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La vetrina degli incipit - Settembre 2013

Creato il 01 ottobre 2013 da La Stamberga Dei Lettori
L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
Lo staff della Stamberga


La vetrina degli incipit - Settembre 2013 La vetrina degli incipit - Settembre 2013 La vetrina degli incipit - Settembre 2013 La vetrina degli incipit - Settembre 2013
La vetrina degli incipit - Settembre 2013

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La vetrina degli incipit - Settembre 2013La vetrina degli incipit - Settembre 2013 
***
«La casa dei ferrovieri se ne stava piantata in mezzo a un fascio di binari, neanche fosse un capostazione. Aveva un unico grande portone e una sfilata di finestre bianche che a Delmo ricordavano una dentiera. L'ultima a destra era della sua camera da letto e quella mattina era l'unica spalancata, un buco nero che la faceva sembrare un dente mancante, o una carie appena visibile per lo spessore di una nebbia infame, densa come l'orzata che adesso inondava tutta la stazione impedendo quasi di vedere la torcia del Passi mentre segnalava lo scambio.
Delmo estrasse dal taschino l'orologio per controllare la puntualità del diretto che di lì a un minuto sarebbe dovuto sbucare dalla curva oltre la roggia, rompendo con il suo sferragliare l'incanto del galleggiare nella dolcezza di quella bevanda opaca.»
L'amore graffia il mondo, di Ugo Riccarelli - Sakura
 
