borgesiana, che assume su di sé tutto il peso delle tenebre: Se non prendevi per te/ tutto il nero della vita / Non eri contento/Era dal nero che riuscivi a scrivere poesia/ E ti cantava nella bocca d’estate/La fonte dell’acqua il coraggio che salta/ tra le pietre senza rompere la corrente. vds. pag. 13)

Perché questa “scarezza”? Non è forse lo stesso Dio di Tonino ?, il Dio degli umili, il Dio tra gli uomini, che soffre, che è privato di tutto, che è messo mille volte alla prova, che viene torturato e ucciso in modo infame (la croce) come il peggiore dei delinquenti? . Non è forse lo stesso Dio che apre la porta ai pubblicani e alle prostitute, sempre schierato con gli ultimi, il Dio del popolo?

E don Tonino è sceso – come pochi esseri al mondo – negli abissi dell’anima popolare, lui stesso era schietto figlio di popolo, era per la grandezza di un Sancho Panza, dell’everyman che è in ciascuno di noi.

E allora perché questa “scarezza”?

Un lavoro senza parrocchie

E’ una dritta? Un orientamento, una chiave di lettura, un enigma da risolvere di questo libro che nasce come protesta, come desiderio ultimo, come disperazione, come SOS? Questo libro che vorrebbe essere considerato “come un unico poemetto” (ma non lo è, né potrebbe esserlo, per svariati motivi legati ai diversi stili, toni, registri, credenze religiose, e alle caratteristiche proprie dell’antologia, un genere letterario che Sanguineti definiva “anfibio”, che oscilla sempre tra il museo e il manifesto), è frutto di “un lavoro senza parrocchie”, mi dice Abele. “ La scarezza di Malos coglie l’abisso che un ateo si trova ad affrontare: la morte, il nulla. Per un credente rimane una porta aperta, forse .

E’ vero, verissimo. Questo è un (bel) “libro pensato ad alta voce”, nato per essere declamato, e ci sono alcune voci “contro”, un corpo a corpo con un dio che non c’è, un dio in fuga alla maniera caproniana, e con echi di satira prevertiana: “ M’apparve Dio, ritratto mentre usciva a prendere le sigarette/ il giorno del *Big Bang*/lasciando il gas aperto in universo”, (pag. 77), e finali disperati: “E se qualcuno ho infastidito abbiate fede:/prima o poi piove / e tutto il gesso (e il sangue) (e il colle)/ slava/ via” (pag.82).

“Nella sua dolcezza vi è anche l’asprezza”, scrive Nina Maroccolo, riferendosi a don Tonino, ”artigiano di luce”, che ha perduto la fede, che dialoga con l’umilissimo San Giuseppe, l’uomo delle carezze (inutili?), in una suggestione eliotana, o, meglio, claudeliana…

La verità è che brancoliamo un po’ tutti nel buio, siamo tutti un po’ naufraghi su una zattera di dannati, e ci sembra difficile l’approdo. Ma il bisogno di Dio – come diceva Caproni – “non è mio, ma dell’Umanità”, è soprattutto il bisogno di un poco di giustizia, di un poco di luce, di un poco d’anima, in tanta massa condizionata dai potenti mezzi di diffusione (e di educazione alla rovescia), dove le parole sono “stracci o frecce di sole”, dove per risolvere la questione della vita basta “il sesso e la partita/ A noi resta (miseria di una sorte)/ da risolver la morte”. E allora la “scarezza” di Dio potrebbe essere la sua assenza, il suo esilio, che significa esilio dell’uomo da Dio, cioè da ogni cosa e da ogni luogo. Ma forse l’unico pensiero che ha attraversato Abele nel proporre quest’iniziativa, è stato quello di ricuperare, del grande maestro e amico, “almeno” la poesia (Ah, poesia, poesia, / tristissima copia/di parole, e fuga/ dell’anima mia”).

I poeti di don Tonino

Ed allora ecco prendere forma “ poeti per Don Tonino”, uno che aveva il dono carismatico della poesia, e credeva nella sua forza rinnovatrice, trasformatrice (“Chi sa che qualcuno, complice la poesia, non venga più facilmente indotto a cambiare genere di vita”). Questo il motivo vero, il senso vivo e vitale che lo ha ispirato e convinto tanti poeti di tutta Italia ad aderire a questa iniziativa, che rientra nel quadro delle celebrazioni della dodicesima edizione del festival “Il Montesardo”, che si svolge ormai da anni ad Alessano, piccola patria del fratello vescovo.

Pochissimi, o quasi nessuno dei poeti, ha conosciuto il profeta della pace, tuttavia ciascuno l’ha cantato secondo la propria sensibilità, credo, stile, e gli strumenti a sua disposizione. In fondo saper suonare bene il proprio strumento – come diceva Fellini – è il segreto per dare un senso alla propria esistenza. E allora ecco il flautista di Ruvo di Puglia, che ha visto “uccidere i morti” e la giovane matematica dolomitica che confida nel “fiato della neve”; una napoletana metafisica che argomenta sui “porcili d’oro” e sullo “stupore dello spazio”; e poi il ciociaro informatico “raddrizzatore di nuvole”, ancora la ragazza veneta innamorata del filo d’erba whitmaniano, il fisico lombardo del “mutamento perenne delle cose”; la sarda di Jerzu che parla, alla Neruda, della “poesia che è venuta a trovarla”, il pessimista di Terlizzi della “poesia che non avanza” in un mondo “impoetico e mafioso”. E poi la salentina giramondo che parla della biforcazione del pensiero e della “crepa nel muro di maya “, della poesia vista dal buco della serratura; e ancora l’italiana schilleriana di Lipsia che vede i poeti come “piccoli falegnami dell’idea”, la romana che non ama le maiuscole, ma sa tutto delle “cose che soffrono”. E c’è ancora “quello dell’ultimo pianeta”, delle ultime braci, alla Marai, e della decomposizione poetica. E poi il salernitano del “primo amore”, delle farfalle e del “bisogno di tenerezza”. Infine c’è quello delle carezze trattenute, e del “fragile ponte che sono le parole”.

