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La vetrina degli incipit - Aprile 2014

Creato il 01 maggio 2014 da La Stamberga Dei Lettori

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...


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«Il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d’asino rigonfia. Il vento, tiepido e appiccicoso, spazzava via alcune foglie morte e scuoteva con violenza i banani rachitici che decoravano la facciata del municipio.
I pochi abitanti di El Idilio, e un pugno di avventurieri arrivati dai dintorni, si erano riuniti sul molo e aspettavano il loro turno per sedersi sulla poltrona portatile del dottor Rubicundo Loachamin, il dentista, che leniva i dolori dei suoi pazienti con una curiosa sorta di anestesia orale.
"Ti fa male?" chiedeva.
I pazienti, aggrappati ai braccioli della poltrona, rispondevano spalancando smisuratamente gli occhi e sudando a fiumi.
»
Il vecchio che leggeva romanzi d'amore, di Luis Sepúlveda - Antonio

«Quando avvistava un autostoppista per la prima volta Isserley non si fermava mai, si concedeva un po' di tempo per prendergli le misure. Quel che cercava erano i muscoli: un pezzo d'uomo ben piantato sulle gambe. Di esemplari gracili, pelle e ossa, non se ne faceva nulla.
A un primo sguardo, tuttavia, era incredibile quanto poteva risultare difficile notare la differenza. Si potrebbe pensare che un autostoppista solitario, fermo al bordo di una strada di campagna, sia visibile per almeno un chilometro, come un monumento lontano, o un silos per le granaglie: si potrebbe pensare di riuscire a esaminarlo con calma mentre si guida, di spogliarlo e rigirarselo nella mente con anticipo, ma Isserley aveva scoperto che non era cosi.
Guidare attraverso le Highland scozzesi era di per sé impegnativo; accadeva sempre qualcosa in pi+ rispetto a quel che ci si immagina guardando i paesaggi delle cartoline. Perfino nel silenzio madreperlaceo di un'alba invernale, con le nebbie ancora addormentate nei campi ai lati della strada, non si poteva sperare che la A9 restasse vuota a lungo. Le carcasse di pelliccia appartenenti a creature della foresta non identificabili ingombravano l'asfalto, sempre fresche ogni mattina, e ciascuna di esse non era che un istante congelato nel tempo, quando un essere vivente aveva scambiato la strada per il suo habitat naturale.
»
Sotto la pelle, di Michael Faber - Sakura

«Sulle terre rosse e su una parte delle terre grigie dell’Oklahoma le ultime piogge furono leggere, e non lasciarono traccia sui terreni arati. Le lame passarono e ripassarono spianando i solchi piovani. Le ultime piogge fecero rialzare in fretta il mais e sparsero colonie di gramigna e ortiche ai lati delle strade, tanto che le terre grigie e le terre rosso-scure cominciarono a sparire sotto una coltre verde. Nell’ultima parte di maggio il cielo si fece pallido, e scomparvero le nuvole che in primavera avevano indugiato così a lungo con i loro alti pennacchi. Il sole prese a picchiare giorno dopo giorno sul mais in erba, fino a screziare di bruno gli orli di ogni baionetta verde. Le nuvole ricomparvero, e si dileguarono senza tornare più. La gramigna si fece di un verde più scuro per difendersi dal sole, e smise di propagarsi. Il suolo si ricoprì di una crosta dura e sottile, e man mano che il cielo impallidiva, anche il suolo impallidiva, facendosi rosa nelle terre rosse e bianco nelle terre grigie.»
Furore, di John Steinbeck - Tancredi

«Mi toccherà sempre di ascoltare soltanto? Mai mi vendicherò,
tante volte straziato dalla Teseide di quello stridulo di Cordo?
Impunemente allora uno m'avrà recitato le sue togate,
un altro le sue elegie? Inpunemente mi avranno rubato un giorno un infinito
Telefo o un Oreste riempito fino in cima al margine
del rotolo e non ancora finito, neppure sul retro?
Nessuno conosce casa sua più di quanto io conosca
il bosco di Marte e l'antro di Vulcano, vicino alle rupi
delle Eolie; i platani di Frontone e i marmi squassati e le colonne,
infrante dall'assiduità del lettore, rimbombano di dove spirino
i venti, di quali anime Eaco tormenti, da dove quel tale
abbia portato via il vello d'oro, di quanti frassini Mònico abbia scagliato.
Aspettati la stessa solfa dal più alto e dall'ultimo dei poeti!
»
Satire, I, vv. 1-14, di Giunio Giovenale - Polyfilo

