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La Villa Pignatelli di Montecalvo tra oblio e sintomo

Creato il 17 febbraio 2014 da Vesuviolive

Villa-Pignatelli-di-Montecalvo_Nel 2008, a proposito della Biennale dell’architettura di Venezia, il Financial Times scrisse che: “le sale platealmente scure e decadenti erano riempite da una serie di volute generate al computer, lucenti superfici ripiegate, costruzioni parametriche e mobili di plexiglass, futuro fantascientifico come uno showroom di design. Venezia era la sede ideale per questo futurismo contorsionista perché si rivelava come una città obsoleta, un’ammaliante metropoli che il presente ignora“. Non citeremmo questo estratto se non altro per sottolineare come anche a Napoli, nel caso della nuova stazione della metropolitana Piazza Garibaldi – Linea 1, la storia si sia ripetuta, e come per Venezia, si siano conquistati i favori del pubblico basandosi esclusivamente su un manierismo dello stupore, sulla capacità ipnotica di topiche utopiche, piuttosto che sull’abilità e il genio di riscrittura dei luoghi e delle dimensioni da abitare.

Piazza Garibaldi rendering

Piazza Garibaldi, da progetto di Dominique Perrault (rendering)

Possono, ci chiediamo ora con questo nostro articolo, lo spettacolo inebetente e l’insipienza delle masse disarmate, di fronte il nuovo gusto internazionale (americano, o più in generale del real estate), essere i parametri discriminatori in base ai quali censire i margini di consenso di una intera cittadinanza, a proposito “della buona o cattiva riuscita” di un’opera pubblica?

Noi riteniamo di no, e, ancor di più, che l’unilateralità dei giudizi espressi dai media in merito a quest’opera sia stata un’ulteriore prova di quanto vulnerabile sia la cittadinanza nei confronti dei poteri forti, che retroagendo alle amministrazioni e all’informazione, irregimentano il gusto, letteralmente ci fanno daccapo, a discapito  della collettività; ciò in cui  paternalismo e camorra hanno fallito, la plebeizzazione delle masse organizzate, il consumismo esce vittorioso, deprimendo il mito europeo della città stratificata, del bene costruito per l’eternità e da consegnare con responsabilità alla storia, in virtù di un brand, di un’architettura delle strutture digitali, mediatiche, che ridotta ad ancella di un capitalismo delle immagini, come ha scritto anche La Cecla in Contro l’architettura, “si sovrappone come una scritta luminosa alle montagne d’immondizia e di incuria che vi si possono accumulare dietro”. Napoli, come Palermo e Milano, sta diventando una delle tante Disneyland occidentali, una città irreale, dove lo spettacolo sostituisce la quotidianità, dove gli stadi, i teatri, le stazioni, gli aeroporti esplodono di uno shopping bianco e anglofono; tutto questo ignora ciò che Napoli è oggi, un “laboratorio politico e culturale per una modernità alternativa” che non esiste ancora, una terra in cui, forse, sforzarsi di pensare alla possibilità di un unico popolo europeo non è follia, un luogo di ospitalità dove i migranti di tutto il mondo affollano il centro storico per mettere radici, per lasciare una testimonianza del loro passaggio, mentre i partenopei ripartono ancora una volta verso un ignoto da rendere fecondo.

Piazza Garibaldi Lavori

lavori in corso in Piazza Garibaldi

Napoli, come fu Venezia, è stata ritenuta la sede ideale per un’ispirazione profondamente antiarchitettonica, americana e antiurbanistica, dell’architettura, la quale riduce tutto ciò che differisce al medesimo, al simmetrico. Il progetto “Garibaldi 1 – Garibaldi 2″   di Dominique Perrault, l’architetto francese a capo dei lavori, sembrerebbe essere, sostanzialmente, indifferente alla città, alla sua storia, ai suoi linguaggi, a un gusto autoctono che il presente non riconosce; e tutto questo per acciaio e vetro, “strutture diafane che rispondono di tutto di fronte a tutti”, che confondono pericolosamente pubblico e privato. In altre parole Perrault fa mostra del suo ombelico senza aver messo alla prova il proprio talento, senza ascoltare la città, senza aver letto, e reinterpretato, quel materiale simbolico e immaginario a cui tutte le generazioni rivoluzionarie e d’avanguardia, da sempre, si rivolgono per poter trarre ispirazione e riconoscimento, per poter inventare se stesse. Quest’ultima trovata fantascientifica, americana, nuoce gravemente alla città, non solo perché è incoerente rispetto alla sua tradizione, ma in quanto essa fagocita letteralmente tutto ciò che si è depositato, scritto su di noi, nel corso dei secoli, e che da sempre rispecchia il complesso mondo delle asimmetrie, degli anacronismi, delle sopravvivenze, delle impronte, di tutto ciò che è storico. L’ultramodernismo postmoderno celebra un senso estetico perverso, il quale risucchia ciò che di per sé aspira a durare nel tempo nel gioco dell’effimero. Per Perrault l’architettura non è più una esperienza operata con senno ma un gesto intuitivo, non è più la ricerca di un’armonia tra corpi e dimensioni ma l’atto di un pensiero narcisista, ripiegato su se stesso e in se stesso.

