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La Versione di Giuseppe – Poeti per don Tonino Bello

Creato il 23 settembre 2011 da Fabry2010

La Versione di Giuseppe – Poeti per don Tonino BelloIn tempi di oblio, di disconoscimento e di distrazione (come del resto in qualunque tempo), ricordare, bene, è un atto di responsabilità e di amore; tanto più le cose buone, che si danno sempre per scontate, compiute da chi è in vita e da chi ha ormai concluso la sua esistenza, come in questo caso. Le parole che ricordano si fanno foglie, calda coperta su l’uomo che non è più. Ricordare è un po’ trattenere la morte, sfidarla, contendere un corpo, un’anima e il suo vissuto per serbarli e trasmetterli fino alla dispersione della voce, di generazione in generazione. Qui, l’uomo che si vuole ricordare, don Tonino Bello, che molto ha fatto, detto e scritto, lo si è voluto appunto coprire con calde foglie; queste belle poesie (scritte da 21 poeti da tutta Italia ispirandosi a La carezza di Dio – Lettera a Giuseppe  -Edizioni La Meridiana, Molfetta, 1997 -, testo in cui don Tonino immagina di dialogare con Giuseppe mentre lavora nella sua bottega) sono appunto foglie cadute lente su un uomo speciale, per una coperta che scaldi la memoria ma senza “coprirlo”; un omaggio, dunque, l’amorevole ostensione d’una esistenza esemplare. gn

*

Rimpianto (Pasquale Vitagliano)

Se Dio può essere donna,
perché un padre non può essere madre?
Così non sarei stato lasciato solo
all’inizio della storia,
perché tutto era stato scritto.
Neppure si sa quando sono morto,
forse nemmeno a metà del viaggio.
Mentre voi realizzavate la profezia,
sono sparito senza rimorso per ritrovarmi
santo in una vita che non ho vissuto.
Quanto avrei pagato per stare là,
ad addolorarmi più di una madre,
a tirarti giù senza più pietà per me,
a seppellire un figlio non putativo.
Sono finito invece sulle icone lontane,
stilita incomodo dentro un presepe altrui,
colonna fuori del tempio estraneo.
Malinconica comparsa nel copione divino,
resto la maschera sudata di tutte le storie.
*
Non ci sono proprio riuscito
a raddrizzare il torto.
Pialla, Dio,
pialla,
prova a togliere le crepe
di un corpo più vecchio
dell’ulivo millenario.
Non possono esserci carezze
sulla carne viva.
Prova, Dio,
prova il dolore,
le dita sono lame,
le unghie, senti
sono coltelli che scavano.
Senti, Dio,
senti
come entrano dentro.
Il torto non scompare,
ti resta appiccicato,
è una coda di carne.
Mi hanno tolto tutto,
Dio, i lacci delle scarpe,
il filo dei bottoni.
Mi hanno lasciato a terra,
fuori uso più dello scheletro
di un pube, più desolato
degli occhi cavi
di un testimone inutile.
*
A questo punto non so
se chiamarlo rimpianto
oppure orgoglio ex post
per essere l’unico con lui
senza esclusive.
Niente di scritto, neppure
una dedica mi ha lasciato
da esibire per postulazione.
Una foto o un biglietto,
neanche a parlarne.
Come tanti, non sono
mai entrato nella sua 500,
né mai ho mangiato
insieme al tavolo della curia,
come tanti hanno fatto.
Nessuno mi ha accompagnato
al suo capezzale affollato,
mi sono pure perso
quell’ultimo viaggio in nave,
quello sì veramente santo.
Qualcuno c’è andato a sbattere contro
a Milano in Metropolitana che correvano,
lui per scusa gli ha regalato un libro.
Ieri un prete mi ha persino detto
che forse è stata colpa
dei capelli, perché se li tingeva.
Mi sono messo a cercare un adesivo,
Reggio Calabria, Marcia, 1986,
poi, me lo sono attaccato addosso.
Mi sono messo a raccontare
che per errore avevo seguito il corteo
di un beato che in vita era stato un mostro.