«Questa volta non c'erano testimoni. Nessun testimone tranne la nuda terra, un rombo di tuono e quella sottile pioggerellina che fatalmente accompagna i più importanti eventi di questo mondo. I temporali che imperversavano da due giorni, nonché il diluvio d'acqua che da più di una settimana scrosciava dal cielo, si erano in parte attenuati e ora solo una leggera acquerugiola offuscava gli ultimi bagliori del tramonto.
Raffiche di vento spazzavano la desolata pianura avvolta nelle tenebre, arruffavano la vegetazione sulle basse colline circostanti e si intrufolavano in una piccola valle dove una strana costruzione a forma di torre emergeva da un mare di fango.
Era tozza, oscura e massiccia. Sorgeva dal nulla come una diabolica protuberanza spuntata all'improvviso dal magma infernale. Si elevava verso il cielo con una curiosa angolazione: pendeva di lato, oppressa, almeno così sembrava, dal peso insostenibile di una forza misteriosa infinitamente superiore a quello, pur considerevole, della sua immensa mole. Quella torre pareva un simbolo del passato, di un passato morto e sepolto ormai da secoli.
In quell'immoto paesaggio, l'unico segno di vita era il lento scorrere di un fiume limaccioso che pigramente si insinuava nella valle, passava vicino alla torre per scomparire poco più oltre nel sottosuolo.
Ma ecco che, al calar delle tenebre, un bagliore di vita parve animare la decrepita torre: era una luce, una fioca luce rossa che pulsava all'interno della costruzione. La si scorgeva appena, non che avesse importanza dato che non c'era nessun testimone a vederla, però pulsava!
Di minuto in minuto diventava sempre più limpida e lucente, poi, d'improvviso, svanì nel nulla accompagnata da uno stridulo e sinistro lamento amplificato dalle impetuose raffiche di vento.
Di lì a poco, un'altra luce apparve: era più piccola della prima e si muoveva. Sbucò proprio ai piedi della torre e ne percorse l'intero perimetro, fermandosi di tanto in tanto. Poi sia la luce sia la persona che la reggeva, la cui figura s'intravedeva nell'oscurità, scomparvero nuovamente all'interno.
Un'ora dopo l'oscurità era totale e le tenebre avvolgevano il mondo nella vacuità della notte.
Ma ecco che la luce riapparve, proprio in cima alla torre. Questa volta luccicava con particolare intensità e anche quel rumore stridulo che l'accompagnava si faceva via via più penetrante. Crescevano insieme d'intensità e frequenza diventando un tutt'uno: una delirante sinfonia d'assordante rosso fiamma e d'accecante bzzzzz di sirena.
Poi di colpo zittirono entrambe.
Per un nanosecondo tenebre e silenzio regnarono sovrani.
Ma ecco che una nuova ondata di luce esplose proprio sotto la torre emergendo dalle viscere di quel mare di fango. Il cielo rabbrividì mentre una montagna di melma viscosa si elevò sempre più in alto: al rombo tonante delle immensità celesti rispose il sordo mugghiare della terra. Un terrificante bagliore rosato, seguito da un lampo verdognolo, infine un'intensa luce arancione tinse le nubi, poi le tenebre avvilupparono nuovamente il paesaggio in una nera, uniforme oscurità. Calò un silenzio assoluto rotto solo dall'insistente ticchettìo della pioggia. Ma all'alba il sole sorse illuminando quello che a tutti gli effetti era, o perlomeno avrebbe potuto essere se a guardarlo ci fosse stata un'anima vivente in grado di apprezzarlo, il più terso, il più sereno, il più limpido mattino che mai si fosse visto sulla faccia della terra. Un fiume limpido e luccicante scorreva fra le oscure rovine della valle.
E il tempo cominciò a trascorrere.
»
Dirk Gently Agenzia di investigazione Olistica, di Douglas Adams - Daniele