La ragione critica e illuminista viene rigettata per un immaginario al di là di ogni ipotesi di realtà, e l’opera diviene il mezzo col quale la personalità dell’ archistar si espande sul mondo al fine di inghiottirlo e defecarlo; in questa esplosione egoistica ciò che lo circonda viene ridotto a uno zero, e con esso le esistenze per le quali l’architettura tradizionalmente si fa. Se in Perrault ci fosse un gusto, esso non sarebbe altro che quello della virtualità digitale, degli studi tridimensionali dell’ingegneria strutturale, che ignora il senso storico orientato delle dimensioni in cambio di asettici e puri spazi geometrici (per i quali che si parli di Parigi o di Atlantide, del 2014 o del V secolo a. c., è, paradossalmente, la stessa cosa).

Il progetto della nuova stazione non ha avuto inizio nella continuità o nella discontinuità storica nella nostra città, non è sorta da essa, non ha tratto ispirazione dalle sue aspettative e dal suo retaggio, ma da puri modelli elettronici, passe-partout elaborati a migliaia di km, dischiusi nell’automazione di un disegno elaborato al computer.

Villa Pignatelli di Montecalvo prima delle mesa in sicurezza

Villa Pignatelli di Montecalvo prima delle mesa in sicurezza

Non sottolineeremo quest’ultimo punto se non fosse per il fatto che questa concezione narcisistica dell’architettura è una minaccia per l’attualità e le generazioni future: in quanto chi non ha un proprio passato non può avere futuro. Uno dei numerosi e più eclatanti sintomi di questa civiltà della comunicazione, del gusto digitale, di cui noi soffriamo più di quanto siamo consapevoli, continua a rimanere la mancata valorizzazione del Miglio d’oro, e la decadenza di uno dei suoi magnifici araldi, uno degli esempi di più luminosa modernità vesuviana, la Villa Pignatelli di Montecalvo, la quale, nel suo esempio, ci istruisce ancora a dovere su come nessuna progettualità può seguire all’irreversibile rimozione del proprio passato, e su come la rimozione forzata di ciò che ci appartiene dalle origini non fa altro che riconsegnarci a un mondo anonimo, in cui perderemmo noi stessi. Nuovi abusi sono comparsi all’interno, come all’esterno, del complesso architettonico settecentesco del Largo Arso.

La Villa Pignatelli di Montecalvo non solo sembra appesantita dall’usura del tempo e dall’abbandono, dai fantasiosi rifacimenti cementizi, delle funamboliche riduzioni nel lume delle finestre, dalla vergognosa gabbia di impalcature, sostegni e tiranti che inglobano l’intero, ma dall’oblio e dall’immobilismo delle istituzioni. A parte le intimidazioni riportate, il comune di San Giorgio a Cremano continua a non rendere effettivo un esproprio formale e pratico delle proprietà private, compromettendo ulteriormente la salvazione possibile del monumento. Ma cosa si sta aspettando? Si attende che la Villa del rococò vesuviano crolli per non preoccuparcene più? Può un apolide patto di stabilità europea (tuttavia sottoscritto da un popolo europeo che non esiste ancora) mettere in discussione l’unità della cittadinanza, la sovranità popolare, le radici di una cultura?

A partire da ciò ci chiediamo: in questo momento di crisi economica, di stanchezza sociale, di declino politico e dell’autorità, come è possibile trovare soluzioni in città sradicate dalla loro storia? Quali mete potremmo raggiungere senza i punti di riferimento che educano e concretizzano le nostre aspettative, e con esse nutrono il nostro desiderio per l’emancipazione?

L’opera del 1747 dell’architetto Ferdinando Sanfelice , edificata per volontà di Emanuella Caracciolo Pignatelli, ci risponde autorevolmente in merito più di qualsiasi trattato o monografia, e lo fa attraverso la testimonianza morale della denuncia, il potere di una evidenza che ci rende come spaesati. La Villa Pignatelli sta andando in pezzi, la Villa Pignatelli è a pezzi, questo è evidente, ma non può perciò essere obliata, dimenticata, ridotta al silenzio della nuda roccia, come una delle tante pietre senza età.

Villa Pignatelli di Montecalvo dopo la messa in sicurezza

Villa Pignatelli di Montecalvo dopo la messa in sicurezza

Colpiti dall’ennesima crisi del mondo moderno, e dalla melanconia che ad essa consegue, richiamiamo lo sguardo delle anime belle e la passione dei più alle loro responsabilità, contro i criminali stravolgimenti della nostra città (e dei 24 comuni del vesuviano ad essa inscindibilmente legati), contro le “operazioni in nero” perpetrate a discapito della nostra identità, affinché il nostro passato non smetta di sussurrarci la saggezza dei nostri padri.


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