Dai disoccupati di Napoli ai manifestanti di Vicenza contro l’allargamento della base americana del Dal Molin, dai manifestanti no Tav per non tornare alla scurissima pagina del G8 di Genova, Berlusconi ha mantenuto fede alla sua minaccia di “far sentire forte la presenza dello Stato in ogni momento della vita pubblica”. Con il tempo ci siamo resi conto che, per Silvio, la presenza forte dello Stato significa sostanzialmente l’uso del manganello, preferibilmente “leggero”, contro chiunque provi a essere in disaccordo con le linee del suo governo. I modi spicci, e rudi, con cui Berlusconi promise di mantenere l’ordine pubblico, sono stati adottati in toto dal ministro dell’Interno Roberto “BoboBluesman” Maroni che non avrà i soldi per la benzina delle volanti della Polizia ma riesce sempre a trovare quelli per le tenute antisommossa. Accade così sempre più spesso che se uno si trova a passare dalle parti di una manifestazione, o incappa in un corteo, il rischio di una manganellata in testa a prescindere, si fa altissimo con la conseguenza di non ricordare il motivo per il quale si è comodamente seduti su un lettino del pronto soccorso con il medico che trapunta il cuoio capelluto. In Italia sta accadendo che agenti di polizia stressati da chi li considera meno dei ragazzotti delle ronde padane, a volte perdano il senso della misura. A parte quelli della Diaz di Genova, che picchiavano cantando Faccetta nera e inneggiando a Pinochet, la maggior parte degli altri sono uomini (e donne) che credono profondamente nello Stato e nel loro “ufficio” di tutela delle libertà dei cittadini. Magari oggi si entra in Polizia più per uno stipendio, anche se misero, che non per “fede” ma, una volta indossata quella divisa, difficilmente capita che qualcuno tradisca il proprio impegno a meno che non acquisti una Fiat Uno di colore bianco e non decida di fare il bandito. Ci piacerebbe stare per un momento nella testa dei poliziotti che hanno malmenato i terremotati aquilani ieri a Roma. Ci piacerebbe sapere chi ha dato loro l’ordine di farlo e seguendo quale logica, se non quella di non disturbare il presidente del consiglio impegnato con i suoi lacchè a Palazzo Grazioli. Così come, qualora fosse possibile, ci piacerebbe rintracciare il poliziotto che il 18 settembre 1996, in via Bellerio a Milano, corse il rischio di essere morso alla caviglia dal futuro ministro dell’Interno Roberto Maroni, impegnato con Bossi a respingere una perquisizione nella sede della Lega Nord. A quel poliziotto vorremmo chiedere che effetto gli fa, oggi, essere al servizio di un tizio che quasi 15 anni fa attentò non solo alla sua caviglia ma anche alla Costituzione e all’integrità dello Stato. Per quella sciocchezzuola (resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, mica una multa per divieto di sosta), l’attuale ministro dell’Interno è stato condannato, in via definitiva, a 4 mesi e 20 giorni di reclusione. Ma sul capo del ministro Maroni, fino a quando il centrodestra nel 2005, con una legge ad hoc, non decise di “sanarla”, pendeva anche un’accusa ben più pesante che era appunto quella di “attentato alla Costituzione”. Stiamo parlando del Maroni capo delle Camicie Verdi, ispiratore delle Ronde Padane e creatore di una struttura paramilitare fuorilegge al quale Berlusconi ha concesso di guidare il ministero che fino a qualche anno fa era fumo negli occhi dei leghisti. Preso atto del retroterra culturale del ministro, il ricorso al manganello ci sembra l’atteggiamento conseguente di chi, non potendo argomentare usando l’intelligenza, si fa forte della forza. Ma ieri si è toccato il fondo e si è risposto alla disperazione con la violenza. Ce n’è abbastanza per dire al ministro Maroni: “Caro ministro, a lei piace il blues e quindi non può essere così rozzo come la stampa non governativa la descrive. Capisca e lasci perdere, un lavoro da tastierista lo troverà sempre. Si dimetta. Per manifesta insensibilità”.
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La violenza contro la disperazione. Ministro Maroni perché non si dimette?