L’incontro e l’indignazione

Tutti hanno risposto all’appello di Abele, hanno reso omaggio a don Tonino, “un uomo, -dice Nichi Vendola, Governatore della Puglia, ateo – che andava incontro alla povertà, la esercitava nella ferialità, uno da cammini scomodi dove riecheggiano ancora i passi dei perdenti”. Uno – aggiunge Abele – di cui si ha una tremenda improvvisa nostalgia, e ne ricorda le profezie, scritte un quarto di secolo fa: “Oggi si muore per anemia cronica di gioia. Si moltiplicano le feste, ma manca la festa. E le letizie diventano sbornie, gli incontri frastuoni; e i rapporti umani, orge da lupanari.”.

Dov’è oggi, Tonino? Riusciamo a ritrovarlo in quel mondo ormai imprescindibile che è internet (you tube), rivederne il bel viso, lo sguardo intenso e profondo, le sue infiammate proteste, la sua indignazione. Gli autori (quasi tutti in crisi, quasi tutti disperati, come lo sono di solito i poeti) e don Tonino s’incontrano in quella terra di nessuno, che è la disperata-speranza, fanno sodalizio, alleanza là dove le istanze e i desideri di pace e giustizia, di libertà e fratellanza universale (la convivialità delle differenze), hanno una loro patria ideale. E sono indignati per i diritti umani violati, calpestati, le sopraffazioni sistematiche, endemiche, per la continua guerra in tutte le latitudini, che ingrassa i commercianti d’armi e loro indotti (“Bisogna pagare moneti di lacrime, incomprensioni e sangue per raggiungere la pace”), per la dittatura finanziaria, la disumana discriminazione tra tutti i nord e i sud del mondo, la svendita del patrimonio d’idee e di valori, ect… tutte cose che don Tonino ha denunciato, detto, ridetto, messo per iscritto, trent’anni prima che il vecchio ex ambasciatore francese Stéphane Hessel pubblicasse il suo bestseller (un milione di copie vendute)

“ Indigne-vous”, indignatevi!

Quando c’era lui, rievoca Longo in una sorta di Sabato del Villaggio, “Ai tempi delle botteghe l’amore/ contava i rintocchi del ciabattino / prima che la notte lo sorprendesse / con i chiodi ancora tra le gengive” (pag.47).

E Antonella Montagna lo ricorda nel suo folle viaggio a inseguire l’utopia della Pace, insieme a cinquecento seguaci, a Sarajevo, in mezzo alla burrasca, con un cancro che lo divorava: ” Sono qui, a Sarajevo, /solo, / solo i pazzi, solo i pazzi/ si trascinano /tra le onde tumultuose/ Siamo qui, /corpi di pace, / per la pace, / nel paese di Pacendia …/ Siamo tornati insieme, / 501 persone, / a Pacendia è Uno/ il battito del Cuore (pagg.69-70).

(Ri) trovare don Tonino

E su un tema da posto delle fragole, troviamo Carmine Vitale: “C’è questa perdita enorme d’innocenza/ come se non si potesse mai più tornare indietro/ Ma è nel cuore che non posso entrare” (pag.83).Un poemetto in tre quadri di Annamaria Ferramosca, che ricostruisce la trama segreta e divina delle cose che fanno la storia del mondo. E’ come una ricetta dickinsoniana. Bisogna “ preparare alla stupefazione/arcobaleno eco nido/che appare improvviso nel cespuglio/ poi/ sarà lampo tra le ciglia …” (pag.94). E poi c’è la cifra umana di Marilena Cataldini: “La cifra umana è/una perfezione a buon mercato/ il piede di porco degli uomini…/ Una architettura algebrica/ con cui manovrare le stelle/” (pag.98)… e c’è chi come Doris Emilia Bragagnini, si è ricreata la figura mitica di don Tonino come “ un piccolo suono/rimasto a danzare nel tempo/mai del tutto compiuto/…un sole che vive, nutre il silenzio/…profumava d’infinito… ” (pag.107).

Sì, lo ritroviamo, don Tonino, in quest’antologia che invita il visitatore a percorrere la galleria delle sue pagine; partendo dalle mini-biografie dei poeti, poste alla fine, un viaggio nella poesia, che non fa audience, che non serve a nessuno, ma che significa pur sempre libertà, ribellione, disobbedienza di fronte ad ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona. E anche un pizzico d’ironia tragica, direbbe Abele che l’ha curata con attenzione, con scrupolo, con amore, ma del cui esito nessuno può dire nulla.” Ma quella carezza sul nero (della copertina, n.d.r.) apre tante domande che non potevamo ignorare in un’opera dedicata a un uomo di fede”, conclude Abele Longo.

Si registrano un diffuso pessimismo sul futuro dell’umanità, un disagio esistenziale e una discreta disperazione. Ci troviamo il dubbio, l’incertezza, il senso della caduta, della liquidazione, ma anche la piroetta, il lampo, il grottesco della vita, il delirio, lo sbalordimento, il sogno, la speranza che non muore mai. E’ vero che “non c’è più tempo per la carezza”, ma bisogna ugualmente sperare, riprendere la strada dell’utopia, che è estasi e agonia. E’ l’unica via possibile da percorrere, – c’è il buio, la polvere, lacrime e il sangue –, se vogliamo davvero (ri) trovare don Tonino. Negare se stessi in un costante corale “abbraccio empatico verso l’altro” .
Roma, 7 ottobre 2011


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