*
Confido (Iole Toini)

un tentativo di riconciliazione con me che sono fragile
e cado mille volte dentro povere cose
Confido nel fiato della neve
che incede il passo semplice del monte;
il suo volto luccica millenni nella pietra cavata a valle.
La grandezza è nelle mani che hanno solchi
e calli, ossa dure di lavoro; nel legno
che ha essenza di rispetto,
per la fame, la ricchezza della pioggia,
per l’abbraccio liberato di un dolore.
Ricca è la pazienza dell’inverno, nei vecchi
che hanno secchi gli occhi; ricco il tenersi indosso
cose vecchie: care per il consunto delle rughe;
vero il coraggio della paura, il sapersi poca cosa;
pensare che sia bene stare fermi, l’ascolto, la fatica,
la confessione di un bisogno.
Dono è il corpo di un malato, il suo sguardo
che accende dentro; è l’umiltà di chi sta zitto
davanti al farsi buio.
L’oscuro che rallenta, intimidisce anche l’aria.
Restare soli fa misura di quanto è niente il corpo,
grande l’orto, il cristo che lo ara.
L’odore della terra fa spazio al cielo, al suo stare
conficcato in questo mondo dove povero è chi non osa
guardare il suo cuore scuro.
E muove il mare il volto di una madre,
il suo avanzare dritta nel perdono.
Perdono è chiedere alle mani che raccolgano
noi nel nostro grano, nel fiero della cenere, nell’ombra,
accettino un dono così misero, quello che siamo
e che non siamo.
*
I prati fanno nodo in gola oggi che è ancora inverno.
I campi aperti dalla neve stanno fermi
dove il fiato cede al fare lento delle cose.
Nel tempo immobile tutto trova posto
meno il cuore che si muove a balzi fra l’uno
e l’altro istante.
E fiero arriva il buio
come un uomo grande – spaventoso – a dire
che il pensiero è sempre troppo
svelto, corre come fa un temporale estivo
scroscia dentro i solchi cercando rese
valli aperte, nomi
dove spezzare il seme come un pane.
Fragile natura che non mi posi,
aiutami a restare salda al passo quieto degli abeti
e sopra e sotto l’orto abbandonare il peso
lasciare che l’amore mi addolori
e poi mi superi come un miracolo possibile.
*
Per aderire alla terra, stare ferma nel corpo
dell’erba, nel canto notturno dei faggi frugati dal buio,
dove il suono è un bisbiglio che dilata il perdono.
Come una mano mi apro al tocco dell’aria.
Nella casa che aro di lingua e di fianchi cerco l’ascolto
a cui mi invita il dolore. Nel luogo antico,
dove anche il vento raduna le foglie sui cumuli spenti
e la vita rivela che la sorpresa è del fiore, quando senza
pensiero di cosa, respira l’abbraccio del seme.
In nome di fame cerco il luogo sopito.
Senza possesso di lama né del suo intento
restare vibrante, in attesa, profonda di desiderio,
priva di forza ma tesa nella coscienza di essere
la metà del sentire, o meno, o niente.
Placata come la neve, sgorgare nel cielo
come un pudore nel fragore secco del sole.
*
Primo amore (Carmine Vitale)

ho parlato con le cose
Perché le parole sono sporche
Sulla facciata di una chiesa una volta lessi
Che è difficile pisciare controvento
E così anche queste poche lettere
Hanno perso consistenza
Si sono lacerate
Ridotte a brandelli
C’è questa perdita enorme d’innocenza
Come se non si potesse mai più tornare indietro
Ma è nel cuore che non posso entrare
È stato chiuso
Come un locale pronto alle ferie
Quando devi ricevere una notizia
Vorresti sempre quella buona prima
Perché la cattiva già la sai
L’hai commessa
C’è un palazzo maestoso
Si consegnano fiori agli ospiti
E per le conseguenze tocca all’amore
Perdonare
Barare
Fuggire
Diceva una poesia che quando fa male
Torniamo su certi luoghi
A pensare al primo amore.

*

I viandanti (Stefano Giorgio Ricci)

Hanno occhi spiaggiati, quei morti,
e dormono in letti di sabbia,
in carezze scomposte nella mano.
Ciò che i pavidi vedono ombra
è solamente corpo straniero:
il nostro stesso corpo,
un corpo devastato dalla distribuzione
del grasso.
Piangono angeli, i viandanti,
ed è pianto livido di ombre:
scrutate con dispetto,
esiliate in angoli di strada,
vendute un tanto al chilo.
Dormono in suolo di ore cedute,
i viandanti, e non hanno ninnoli
nella voce quando narrano
i conti dell’esilio.
Vorrebbero un giocattolo nuovo,
i viandanti, e sarebbe il primo.