«William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido. Quando morì, i colleghi donarono alla biblioteca dell’università un manoscritto medievale, in segno di ricordo. Il manoscritto si trova ancora oggi nella sezione dei “Libri rari”, con la dedica: «Donato alla Biblioteca dell’Università del Missouri in memoria di William Stoner, dipartimento di Inglese. I suoi colleghi».
Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale.
I colleghi di Stoner, che da vivo non l’avevano mai stimato gran che, oggi ne parlano raramente; per i più vecchi il suo nome è il monito della fine che li attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono, che non evoca alcun passato o identità particolare cui associare loro stessi o le loro carriere.
»
Stoner, di John Edward Williams - Patrizia

«L'alba aveva il colore del sangue marcio. Strisciò fuori a oriente e chiazzò di rosso il cielo scuro, marchiando i bordi delle nuvole di oro trafugato. Più in basso la strada serpeggiava lungo la montagna verso la fortezza di Fontezarmo un ammasso di torri aguzze scure come la cenere contro i cieli piegati. L'alba era tinta di rosso, di nero e di oro.
I colori della professione.
"Sei particolarmente bella stamattina Monza".
Lei sospirò, quasi fosse un caso; come se non avesse passato un'ora a pavoneggiarsi davanti allo specchio. " I fatti sono fatti. Constatarli non è un dono: stai solo dimostrando di non essere cieco." e sbadigliò, tirandosi sulla sella, facendolo aspettare ancora un momento. "Ma ascolterò il resto".
»
Il sapore della vendetta, di Joe Abercrombie - Valetta

«Crosby ebbe le prime allucinazioni a otto giorni dalla morte. Steso sul letto d'ospedale preso a nolo, al centro del soggiorno, vide insetti che entravano e uscivano dalle crepe del soffitto. I vetri delle finestre, che un tempo aderivano perfettamente al telaio ed erano sempre puliti e brillanti, si erano scollati. Al primo soffio deciso di brezza si sarebbero staccati per piombare sulla testa dei suoi familiari, seduti sul divano, sul sofà a due posti e sulle sedie della cucina che sua moglie aveva spostato in salone perché ognuno potesse accomodarsi. Di fronte a quel torrente in piena di vetri sarebbero scappati tutti, i nipoti del Kansas e di Adama, e sua sorella arrivata di fresco dalla Florida, e si sarebbe ritrovato solo, inchiodato al letto, circondato dalle schegge. Il polline e i passeri, la pioggia e gli intrepidi scoiattoli con cui aveva ingaggiato battaglie all'ultimo sangue nel tentativo di tenerli lontani dalle mangiatoie per gli uccelli avrebbero fatto irruzione dentro la casa. L'aveva costruita con le sue mani, - aveva gettato le fondamenta, innalzato la struttura, allestito l'impianto idraulico e quello elettrico, intonacato le pareti e dipinto le stanze. Una volta era stato colpito da un fulmine mentre saldava l'ultima tubatura del boiler, e l'impatto lo aveva sbattuto contro la parete opposta. Si era rialzato e aveva finito il lavoro. Non c'era una sola crepa nel soffitto o sulle pareti che non venisse richiusa, e nessun tubo intasato che non venisse riparato; se le assi di legno si scrostavano, era sempre pronto a raschiarle e stendere un nuovo strato di vernice. Andate a comprare dello stucco, disse, puntellandosi in quel letto che sembrava così strano e istituzionale in mezzo ai tappeti persiani, ai mobili in stile coloniale e alle decine di orologi antichi.»
L'ultimo inverno, di Paul Harding - Pythia

«Sitka è lieta di dare il benvenuto a voi, alle vostre famiglie, alla vostra gente e alla vostra nazione, ma un benvenuto particolare va alle vostre domande! È infatti probabile che, come quasi tutti coloro che visitano il distretto federale di Sitka per la prima volta, fin da subito ne avrete moltissime. Trascorso un po' di tempo qui, tuttavia, vi renderete forse conto che una domanda in particolare risulta più impellente delle altre: «Perché in questo posto chiunque risponde a una domanda con un'altra domanda?». Interrogativo al quale un autentico sitkanik può soltanto rispondere: «Perché no?». Sempre che, naturalmente, non opti per un: «Buffa, come domanda...». »
Il sindacato dei poliziotti Yddish, di Michael Chabon - Morwen


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