«Adesso io sono un morto, un cadavere in fondo a un pozzo. Ho esalato l'ultimo respiro ormai da tempo, il mio cuore si è fermato, ma, a parte quel vigliacco del mio assassino, nessuno sa cosa mi sia successo. Lui, il disgraziato schifoso, per essere sicuro di avermi ucciso ha ascoltato il mio respiro, ha tastato il mio polso, mi ha dato un calcio nel fianco, mi ha portato al pozzo e mi ha preso in braccio per poi buttarmici dentro. La testa me l'aveva già spaccata a colpi di pietra, e cadendo nel pozzo è andata in pezzi, la mia faccia, la fronte e le guance, è rimasta schiacciata, è scomparsa, le ossa si sono spezzate, la bocca si è riempita di sangue.»
Il mio nome è rosso, di Orhan Pamuk - Valeria
«Un ragazzo ho mandato alla camera a gas di Huntsville. Uno e soltanto uno. Su mio arresto e mia testimonianza. Sono andato a trovarlo due o tre volte. Tre volte. L’ultima volta il giorno dell’esecuzione. Non ero tenuto ad andarci, ma ci sono andato lo stesso. E non ne avevo certo voglia. Aveva ammazzato una ragazzina di quattordici anni e posso dirvi subito che non ho mai avuto questa gran voglia di andarlo a trovare né tantomeno di assistere all’esecuzione però ci sono andato lo stesso. I giornali scrissero che era un crimine passionale e lui mi disse che la passione non c’entrava niente. Lui con quella ragazzina ci usciva insieme, anche se era così piccola. Il ragazzo aveva diciannove anni. E mi disse che da quando si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno. Mi disse che se fosse uscito di galera l’avrebbe rifatto daccapo. Disse che lo sapeva che sarebbe andato all’inferno. Proprio così, parole sue. Io non so cosa pensare. Non lo so proprio. Mi pareva di non avere mai visto uno come lui e mi è venuto da chiedermi se non fosse un nuovo tipo di persona. Li ho guardati mentre lo legavano alla sedia e chiudevano la porta. Il ragazzo poteva avere l’aria un tantino nervosa ma niente di più. Lo sapeva che da lì a un quarto d’ora sarebbe stato all’inferno. Io ci credo. E ci ho pensato tanto. Non era difficile parlare con lui. Mi chiamava sceriffo. Ma io non sapevo cosa dirgli. Cosa si dice a uno che per sua stessa ammissione non ha l’anima? Perché gli dovrebbe dire qualcosa? Ci ho pensato proprio tanto. Ma lui era niente confronto a quello che sarebbe venuto dopo.»
Non è un paese per vecchi, di Cormac McCarthy - Antonio
«I viaggiatori percorrevano il sentiero sulla riva destra del torrente, tra le acque limpide e scintillanti del Fiume dell’Erba da un lato e una parete di calcare bianco striata di nero dall’altro. Superarono in fila indiana una curva dove la roccia sporgeva più vicino alla riva. Più avanti, dal sentiero principale partiva un viottolo che scendeva al Guado, dove l’acqua, allargandosi, si faceva meno profonda e gorgogliava tra le pietre affioranti.
Prima che raggiungessero la biforcazione, la ragazza alla testa della comitiva si fermò all’improvviso. Gli occhi sgranati, immobile, fissava un punto davanti a sé, facendo cenno solo con il mento. «Guardate! Laggiù!» disse con un sussurro carico di paura. «Leoni!» Gioarran, il capo, alzò il braccio per segnalare agli altri di fermarsi. Poco oltre la biforcazione, alcuni leoni delle caverne dalla pelliccia fulva si muovevano in mezzo all’erba. La vegetazione li nascondeva così bene che, non fosse stato per la vista acuta di Tefona, il gruppo avrebbe rischiato di avvicinarsi troppo. La ragazza, che apparteneva alla Terza Caverna, possedeva una vista acutissima e, nonostante la giovane età, era famosa per la capacità di vedere lontano, un talento innato che le era stato riconosciuto fin da piccola e che la comunità coltivava da allora. Era la loro vedetta migliore.
Ayla e Giondalar, con tre cavalli al seguito, chiudevano la fila. Scrutarono avanti per capire quale era l’intoppo. «Chissà perché ci siamo fermati», disse Giondalar, la fronte increspata in un’espressione di inquietudine che gli era consueta.
Ayla osservò il capo e le persone che gli stavano intorno. Con un gesto istintivo di protezione posò la mano sul fagotto avvolto in una coperta di morbida pelle che portava legato al petto. Gionayla, che aveva poppato da poco e dormiva, sentendo la mano della madre si mosse appena nel sonno. Ayla possedeva la non comune abilità, appresa fin da piccola nel Clan, di comprendere senza esitazioni il linguaggio del corpo. In quel momento vedeva che Gioarran era allarmato e che Tefona aveva paura.
Anche Ayla era dotata di ottima vista. Inoltre era in grado di captare suoni, sia acuti sia gravi, che le persone normali non sentivano, e aveva un gusto e un olfatto altrettanto fini. Ma siccome non si era mai confrontata con nessuno, non sapeva quanto fossero eccezionali le sue capacità di percezione. L’acutezza estrema dei sensi era senz’altro uno dei fattori che le avevano consentito di sopravvivere quando, a cinque anni, aveva perso i genitori e tutto il mondo che conosceva. Da allora, era stata l’unica maestra di se stessa: aveva sviluppato quelle sue doti innate studiando gli animali, soprattutto i carnivori, nel corso degli anni in cui aveva imparato da sola a cacciare.
Nel silenzio udì il sommesso ma familiare brontolio dei leoni, captò il loro odore particolare portato dalla brezza e notò che le persone in testa al gruppo scrutavano avanti. Seguendone lo sguardo, vide muoversi qualcosa tra l’erba. Di colpo i suoi occhi misero a fuoco i felini: erano leoni delle caverne, due cuccioli e tre o quattro adulti. Fece qualche passo afferrando con una mano il propulsore che portava legato con un cappio alla cintura e prendendo con l’altra una lancia dalla faretra sulla schiena.
»
La terra delle caverne dipinte, di Jean Auel - Pythia
««Alzati adesso».
Sopraffatto, stordito, muto, cade a terra; stramazza sull'acciottolato del cortile. La testa si poggia di lato; gli occhi rivolti al cancello come se qualcuno potesse arrivargli in aiuto. Ora, a ucciderlo, basterebbe un colpo ben assestato.
Dalla ferita alla testa – primo risultato ottenuto da suo padre – gli cola il sangue sul viso. A peggiorare le cose, l'occhio sinistro è accecato; ma se guarda con l'angolo del destro riesce a vedere la cucitura dello stivale paterno: il refe si è sfilato dal cuoio e un nodo coriaceo gli ha centrato il sopracciglio aprendovi un altro taglio.
»
Wolf Hall, di Hilary Mantel - Valetta
«1975: 9 April
Leeds: ‘Motoway City of the Seventies’. A proud slogan. No irony intended. Gaslight still flickering on some streets. Life in a northern town.
The Bay City Rollers at number one. IRA bombs all over the country. Margaret Thatcher is the new leader of Conservative Party. At the beginning of the month, in Albuquerque, Bill Gates founds what will become Microsoft. At the end of the month Saigon falls to the North Vietnamese army. The Black and White Minstrel Show is still on television, John Poulson is still in jail. Bye Bye Baby, Baby Goodbye. In the middle of it all, Tracy Waterhouse was only concerned with the hole in one of the toe of her tights. It was growing bigger with every step she took. They were new on this morning as well.
They had been told that it was on the fifteenth floor of the flats in Lovell Park and – of course – the lifts were broken. The two PCs huffed and puffed their way up the stairs. By the time they neared the top they were resting at every turn of the stair. WPC Tracy Waterhouse, a big, graceless girl only just off probation, and PC Ken Arkwright, a stout white Yorkshireman with a heart of lard. Climbing Everest.
»
Started early, took my dog,di Kate Atkinson - Vittoria A.