*

La Versione di Giuseppe – Poeti per don Tonino Bello
(Edizioni Accademia di Terra d’Otranto – Neobar, 2011)

Cristina Bove, Doris Emilia Bragagnini, Simonetta Bumbi, Marilena Cataldini, Anna Costalonga, Fernando Della Posta, Margherita Ealla, Annamaria Ferramosca, Fernanda Ferraresso, Giancarlo Locarno, Abele Longo, Domenica Luise, Malos Mannaja, Nina Maroccolo, Vincenzo Mastropirro, Antonella Montagna, Stefano Giorgio Ricci, Antonio Sabino, Iole Toini, Pasquale Vitagliano, Carmine Vitale
*

Introduzione:

“Chi sa che qualcuno, complice la poesia, non venga più facilmente indotto a cambiare genere di vita.”
don Tonino Bello

Per questo omaggio a don Tonino Bello, che vede la partecipazione di ventuno poeti da tutta Italia, ci siamo ispirati a La carezza di Dio – Lettera a Giuseppe (Edizioni La Meridiana, Molfetta, 1997), testo in cui don Tonino immagina di dialogare con Giuseppe mentre lavora nella sua bottega. La Lettera ha agito come scandaglio per un nostro percorso sull’onda delle riflessioni e dei rimandi che il testo offre, nel suo conversare fatto dei silenzi di Giuseppe e delle risposte che don Tonino “ricostruisce” da quei silenzi. Al di là dei contenuti, la Lettera assume grandi valenze simboliche per via del rapporto che viene a stabilirsi tra don Tonino/Figlio e Giuseppe/Padre – con i due che si scambiano di ruolo a sottolineare i “dubbi” di entrambi – e per via della natura profondamente umana che don Tonino riconosce al suo Giuseppe: “Quante carezze: con le palme della mano, con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Sì, anche con gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo sguardo” (La carezza di Dio, pag.16).
Nella Lettera, don Tonino ci dice che, invitato a parlare a un convegno giovanile organizzato ad Assisi nel 1987 sul tema “Catturati dall’effimero”, decise di non presentare una relazione “tecnica”, che avrebbe annoiato i giovani presenti, ma di ricorrere alla “poesia” (da intendersi nel significato più esteso di linguaggio che agisce a un livello più autentico e diretto). Il titolo della relazione tecnica che gli organizzatori avevano in mente era “Condivisione e gratuità nella società dell’usa e getta”. Siamo alla fine degli anni Ottanta, gli anni del cosiddetto “edonismo consumistico”, del neoliberismo della Tatcher e di Reagan (alla politica guerrafondaia di Reagan, don Tonino fa riferimento nel testo): “Ho capito: quel tuo sguardo vuol dire: mi fate pietà. Altro che usa e getta. Valicando davvero ogni limite, avete invertito la frase in getta e usa, visto che siete così abbietti da snaturare perfino l’intima essenza della carità, piegandola alla vostra libidine di possesso” (ibid, pag. 15).
La disamina di don Tonino ricorda gli scritti di Pasolini, quando parlava di “scomparsa delle lucciole”, di “genocidio della cultura contadina”. Anche in don Tonino vi è la condanna di una società chiusa nella cieca fiducia nel benessere e viene delineato un prima e un dopo: un passato contadino, che si fa in entrambi mitico, e un presente “consumistico” che porta sempre di più all’alienazione dell’individuo: “Oggi purtroppo da noi, non si carezza più, si consuma solo. Anzi si concupisce. Le mani incapaci di dono, sono divenute artigli” (ibid, pag. 16). “Non si genera più. O meglio, si concepisce solo l’archetipo. Ma senza passione, e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante celerità squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco” (ibid, pag. 9).
Ciò che emerge dalle riflessioni di don Tonino assume ancora più rilevanza ai nostri giorni, fino al punto da apparire profetico: “Il corpo, poi, degradato a merce di scambio, è divenuto spazio pubblicitario e manichino per prodotti di consumo! L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la famiglia, commercializza la donna. E con i postulati di marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la sessualità, riducendola ad una variabile della cupidigia di potere.” (ibid, pag. 17). “Si muore per anemia cronica di gioia. Si moltiplicano le feste, ma manca la festa. E le letizie diventano sbornie, gli incontri, frastuoni; e i rapporti umani, orge da lupanari” (ibid, pag. 29).
I temi trattati da don Tonino vengono, nella nostra versione, affrontati da diverse angolazioni. Non ci siamo posti, del resto, come fine lo studio sistematico o la traduzione fedele della Lettera. Ciò che ne è scaturito si nutre anche, e inevitabilmente, del vissuto e dei percorsi di ognuno di noi, e va considerato quindi come espressione della piena libertà in cui abbiamo lavorato. L’unità di intenti e il sentire comune ci hanno portato a considerare il nostro lavoro come un unico poemetto che ci auguriamo riesca ad arrivare non solo al lettore, nel viaggio solitario che lo caratterizza, ma anche, attraverso dei reading, a un pubblico, in modo da poter creare momenti di condivisione collettiva, come richiede un libro pensato “ad alta voce”.



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