Creato il 08 luglio 2010 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Dai disoccupati di Napoli ai manifestanti di Vicenza contro l’allargamento della base americana del Dal Molin, dai manifestanti no Tav per non tornare alla scurissima pagina del G8 di Genova, Berlusconi ha mantenuto fede alla sua minaccia di “far sentire forte la presenza dello Stato in ogni momento della vita pubblica”. Con il tempo ci siamo resi conto che, per Silvio, la presenza forte dello Stato significa sostanzialmente l’uso del manganello, preferibilmente “leggero”, contro chiunque provi a essere in disaccordo con le linee del suo governo. I modi spicci, e rudi, con cui Berlusconi promise di mantenere l’ordine pubblico, sono stati adottati in toto dal ministro dell’Interno Roberto “BoboBluesman” Maroni che non avrà i soldi per la benzina delle volanti della Polizia ma riesce sempre a trovare quelli per le tenute antisommossa. Accade così sempre più spesso che se uno si trova a passare dalle parti di una manifestazione, o incappa in un corteo, il rischio di una manganellata in testa a prescindere, si fa altissimo con la conseguenza di non ricordare il motivo per il quale si è comodamente seduti su un lettino del pronto soccorso con il medico che trapunta il cuoio capelluto. In Italia sta accadendo che agenti di polizia stressati da chi li considera meno dei ragazzotti delle ronde padane, a volte perdano il senso della misura. A parte quelli della Diaz di Genova, che picchiavano cantando Faccetta nera e inneggiando a Pinochet, la maggior parte degli altri sono uomini (e donne) che credono profondamente nello Stato e nel loro “ufficio” di tutela delle libertà dei cittadini. Magari oggi si entra in Polizia più per uno stipendio, anche se misero, che non per “fede” ma, una volta indossata quella divisa, difficilmente capita che qualcuno tradisca il proprio impegno a meno che non acquisti una Fiat Uno di colore bianco e non decida di fare il bandito. Ci piacerebbe stare per un momento nella testa dei poliziotti che hanno malmenato i terremotati aquilani ieri a Roma. Ci piacerebbe sapere chi ha dato loro l’ordine di farlo e seguendo quale logica, se non quella di non disturbare il presidente del consiglio impegnato con i suoi lacchè a Palazzo Grazioli. Così come, qualora fosse possibile, ci piacerebbe rintracciare il poliziotto che il 18 settembre 1996, in via Bellerio a Milano, corse il rischio di essere morso alla caviglia dal futuro ministro dell’Interno Roberto Maroni, impegnato con Bossi a respingere una perquisizione nella sede della Lega Nord. A quel poliziotto vorremmo chiedere che effetto gli fa, oggi, essere al servizio di un tizio che quasi 15 anni fa attentò non solo alla sua caviglia ma anche alla Costituzione e all’integrità dello Stato. Per quella sciocchezzuola (resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, mica una multa per divieto di sosta), l’attuale ministro dell’Interno è stato condannato, in via definitiva, a 4 mesi e 20 giorni di reclusione. Ma sul capo del ministro Maroni, fino a quando il centrodestra nel 2005, con una legge ad hoc, non decise di “sanarla”, pendeva anche un’accusa ben più pesante che era appunto quella di “attentato alla Costituzione”. Stiamo parlando del Maroni capo delle Camicie Verdi, ispiratore delle Ronde Padane e creatore di una struttura paramilitare fuorilegge al quale Berlusconi ha concesso di guidare il ministero che fino a qualche anno fa era fumo negli occhi dei leghisti. Preso atto del retroterra culturale del ministro, il ricorso al manganello ci sembra l’atteggiamento conseguente di chi, non potendo argomentare usando l’intelligenza, si fa forte della forza. Ma ieri si è toccato il fondo e si è risposto alla disperazione con la violenza. Ce n’è abbastanza per dire al ministro Maroni: “Caro ministro, a lei piace il blues e quindi non può essere così rozzo come la stampa non governativa la descrive. Capisca e lasci perdere, un lavoro da tastierista lo troverà sempre. Si dimetta. Per manifesta insensibilità”.
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