«È finita. Vacanze. Vacanze. Vacanze. Per tre mesi. Come dire sempre. La spiaggia. I bagni. Le gite in bicicletta con Gloria. E i fiumiciattoli di acqua calda e salmastra, tra le canne, immerso fino alle ginocchia, alla ricerca di avannotti, girini, tritoni e larve d’insetti. Pietro Moroni appoggia la bici contro il muro e si guarda in giro. Ha dodici anni compiuti, ma sembra più piccolo della sua età. È magro. Abbronzato. Una bolla di zanzara in fronte. I capelli neri, tagliati corti, alla meno peggio, da sua madre. Un naso all’insù e due occhi, grandi, color nocciola. Indossa una maglietta bianca dei mondiali di calcio, un paio di pantaloncini jeans sfrangiati e i sandali di gomma trasparente, quelli che fanno la pappetta nera tra le dita.»
Ti prendo e ti porto via, di Niccolò Ammaniti - Stefano
«El Sauzal
Stato di Baja California
Messico
1997
Il neonato è morto tra le braccia della madre.
Art Keller deduce dalla posizione dei cadaveri — lei sopra, il bimbo sotto — che la donna ha cercato di fargli da scudo. Di certo sapeva, riflette Art, che la sua morbida carne non poteva fermare le pallottole — non quelle di un fucile automatico, non da quella distanza — ma doveva aver agito per istinto. Una madre cerca sempre di proteggere con il proprio corpo il figlio. Così si è voltata, girando su se stessa mentre il proiettile la colpiva, e poi è caduta sul piccolo.
Credeva davvero di poter salvare il bambino? Forse no, pensa Art. Forse non voleva che il piccolo vedesse la morte fiammeggiare dalla canna del fucile. Forse voleva che l’ultima sensazione provata dal bimbo in questo mondo fosse il contatto con il suo seno. Tra le braccia dell’amore.
»
Il potere del cane, di Don Wislow - Daniele
«Il cielo sopra il porto aveva il colore di un televisore sintonizzato su un canale morto.
- Non è come ero abituato. - Case lo sentì dire da qualcuno, mentre si faceva largo tra la calca, a gomitate, per infilarsi nella porta dello Chat. - E' come se all'improvviso il mio corpo fosse affamato di droga, affamato da morire -. Era la voce di uno di quei disperati che pullulavano abitualmente in quei quartieri multiformi e caotici chiamati in gergo "sprawl".
Il Chatsubo era un bar per espatriati professionisti: potevate berci per un'intera settimana senza sentire due parole in giapponese.
Ratz si stava occupando del bar; il suo braccio meccanico si muoveva con scatti automatici sempre uguali mentre riempiva alla spina un vassoio di bicchieri di Kirin.
Vide case e sorrise. I suoi denti erano un mosaico di acciaio dell'Europa orientale e di carie marrone.
Case trovò un posto al banco, tra l'improbabile abbronzatura di una delle puttane di Lonny Zone e la fresca uniforme di marina di un alto africano, i cui zigomi erano una successione ben ordinata di crinali formati da cicatrici tribali. - Wage è stato qui sul presto con due scagnozzi - l'informò Ratz riempiendo alla spina un bicchiere di Kirin e spingendolo verso di lui attraverso il banco. - Forse qualche affare con te, Case? -.
»
Neuromante, di William Gibson - Polyfilo
«All’inizio, è indispensabile porre ogni attenta cura nello stabilire i più esatti equilibri. Ciò è ben noto ad ogni sorella Bene Gesserit. Così, nell’intraprendere lo studio della vita di Muad’Dib, conviene per prima cosa collocarlo esattamente nel suo tempo: egli nacque nel cinquantasettesimo anno dell’imperatore Padiscià Shaddam IV. Cura ancora maggiore va usata nel collocare Muad’Dib nel suo giusto luogo: il pianeta Arrakis. Non ci si deve lasciar ingannare dal fatto che egli sia nato su Caladan e vi abbia trascorso i primi quindici anni. Arrakis, il pianeta noto come Dune, è il suo giusto luogo, per sempre.»
Dune, di Frank Herbert - Patrizia

«Per un uomo della sua età, cinquantadue anni, divorziato, gli sembra di aver risolto il problema del sesso piuttosto bene. Il giovedì pomeriggio va in macchina a Green Point. Alle due in punto preme il campanello all'ingresso di Windsor Mansions, dice il suo nome ed entra. Sulla porta del n. 113 lo aspetta Soraya. David attraversa la camera, che profuma di buono e ha una luce soffusa, e si spoglia. Soraya esce dal bagno, lascia cadere l'accappatoio e s'infila nel letto accanto a lui. – Ti sono mancata? – gli domanda. – Mi manchi sempre, – risponde David. Le accarezza la pelle color del miele, senza i segni del sole; la fa distendere, le bacia il seno; fanno all'amore.»
Vergogna, di J.M. Coetzee - Tancredi

«La storia è quasi finita
C'è polvere in quest'aula che è un caravan, e i capelli di Mira la professoressa sono di un arancione finto e hanno le punte bruciate. Adesso siamo vicini al diploma, abbiamo diciassette anni, e abbiamo quasi finito tutta la storia israeliana. La storia del mondo l'abbiamo finita in seconda superiore. Le pagine del libro di testo parlano già del 1982, pochi anni prima che nascessimo, un anno prima che fosse costruita questa città, quando qui vicino al confine con il Libano c'erano soltanto pini e collinette di pattume. Le parole di Mira la professoressa, che è anche la madre di Avishag, sfiorano quelle dette in segreto dai nostri genitori nelle sere di sbronza.
»
La gente come noi non ha paura, di Shani Boianjiu - Mara

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